Qualche proposta per non perdere un patrimonio nazionale
Cooperazione e competizione
per salvare la musica
di Giuseppe Pennisi Tre preghiere non previste dalla liturgia chiudono la “Grande Messe Solennelle de Sainte Cécile” di Charles Gounod – una vera rarità per il panorama musicale italiano – ascoltata a Perugia al Teatro Morlacchi la sera del 25 settembre, a chiusura della Sagra Musicale Umbra, in un’esecuzione concertata da Michel Tabachnick alla guida del Noord Nederlands Orkest und Choor: la prima è “Pour la République”, la seconda “Pour l’Armée”, la terza “Pour la Nation”. Le tre preghiere danno il senso di quanto “la République”, “l’Armée” e “la Nation” siano centrali alla sensibilità dei nostri vicini francesi.
Questo magazine si occupa di riflessione politica, non di critica musicale. La Sagra Musicale Umbra ce ne fornisce un’occasione tanto più puntuale, in quanto è ormai imminente la riforma del Fondo unico per lo spettacolo (Fus), il principale strumento di politica musicale esistente in Italia. La manifestazione, nata nel lontano 1937 (è la più antica, con il Maggio Musicale, tra i festival italiani) è giunta alla 64esima edizione. È anche dedicata da sempre “alla musica dello spirito”, da intendersi in un senso più ampio di semplice “musica di Chiesa”. Nei suoi 67 anni, il festival ha spesso ospitato prime rappresentazioni, per l’Italia, di composizioni ispirate a religioni non-cattoliche e non-cristiane, o anche laiche pur se rivolte all’Alto.In questa edizione, opere di Georg Friedrich Haendel e Joseph Haydn (in occasione della ricorrenza dei 250 anni dalla morte del primo e dei 200 anni da quella del secondo) e chicche di Purcell e Alessandro Scarlatti vengono giustapposte al Novecento “storico” di Benjamin Britten e alla contemporaneità di Ivan Fedele, Sofia Gubaidulina, Salvatore Sciarrino, Arvo Pärt e Marco Momi, tutti con composizioni in qualche modo correlate a Santa Cecilia. Altri appuntamenti importanti, quelli con Soeur Marie Keyrouz e il suo Ensemble de la Paix per la prima volta a Perugia e alla Sagra, così come quelli con I Barocchisti diretti da Diego Fasolis, I Filarmonici di Baviera - KlangVerwaltung e l’Ensemble Epoca Barocca; mentre ritornano, sempre molto festeggiati, i Neue Vocalsolisten Stuttgart e Filippo Maria Bressan alla guida della Camerata Strumentale “Città di Prato” e del Coro Voxonus.La Sagra è iniziata al Teatro Morlacchi di Perugia il 12 settembre con l’esecuzione dell’oratorio Le Stagioni di Haydn, un grande affresco corale, diretto da Enoch zu Guttenberg alla guida dei Filarmonici di Baviera - KlangVerwaltung e del Chorgemeinschaft Neubeuern. Solisti, il soprano Carolina Ullrich, il tenore Jörg Dürmüller e il basso York Felix Speer. Anche la chiusura è avvenuta al Teatro Morlacchi, con l’esecuzione – come si è detto – della sontuosa Messa Solenne di Santa Cecilia di Charles Gounod. Due appuntamenti importanti per chi ama la musica contemporanea: il concerto, nel Museo di San Francesco a Montefalco, del gruppo Kamerinis Koras Brevis di Vilnius con l’Hymn to St. Cecilia di Britten e quello a Torgiano, nella Chiesa di San Bartolomeo, con Ullrike Brand al violoncello, Margit Kernalla bayan-fisarmonica e Roberta Cortese come voce recitante di due composizioni di Sofia Gubaidulina: In Croce per violoncello e fisarmonica e i Dieci preludi per violoncello solo, che accompagnano la recita di Paese senza parole di Dea Loher.
In breve, 16 concerti (di grandi complessi internazionali) in 15 città con grande partecipazione del pubblico locale. Non solo. Il Sovrintende del Festival di Salisburgo, Jürgen Flim, è stato letteralmente scovato dal direttore artistico tra il pubblico pagante in sala; era venuto per scoprire quali chicche invitare l’anno prossimo alla maggiore manifestazione musicale austriaca. Non si sono visti Sovrintendenti delle maggiori istituzioni musicali italiani, in tutt’altre faccende affaccendati.
