mercoledì 16 settembre 2009

BILANCIO POSITIVO INPS MA LE PENSIONI RESTANO DA RIFORMARE Avvenire 16 settembre

Giuseppe Pennisi
Molti hanno applaudito le stime secondo cui per il terzo anno consecutivo il conto economico (o bilancio d’esercizio) dell’Inps segna un considerevole utile di gestione (circa 6 miliardi di euro). Tale utile può essere considerato come un’indicazione che il “tormentone” previdenziale italiano sta terminando e dobbiamo smetterla di parlare di riforme della previdenza? Senza dubbio, un utile è preferibile ad un disavanzo. Tuttavia, l’Inps copre solamente parte dell’universo previdenziale e riceve un congruo contributo dall’erario a titolo di separazione tra assistenza e previdenza (in molti Paesi Ocse parte delle voci da noi considerate “assistenza” rientrano a pieno titolo nella “previdenza”). Ci sono, poi, determinanti di breve periodo destinante ad esaurire il loro apporto ai conti Inps: a) l’aumento dei contributi di numerose categorie varato nella scorsa legislatura; b) la regolarizzazione di 200.000 extra-comunitari e neo-comunitari; c) l’emersione di 80.000 lavoratori in nero. Un tassello è particolarmente fragile: le regole Ue e i trattati dell’Italia con molti Paesi extra-comunitari prevedono che al rientro in patria i lavoratori portino seco (ai loro enti previdenziali nazionali) i contributi versati da loro e dai loro datori di lavoro. Altro tassello fragile riguarda le entrate: vengono contabilizzati crediti (nei confronti principalmente di imprese renitenti al pagamento dei contributi) per 30 miliardi di euro- arduo ipotizzare che ne venga recuperato più del 30-50% (in tal caso l’attivo di d’esercizio prospettato per il 2009 diventerebbe un passivo). I conti possono sembrare incipriati.
Come si è detto, l’Inps non copre tutta la spesa previdenziale: i conti di altri istituti- Inpdap in particolare – forniscono un quadro non affatto incoraggiante. Il punto cruciale è che sulla base delle nuove stime di crescita dell’economia italiana c’è l’alta probabilità la spesa totale per la previdenza passi dal 14% del pil nel 2008 al 19-20% nel 2018, togliendo risorse ad altri settori importanti (istruzione, ricerca, supporto alla trasformazione produttiva).
Il quadro non è solamente fosco. C’è un tracollo delle richieste di pensionamento d’anzianità ed un graduale prolungamento dell’età in cui si va a riposo. Stanno cambiando in senso virtuoso i comportamenti – un effetto ritardato delle norme del 1993 e del 1997 in materia di indicizzazione (che comportano un’erosione, nel tempo, del valore reale dei trattamenti). Tale cambiamento è molto più importante di conti più o meno imbellettati.
Basta contare su un ulteriore modifica spontanea dei comportamenti nella direzione appropriata? Probabilmente no. Occorre rimettere mano ai coefficienti per trasformare in trattamenti annuali i montanti di contributi accumulati nella vita lavorativa. La soluzione migliore sarebbe prevedere una riduzione maggiore dell’attuale della differenza tra ultimo stipendio e prima pensione ma un aumento significato del’assegno previdenziale dai 75 anni in più – quando maggiore è l’esigenza di assistenza. Ciò inciderebbe davvero sui comportamenti .

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