Dopo anni di emergenza continua, la riforma del Fondo unico per lo spettacolo (Fus) è ormai diventata improrogabile non solo per le “grida di dolore” che, a torno od a ragione, si levano da tutto il settore ma anche in quanto il dibattito pare assumere caratteri folkloristici quali la sfida a duello che una personalità del mondo dello spettacolo ha lanciato al Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione. Da alcuni anni, la dotazione del Fus diminuisce (anche e soprattutto a ragione delle implicazioni sulla finanza pubblica della bassa crescita economica, prima, e della recessione, poi), ma il numero dei soggetti beneficiari (alcuni per contributi di €10.000 l’anno !”) aumenta; il risultato è la polverizzazione a pioggia degli stanziamenti.
L’urgenza della riforma non vuole dire che si debba trattare di un riassetto definito senza un’adeguata consultazione con esponenti ed esperti del settore. Sarebbe auspicabile che la tematica non sia affrontata unicamente da un gruppo molto ristretto di dirigenti ministeriali e di giuristi . Merita di essere discussa in seno al Consiglio Superiore dei Beni Culturali per avere il parere di altre discipline. Sono da incoraggiare iniziative come quella dell’Istituto Bruno Leoni che il primo ottobre a Milano ha indetto un seminario per esaminare una “success story” romana e le lezioni di politica legislativa che se ne possono apprendere.
La metà del Fus è da anni a supporto delle fondazioni liriche. Quindi, riforma del Fus vuole dire in primo luogo riforma del finanziamento pubblico alla lirica, anche perché per il cinema la strada tracciata è quella del credito d’imposta e di agevolazioni fiscale in linea con la normativa Ue. “Le aziende italiane potranno cominciare a investire anche nel cinema”. L’Ue ha dato via libera a questa forma di finanziamento pubblico indiretto alle produzioni cinematografiche, che rende possibile e favorisce il coinvolgimento di aziende italiane che, pur operando in altri settori, intendono investire nel cinema nazionale, in forme che saranno presto delineate nei decreti attuativi in via di pubblicazione. Verrà concesso un credito d’imposta del 40% per investimenti fino a 2 milioni e mezzo, per partecipare con quote minoritarie alla produzione e allo sfruttamento di film italiani. E’ già stata predisposta la modulistica necessaria per consentire ai produttori di richiedere il “tax credit”.
Per la lirica e la sinfonica, la diagnosi resta inquietante: in un Paese dove non si fa politica della cultura musicale da circa 70 anni, le fondazioni liriche (di diritti privato) sono in uno stato comatoso. A fronte del commissariamento di quattro fondazioni su 13 (e del probabile commissariamento di una quinta), di manifestazioni, le soluzioni non possono non tenere conto del “morbo di Baumol” (dal nome dell’economista, William Baumol, che negli Anni 60 ha scritto un fondamentale trattato sul settore): in un mondo di rapido progresso tecnologico, senza supporto pubblico (tramite sovvenzioni o sgravi tributari adeguati alle elargizioni filantropiche) la lirica muore (i teatri tedeschi hanno sovvenzioni che coprono mediamente il 90% dei costi e sono sempre pieni grazie ad un “sottostante” diffuso, popolare ed attivo). Per l’Italia, dove 400 anni fa è nato il teatro in musica, ciò vuol dire una perdita pesante di patrimonio nazionale. In sintesi, le soluzioni possibili sono le seguenti:
• Una revisione drastica della normativa sulle fondazioni che comporti un ripensamento del loro status giuridico ed una riduzione del loro numero (eliminandone un paio o per eccessiva contiguità territoriale con altre o perché hanno masse artistiche- orchestra, coro- qualitativamente al di sotto della media di buoni teatri europei).
• Imporre per legge una gestione delle fondazioni restanti basata sul binomio cooperazione-competitizione. Cooperazione vuole dire dare vita ad un cartellone nazionale con forti risparmi negli allestimenti e nei cachet degli artisti ed evitare che ciascuna fondazione miri a stagioni simili a mini-festival autoreferenziali. Competizione vuole dire premiare le fondazioni che, in base ai risultati di biglietteria e le valutazioni tecniche di una commissione internazionale, sappiano coniugare consuntivi in pareggio ed alta qualità. Non dovrebbe succedere che uno dei più applauditi spettacoli di questa estate abbia avuto un budget di 25.000 euro (e due sole rappresentazioni) ed uno dei più fischiati sia costato, secondo alcune stime, quasi 2 milioni di euro (per quattro rappresentazioni).
• Trasferire, nell’ambito del federalismo, alle Regioni “i teatri di tradizione”, i l”lirici sperimentali”, le “scuola d’opera” e simili. Gli eletti regionali decideranno se dare priorità al patrimonio lirico nazionale od alle fiere del carciofo gigante. Ed i loro elettori li giudicheranno.
Questo è naturalmente lo scheletro di un’architettura più complessa ancora tutta da elaborare.
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