Di queste faccende, la più importante è il Fus. Da alcuni anni, la dotazione del Fondo diminuisce (anche e soprattutto a ragione delle implicazioni sulla finanza pubblica della bassa crescita economica, prima, e della recessione, poi), mentre il numero dei soggetti beneficiari (alcuni per contributi di 10mila euro l’anno!) aumenta; il risultato è la polverizzazione a pioggia degli stanziamenti.
L’urgenza della riforma non vuole dire che si debba trattare di un riassetto frettoloso e definito senza un’adeguata consultazione con esponenti ed esperti del settore. Sarebbe auspicabile che la tematica non venisse affrontata unicamente da un gruppo molto ristretto di dirigenti ministeriali e di giuristi. Sarebbe auspicale che la materia venisse discussa, piuttosto, in seno al Consiglio superiore dei Beni culturali per avere il parere di esperti di altre discipline. Sono da incoraggiare, in questo senso, iniziative come quella dell’Istituto Bruno Leoni che il primo ottobre a Milano ha indetto un seminario per esaminare una “success story” romana e le lezioni di politica legislativa che se ne possono apprendere. Altra “success story” è la Sagra Umbra che con un budget totale di 250mila euro e un contributo Fus di 110mila euro, riesce a essere una delle manifestazioni più note nel mondo musicale europeo (anche se scarsamente apprezzata in certi ambienti italiani, forse perché sullo “spirito” e sull’anno di nascita si vuole gettare una coltre d’oblio).
Quali che siano le specifiche, la metà del Fus è da anni a supporto delle fondazioni liriche. Sono un notorio melomane dall’età di dodici anni, e ho espresso in tempi non sospetti serie perplessità sulla normativa alla base dell’attuale assetto (la legge Veltroni) quando è stata varata circa 13 anni fa. Ne ho preannunciato gli ultimi sviluppi, in un breve saggio pubblicato sul periodico Musica nella primavera 2006. Quindi, nulla di nuovo sotto il sole. La diagnosi resta immutata: in un paese dove non si fa politica della cultura musicale da circa settant’anni, le fondazioni liriche (di diritto privato) sono in uno stato comatoso: sono necessariamente fragili (prive di un “sottostante” strato culturale che dia loro un forte supporto pubblico) e sono travolte dalla più piccola crisi dei conti pubblici, anche di origine internazionale.
A fronte di una diagnosi essenzialmente immutata, del commissariamento di quattro fondazioni su tredici (e del probabile commissariamento di una quinta), di manifestazioni e scioperi , le soluzioni non possono non tenere conto del “morbo di Baumol” (dal nome dell’economista, William Baumol, che negli anni Sessanta ha scritto un fondamentale trattato sul settore): in un mondo in rapido progresso tecnologico, senza supporto pubblico (tramite sovvenzioni o sgravi tributari adeguati alle elargizioni filantropiche) la lirica muore (i teatri tedeschi hanno sovvenzioni che coprono mediamente il 90% dei costi e sono sempre pieni grazie a un “sottostante” diffuso, popolare ed attivo). Per l’Italia, dove 400 anni fa è nato il teatro in musica, ciò vuol dire una perdita pesante di patrimonio nazionale. In sintesi, le soluzioni possibili sono le seguenti:
Una revisione drastica della normativa sulle fondazione che comporti un ripensamento del loro status giuridico e una riduzione del loro numero (eliminandone un paio o per eccessiva contiguità territoriale con altre o perché hanno masse artistiche- orchestra, coro- qualitativamente al di sotto della media di buoni teatri europei) e introducendo maggior supporto ad altre iniziative originali, meritevoli e di alta qualità.Imporre per legge una gestione delle fondazioni restanti basata sul binomio cooperazione-competitizione. Cooperazione vuole dire dare vita a un cartellone nazionale con forti risparmi negli allestimenti e nei cachet degli artisti ed evitare che ciascuna fondazione miri a stagioni simili a mini-festival autoreferenziali. Competizione vuole dire premiare le fondazioni che, in base ai risultati di biglietteria e le valutazioni tecniche di una commissione internazionale, sappiano coniugare consuntivi in pareggio e alta qualità. Non dovrebbe succedere che uno dei più applauditi spettacoli di questa estate abbia avuto un budget di 25mila euro (e due sole rappresentazioni) e uno dei più fischiati sia costato 3 milioni di euro (per quattro rappresentazioni). Introdurre regolazione analoga a quella in atto al Metropolitan di New York e nei maggiori teatri austriaci e tedeschi per calmierare cachet e costi di produzione. Mettere in atto sia una rigorosa valutazione della qualità, sia il principio del “matching grant”, in base al quale il supporto pubblico deve essere correlato a quanto la fondazione musicale riesce a ottenere dagli sponsor e dal mercato.
