E’ il caso di stappare bottiglie di champagne ed affermare che i problemi previdenziali del Paese sono risolti? Martedì 15 settembre, il Consiglio di Indirizzo e di Vigilanza dell’Inps – ossia, nella “governance” duale dell’istituto, l’organo di governo designato dalle associazioni sindacali e imprenditoriali- esaminerà stime secondo cui l’esercizio di gestione per il 2009 esporrà un saldo attivo di 5,9 miliardi di euro. I bilancio di esercizio del 2008 e del 2009 si sono chiusi con saldi attivi attorno a 6,5-7 miliardi di euro ed il patrimonio netto dell’istituto è valutato in ben 45 miliardi; grande festa, quindi, a Via Ciro Il Grande (sede centrale Inps). E’ il caso di farla?
Occorre cautela prima di organizzarla. Le entrate Inps – al netto del contributo a carico dell’erario- sono aumentate in misura significativa in questi ultimi anni a ragione di determinanti di breve e medio periodo non di cambiamenti strutturali nell’evoluzione della spesa previdenziale e delle risorse per sostenerla, oppure dell’andamento demografico. Alcune di queste determinanti – la regolarizzazione di circa 200.000 stranieri (sia extra-comunitari sia neocomunitari) e la lotta al lavoro in nero con l’emersione di circa 80.000 uomini e donne tra dipendenti ed autonomi- sono chiaramente “una tantum”. Inoltre, le regole Ue e le “convenzioni” bilaterali con numerosi Paesi terzi prevedono che, in caso di rientro in Patria, i contributi versati all’Inps dagli stranieri e dai loro datori di lavoro vengano stornati agli istituti previdenziali dei Paesi di provenienza: possibile, quindi, che le entrate nette di oggi vengano in parte neutralizzate da uscite di domani. Alcuni scenari suggeriscono pure un deflusso netto, come si sta verificando in Canada. L’aumento dei contributi varato dal Governo Prodi è anche esso una misura i cui effetti si esauriscono nel giro di pochi anni, dopo il balzo iniziale di entrate da esso attivato. Tra le entrate messe in conto, poi, ci sono crediti per 30 miliardi nei confronti principalmente di imprese (che non hanno versato i contributi), ma il loro valore effettivo dipende dall’esito di circa mezzo milione di vertenze. La conclusioni di molte di queste sarà alla calende greche. Per molte altre, si dovrà giungere ad accordi extra-giudiziali che presumibilmente porteranno ad introiti inferiori a quelli oggi stimati. Se mediamente tali accordi comportassero una riduzione effettiva dei crediti del 30% (ipotesi prudenziale; è più verosimile un recupero attorno al 50%), si passerebbe da un attivo ad un passivo.
I nodi di fondo- economici, ancora prima che finanziari, e demografici – sono ben lungi dall’essere risolti. Lo mostrano a tutto tondo le previsioni nell’ultimo Dpef che pur ipotizzano una crescita economica più sostenuta (1,5-2% l’anno del pil) di quella che ora appare realistica (una ripresa lenta dopo una contrazione: si tornerebbe al pil del 2008 attorno al 2012) e mettevano in conto una modifica (al ribasso) dei “coefficienti di trasformazione” (i parametri con cui calcolare le annualità da erogare, ai pensionati, in base al montante di contributi spettante a ciascuno). Non molto differenti da quelle della Ragioneria Generale dello Stato ( sulle quali si basa il Dpef) sono le stime dell’Ocse e di uno studio dell’Università di Roma. In sintesi, mentre nella media dei Paesi Ue, la spese per la previdenza pubblica assorbono circa il 14%del pil, in Italia rischiano di arrivare al 16% - ove non al 18% - del pil prima di assestarsi sul 14% verso il 2050. Attenzione, secondo mie stime a ragione dell’andamento macroeconomico 2008-2012 nel 2020 circa, a regole invariate la previdenza potrebbe assorbire circa il 20% del pil. Quanto più si spende per la previdenza tanto meno si ha a disposizione per istruzione, cultura, e via discorrendo.
In questi anni, tutti gli altri Paesi Ocse si stanno prendendo misure per incoraggiare gli anziani a restare nel mercato del lavoro. La crisi economica è in molti Paesi il grimaldello per cambiare la normativa; nei Paesi scandinavi ed in Germania l’età legale della pensione viaggia più o meno gradualmente verso i 68 anni, ove non i 70. L’unica eccezione è la Francia, dove i lavoratori dipendenti nel settore privato vanno in pensione ancora a 60 anni (nel pubblico a 65, tranne alcune categorie quali i ferrorieri).
In Italia esiste un forte incentivo a restare sul mercato del lavoro (ma pochi lavoratori se ne sono accorti) : se si torna ad un tasso d’inflazione del 5% l’anno – come verosimilmente stanno programmando Usa ed Ue per liberarsi della montagna di debito accumulato in questi ultimi due anni-, nel giro di dieci anni il valore reale di molte pensioni medio-alte si ridurrà del 40%, quello di pensioni basse del 20%. Chi va in pensione presto, quindi, rischia grosso.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento