Nei prossimi anni, verosimilmente nei prossimi lustri, la strategia in materia d’immigrazione sarà al centro del dibattito politico, economico e sociale quale che sarà il colore della maggioranza o dell’opposizione. È un tema a cui la Fondazione Farefuturo dedica speciale attenzione, come indicato dagli interventi sul webmagazine e dal seminario che tra circa un mese si terrà ad Asolo, organizzato congiuntamente con la Fondazione Italianieuropei. La determinante principale del problema risiede nel fatto che l’Italia è passata (nel giro di pochi decenni) da paese d’emigrazione netta a paese d’immigrazione netta. Come ho ricordato su questo magazine all’inizio di luglio, nel 1980 un mio libro sul tema venne trattato da molti editori come un testo di fantaeconomia tanto che, alla fine, apparve solo in inglese per i tipi di un editore tedesco.
In breve, tra il 1876 e il 1976 partirono dall’Italia oltre 24 milioni di uomini, donne e bambini (con una punta massima nel 1913 - oltre 870.000 partenze). Per tutto questo periodo, il fenomeno dell'immigrazione è stato invece pressoché inesistente, ove si eccettuino le migrazioni dovute alle conseguenze della seconda guerra mondiale, come l'esodo istriano o il rientro dalle ex-colonie d'Africa. Tali fenomeni tuttavia avevano un carattere episodico e non presentavano sostanziali problemi d'integrazione dal punto di vista sociale o culturale in quanto si trattava di persone che, pur risiedendo in terre lontane, appartenevano alla Nazione Italia. Siamo rimasti un paese dal saldo migratorio negativo. Ancora nel 1957, anno della firma del Trattato di Roma, 400mila italiani emigrarono. Nel 1973, l'Italia ebbe per la prima volta un leggerissimo saldo migratorio positivo (101 ingressi ogni 100 espatri), ma gli ingressi erano ancora in gran parte costituiti da emigranti italiani che rientravano nel paese, piuttosto che da stranieri.
Il flusso di stranieri cominciò a prendere consistenza solo verso la fine degli Anni Settanta sia per la "politica delle porte aperte" praticata dall'Italia, sia per le politiche più restrittive adottate da altri paesi. Nel 1981, il primo censimento Istat degli stranieri in Italia calcolava la presenza di 321mila stranieri, di cui circa un terzo "stabili" e il rimanente "temporanei". Un anno dopo veniva proposto un primo programma di regolarizzazione degli immigrati privi di documenti, mentre nel 1986 fu varata la prima legge in materia, con cui ci si poneva l'obiettivo di garantire ai lavoratori extracomunitari gli stessi diritti dei lavoratori italiani. Secondo i dati Istat più recenti, relativi al primo gennaio 2008, sono presenti in Italia 3.432.651 stranieri, pari al 5,76% della popolazione, con un incremento, rispetto all'anno precedente, del 16,8% (493mila persone, il valore più alto degli ultimi anni). In questo valore non sono comprese le naturalizzazioni (45.485 casi, fenomeno ancora relativamente limitato), né ovviamente gli irregolari. L’età dei censiti è decisamente più bassa di quella italiana; i minorenni sono 767.060 (tra un quarto e un quinto del totale) mentre gli stranieri nati in Italia sono ormai 457.345.
Questi dati non pretendono di essere esaurienti, ma sono essenziali per toccare con mano il contesto in cui si situa un fenomeno e l’esigenza di elaborare politiche, programmi e misure con un alto grado di quella che noi economisti chiamiamo “efficienza adattiva”, ossia la capacità politica di adattarsi al mutare del contesto. Ad esempio, in un paese in cui mezzo milione di stranieri sono nati sul territorio, occorre chiedersi quanto è “efficiente” alzare barricate contro uno jus loci che prima o poi verrà applicato (poiché è nelle tendenze a lungo termine). In un paese a progressivo invecchiamento e in cui sempre meno si può contare sulla famiglia estesa per la cura degli anziani, quali sono le strategie di “efficienza adattiva” che possono assicurare uno stock e un flusso regolare di “badanti”? Inoltre, quanto è “efficiente” frenare proposte atte a dare il diritto di voto, almeno alle elezioni amministrative, a stranieri che sono regolarmente in Italia, che producono e consumano nel paese e vi pagano le tasse? Oppure quanto è “efficiente” porre ostacoli più che altrove al processo di naturalizzazione?
Non sono interrogativi, questi, da “anime belle” (o che vogliono sentirsi e farsi considerare tali), ma interrogativi di politica alta che sa guardare lontano, nella consapevolezza che chi difende l’esistente (in un mondo in rapido cambiamento) è destinato a essere perdente. Prendiamo due aspetti specifici tra i tanti che si potrebbero citare. Uno di più ampia portata e uno a livello “micro”. Riguardano rispettivamente l’immigrazione in Italia nel contesto Ue e le misure per l’integrazione. A proposito del primo, l’opinione dominante è che l’Italia sia un approdo di transito verso altri paesi europei – transito spesso destinato a diventare molto duraturo a ragione della porosità nel nostro sistema paese. E se , invece, il nostro paese diventasse come l’ "Hotel Canada" per riprendere il titolo di un saggio di Don J. Devoretz della Fraser University (Iza Discussion Paper n. 4312)? Ovvero se il fenomeno potesse essere indirizzato verso una “immigrazione circolare” in cui ottenuto un permesso di soggiorno permanente, valido nel resto dell’Ue, il transito verso altri luoghi (nel caso del Canada gli obiettivi preferiti sono gli Usa e Hong Kong) diventasse un deflusso regolare? È obiettivo desiderabile e fattibile di politica economica dell’immigrazione? Non è facile dare una risposta, ma occorre quanto meno porre il problema.
Prendiamo ora le misure per l’integrazione. Con la nostra tendenza mediterranea al piagnisteo, enfatizziamo, a ragione, il fatto che siamo carenti di mezzi e di risultati rispetto ad altri paesi con storia più lunga e maggiore esperienza nel campo. Dimentichiamo, però, esperienze “micro” di notevole importanza. È il caso, per esempio, dell’Orchestra Interetnica di Piazza Vittorio, che ha rielaborato “Il Flauto Magico” di Wolfgang Amadeus Mozart reinventandone sia la vicenda che la musica: i temi e le armonie di Mozart stringeranno la mano alla musica etnica e a quel particolare mélange di pop, reggae, rock e jazz che contraddistingue il complesso, in una produzione di RomaEuropaFestival già applaudita a Lione, Atene e Barcellona e che, il 23 settembre, inizierà al Teatro Olimpico della capitale la sua tournée italiana. È una misura forse piccola, ma è un segnale chiaro di cosa si intenda per “efficienza adattiva”.
14 settembre
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