30 settembre 2009
mercoledì 30 settembre 2009
martedì 29 settembre 2009
A MILANO LA CAPITALE SUONA IN TRASFERTA Il Tempo 29 settembre
Giuseppe Pennisi
A Piazza Castello 23 , a pochi passi da Palazzo Mezzanotte (sede della Borsa), ossia nel cuore stesso della City della capitale della Lombardia, il primo ottobre alle 10,30 musicisti, musicologi, sovrintendenti di teatri, economisti, manager pubblici e dirigenti del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali si riuniscono per riflettere su come un’iniezione di privato può migliorare qualità ed offerta della “musa bizzarra e altera”, la lirica e la grande sinfonica.
Ad organizzare il seminario è l’Istituto Bruno Leoni (IBL)– la roccaforte del liberismo italiano. Già alcuni anni fa, l’IBL ha organizzato un seminario analogo su come migliorare l’efficienza interna e la valorizzazione delle fondazioni lirico sinfoniche sulla base di uno studio successivamente pubblicato dell’Istituto ed apparso, in una versione sintetica, anche sulla più antica e più prestigiosa rivista del settore.
La novità è che questa volta viene studiata un’esperienza precisa: quella della Orchestra Sinfonica di Roma, unica orchestra a grande organico totalmente privata, sostenuta dalla Fondazione Roma e che, guidata dal suo direttore musicale Francesco La Vecchia (anche principale direttore ospite dei Berliner Symphoniker) ha, all’auditorium di via della Conciliazione, una stagione di 30 concerti l’anno ed un ricco programma di tournées all’estero. Il mondo milanese della cultura e della finanza viene, questa volta, ad ascoltare, da La Vecchia, come nell’Italia dei sussidi è avvenuto questo mini-miracolo.
Sullo sfondo, dato il momento politico ed economico, c’è anche la riforma del Fondo Unico per lo Spettacolo (ampiamente trattata su Il Tempo del 20 settembre): Come incoraggiare la partecipazione dei privati tramite incentivi tributari in linea con le indicazioni europee (e con il resto del mondo)? Come privilegiare enti e fondazioni in grado di ottenere, sul mercato, finanziamenti privati? Quali criteri utilizzare per valutare gli investimenti in attività culturali e sostenere i più meritevoli? Come contenere i costi (che in certi comparti in Italia sono il doppio della media europea?
L’IBL ha predisposto un documento di riflessione per agevolare la discussione tra i partecipanti.
E’ possibile che dal seminario esca un libro e che questa sia la prima di altre iniziative in sede Agis e Anfols
L
A Piazza Castello 23 , a pochi passi da Palazzo Mezzanotte (sede della Borsa), ossia nel cuore stesso della City della capitale della Lombardia, il primo ottobre alle 10,30 musicisti, musicologi, sovrintendenti di teatri, economisti, manager pubblici e dirigenti del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali si riuniscono per riflettere su come un’iniezione di privato può migliorare qualità ed offerta della “musa bizzarra e altera”, la lirica e la grande sinfonica.
Ad organizzare il seminario è l’Istituto Bruno Leoni (IBL)– la roccaforte del liberismo italiano. Già alcuni anni fa, l’IBL ha organizzato un seminario analogo su come migliorare l’efficienza interna e la valorizzazione delle fondazioni lirico sinfoniche sulla base di uno studio successivamente pubblicato dell’Istituto ed apparso, in una versione sintetica, anche sulla più antica e più prestigiosa rivista del settore.
La novità è che questa volta viene studiata un’esperienza precisa: quella della Orchestra Sinfonica di Roma, unica orchestra a grande organico totalmente privata, sostenuta dalla Fondazione Roma e che, guidata dal suo direttore musicale Francesco La Vecchia (anche principale direttore ospite dei Berliner Symphoniker) ha, all’auditorium di via della Conciliazione, una stagione di 30 concerti l’anno ed un ricco programma di tournées all’estero. Il mondo milanese della cultura e della finanza viene, questa volta, ad ascoltare, da La Vecchia, come nell’Italia dei sussidi è avvenuto questo mini-miracolo.
