Giuseppe Pennisi
Molti hanno applaudito le stime secondo cui per il terzo anno consecutivo il conto economico (o bilancio d’esercizio) dell’Inps segna un considerevole utile di gestione (circa 6 miliardi di euro). Tale utile può essere considerato come un’indicazione che il “tormentone” previdenziale italiano sta terminando e dobbiamo smetterla di parlare di riforme della previdenza? Senza dubbio, un utile è preferibile ad un disavanzo. Tuttavia, l’Inps copre solamente parte dell’universo previdenziale e riceve un congruo contributo dall’erario a titolo di separazione tra assistenza e previdenza (in molti Paesi Ocse parte delle voci da noi considerate “assistenza” rientrano a pieno titolo nella “previdenza”). Ci sono, poi, determinanti di breve periodo destinante ad esaurire il loro apporto ai conti Inps: a) l’aumento dei contributi di numerose categorie varato nella scorsa legislatura; b) la regolarizzazione di 200.000 extra-comunitari e neo-comunitari; c) l’emersione di 80.000 lavoratori in nero. Un tassello è particolarmente fragile: le regole Ue e i trattati dell’Italia con molti Paesi extra-comunitari prevedono che al rientro in patria i lavoratori portino seco (ai loro enti previdenziali nazionali) i contributi versati da loro e dai loro datori di lavoro. Altro tassello fragile riguarda le entrate: vengono contabilizzati crediti (nei confronti principalmente di imprese renitenti al pagamento dei contributi) per 30 miliardi di euro- arduo ipotizzare che ne venga recuperato più del 30-50% (in tal caso l’attivo di d’esercizio prospettato per il 2009 diventerebbe un passivo). I conti possono sembrare incipriati.
Come si è detto, l’Inps non copre tutta la spesa previdenziale: i conti di altri istituti- Inpdap in particolare – forniscono un quadro non affatto incoraggiante. Il punto cruciale è che sulla base delle nuove stime di crescita dell’economia italiana c’è l’alta probabilità la spesa totale per la previdenza passi dal 14% del pil nel 2008 al 19-20% nel 2018, togliendo risorse ad altri settori importanti (istruzione, ricerca, supporto alla trasformazione produttiva).
Il quadro non è solamente fosco. C’è un tracollo delle richieste di pensionamento d’anzianità ed un graduale prolungamento dell’età in cui si va a riposo. Stanno cambiando in senso virtuoso i comportamenti – un effetto ritardato delle norme del 1993 e del 1997 in materia di indicizzazione (che comportano un’erosione, nel tempo, del valore reale dei trattamenti). Tale cambiamento è molto più importante di conti più o meno imbellettati.
Basta contare su un ulteriore modifica spontanea dei comportamenti nella direzione appropriata? Probabilmente no. Occorre rimettere mano ai coefficienti per trasformare in trattamenti annuali i montanti di contributi accumulati nella vita lavorativa. La soluzione migliore sarebbe prevedere una riduzione maggiore dell’attuale della differenza tra ultimo stipendio e prima pensione ma un aumento significato del’assegno previdenziale dai 75 anni in più – quando maggiore è l’esigenza di assistenza. Ciò inciderebbe davvero sui comportamenti .
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento