Joseph Stiglitz ha abbracciato l’”economia della felicità” con l’entusiasmo dei neofiti. In effetti – ti ricordi, Joe, quando si andava a lunch a The Thorn Tree a Kimaty Road ed a cena o da Jacques o a The Lobster Pot nella Nairobi inizio anni 70 ? – il suo principale contributo alla professione è stata la teoria economica dell’informazione tanto sotto il profilo macro quanto sotto quello micro. Cominciò a lavorarci – ne fece il punto centrale della prolusione pronunciata quando gli venne conferito il Premio Nobel dell’Economia nel 2001- in quella fucina di pensiero e fantasia che era l’Istitute of Development Studies (IDS) della capitale del Kenya. Lì lavorava, fianco a fianco, con John Harris, Micheal Todaro e Richard Jolly specialmente sull’economia del lavoro e del capitale umano allo scopo di comprendere cosa inducesse tanti genitori e tanti ragazzi a completare cicli d’istruzione e migrare verso città dove non c’era lavoro per loro. Stiglitz, con Harris, Todaro e Jolly risposero che la determinante era un sistema distorto d’informazioni. Il vostro “chroniqueur” ha vivo e vivido in mente quel periodo perché, allora in Banca Mondiale, faceva luchi e frequenti soggiorni a Nairobi e frequentava l’IDS. Temi importanti ma distanti dall’”economia della felicità” al centro dell’attenzione degli economisti classici scozzesi e degli studiosi di economia pubblica e scienza delle finanze italiani e svedesi all’inizio del secolo scorso.
L’”economia della felicità “ –alla voce “economics of happiness” di Goggle escono circa 10 milioni di “entry”- viene da lontano ed è entrata anche nella pubblicistica giornalistica da decenni. Alla metà degli Anni 80, ad esempio, uscì sul “Wall Street Journal” un lungo articolo di un economista d’azienda giapponese intitolato, non senza una punta di polemica, “Konatabe, GNP!” (“Vai al diavolo, Pil ”- ma in nipponico, l’espressione è molto più volgare). In breve, l’articolo sosteneva che poiché il fine pure costituzionale del Giappone moderno è il “perseguimento della felicità”, occorre misurare la crescita non in termini di aumento del valore aggiunto di beni e servizi e della sua consueta ripartizione tra consumi e risparmi/investimenti ma in termini di incremento della felicità sia pubblica sia privata. Tanto più che tecniche di indagine socio-economica e psicologica (quali quelle delle “valutazioni contingenti”) ne rendevano fattibile la misurazione.
L’”economia della felicità” è divenuta una disciplina a se stante , con cattedre ad essa specificatamente intitolate, all’inizio degli Anni 90. Da una decina d’anni c’è anche una manualistica per integrare le analisi consuete , con tecniche condivise per il calcolo della felicità, specialmente sotto il profilo micro-economico. Non si tratta, necessariamente, di letteratura che fa ricorso a modellistica arcana ed ad algoritmi complicati. Tra i testi rigorosi ma accessibili anche a chi non ha dimestichezza con un armamentario quantitativo , utile segnalare il libro di Bruno Frey e Alois Stutzer “Happiness and Economics; how the economy and the institutions affect human well-being”, “Felicità ed economia; come l’economia e le istituzioni incidono sul benessere umano” Princeton University Press, 2002. In linguaggio chiaro , il volume analizza gli effetti economici della felicità e di converso il ruolo della felicità nel plasmare politiche economiche. Bruno Frey era noto in Italia molti anni prima che assumesse la cattedra di “economia della felicità” all’Università di Zurigo. La sua fama era legata ai suoi studi teorici ed empirici in tema di economia delle arti sceniche (in particolare di quella musa bizzarra ed altera che è l’opera lirica) e di economia del terrorismo. C’è un nesso tra lo studio (economico) delle arti sceniche, da un lato, del terrorismo, da un altro, e della felicità, da un altro ancora: si accantona l’assunto di base che il soggetto economico (indivduo, famiglia, impresa) abbia come obiettivo principale da massimizzare una qualche forma di utilità, e si entra nell’analisi economica dei sentimenti e della psiche (la “neuroeconomics” è ormai diventata una disciplina vera e propria) e con l’interazione tra comportamenti economici (sia micro sia macro) e sentimenti. Tra i lavori in italiano (nonché basati su studi ed esperienze italiane) di rilievo il libro Luigino Bruni e Stefano Zamagni “Economia civile, equità, felicità pubblica” , Il Mulino 2004.) . A livello pubblicistico ne ho trattato spesso sul settimanale “Il Domenicale” e su alcuni quotidiani.
Tra le applicazioni recenti, utile ricordare il dibattito su tassazione progressiva e felicità (sia pubblica sia privata) . Importante l’indagine empirica sull’impatto del benessere economico in termini di felicità in Australia , Germania, Gran Bretagna, Paesi Bassi ed Ungheria. L’indagine individua un tratto comune nei cinque: le spese per beni di consumo durevole contano almeno quanto i flussi di reddito in termini di felicità. Inoltre (altro tratto comune) cambiamenti in livelli di ricchezza, di reddito e di consumo producono mutamenti relativamente modesti in termini di soddisfazione, ossia di felicità. Da diversi anni, gli abbonati al servizio telematico del Social Science Resarch Network ricevono – ogni giorno – due newsletter con abstracts di saggi (con la possibilità di scaricarli) che trattano di “economia dei comportamenti” ; una delle due riguarda la metodologia, l’altra esperimenti concreti effettuati quasi in condizioni quasi di laboratorio (come un’aula universitaria allo scopo, ad esempio, di determinare cosa renda “più felice” un gruppo di giovani, voti più alti agli esami o maggior tempo libero).
Guardando verso il futuro a lungo termine, secondo un’analisi del servizio studi della Banca d’Italia, alla fine del XXI secolo, ci accontenteremo di un pil a crescita rasoterra poiché comunque, a ragione della diminuzione della popolazione, il reddito pro-capite mostrerà leggeri aumenti.
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