Sullo sfondo, dato il momento politico ed economico, c’è anche la riforma del Fondo Unico per lo Spettacolo (ampiamente trattata su Il Tempo del 20 settembre): Come incoraggiare la partecipazione dei privati tramite incentivi tributari in linea con le indicazioni europee (e con il resto del mondo)? Come privilegiare enti e fondazioni in grado di ottenere, sul mercato, finanziamenti privati? Quali criteri utilizzare per valutare gli investimenti in attività culturali e sostenere i più meritevoli? Come contenere i costi (che in certi comparti in Italia sono il doppio della media europea?
L’IBL ha predisposto un documento di riflessione per agevolare la discussione tra i partecipanti.
E’ possibile che dal seminario esca un libro e che questa sia la prima di altre iniziative in sede Agis e Anfols
L
lunedì 28 settembre 2009
CASA SCELSI, IL SALOTTO DELLA CITTA’-CHE-PENSA Il Tempo 28 settembre
A Washington, i “giovani leoni” dell’Amministrazione Obama hanno ripreso e rafforzato una prassi in disuso ai tempi di G.W. Bush: per i corteggiamenti di potenziale partner colto si va ai concerti della Phillips Collection – museo privato di pittura contemporanea. Si accede unicamente per invito. abbigliamento casual ma atmosfera raffinatissima (seguita da cena nei ristoranti chic attorno a Dupont Circle).
A Roma, per finalità analoghe – oltre per ascoltare lo sperimentalismo più squisito- si va alla Fondazione Scelsi a Via di San Teodoro 8: concerti unicamente per invito (martedì 29 alle 18 Giorgio van Straten , Guido Barbieri e Francesco Dillon presentano i “quattro pezzi per orchestra ciascuno su una nota sola),; per essere invitati, occorre iscriversi a www.scelsi.it .; il salotto di casa Scelsi e non contiene più di 40 persone. C’è spesso un aperitivo sulla terrazza con vista mozzafiato sul Palatino. Si incrocia la Roma-che-pensa (in rigoroso casual).
Giacinto Scelsi, nato nel 1905 a La Spezia 1905 e morto a Roma nel 1988, è stato un ricco “dandy” ed ha attraversato il Novecento, diventando notissimo all’estero nel mondo della musica e delle arti figurative – nel 2007 a Salisburgo gli hanno dedicato un intero festival. La sua musica ha influenzato intere generazioni in tutto il mondo.. Nel corso della sua vita ha partecipato intensamente alle tempeste -artistiche e culturali del proprio tempo, legandosi a figure come Jean Cocteau, Henri Michaux, Virginia Woolf, Walter Klein e grandi interpreti quali Nikita Magaloff e Pierre Monteux. Una delle sue prime composizioni Rotativa, in prima mondiale nella Sala Pleyel a Parigi, diretta da Monteux, il 21 dicembre 1931, lo impose all’attenzione internazionale
Una curiosità: nell’autunno del 1947, l’allora ventottenne Giulio Andreotti gli scrisse, a mano, una lettera d’apprezzamento- ora è disponibile nell’archivio della sua casa.
A Roma, per finalità analoghe – oltre per ascoltare lo sperimentalismo più squisito- si va alla Fondazione Scelsi a Via di San Teodoro 8: concerti unicamente per invito (martedì 29 alle 18 Giorgio van Straten , Guido Barbieri e Francesco Dillon presentano i “quattro pezzi per orchestra ciascuno su una nota sola),; per essere invitati, occorre iscriversi a www.scelsi.it .; il salotto di casa Scelsi e non contiene più di 40 persone. C’è spesso un aperitivo sulla terrazza con vista mozzafiato sul Palatino. Si incrocia la Roma-che-pensa (in rigoroso casual).
Giacinto Scelsi, nato nel 1905 a La Spezia 1905 e morto a Roma nel 1988, è stato un ricco “dandy” ed ha attraversato il Novecento, diventando notissimo all’estero nel mondo della musica e delle arti figurative – nel 2007 a Salisburgo gli hanno dedicato un intero festival. La sua musica ha influenzato intere generazioni in tutto il mondo.. Nel corso della sua vita ha partecipato intensamente alle tempeste -artistiche e culturali del proprio tempo, legandosi a figure come Jean Cocteau, Henri Michaux, Virginia Woolf, Walter Klein e grandi interpreti quali Nikita Magaloff e Pierre Monteux. Una delle sue prime composizioni Rotativa, in prima mondiale nella Sala Pleyel a Parigi, diretta da Monteux, il 21 dicembre 1931, lo impose all’attenzione internazionale
Una curiosità: nell’autunno del 1947, l’allora ventottenne Giulio Andreotti gli scrisse, a mano, una lettera d’apprezzamento- ora è disponibile nell’archivio della sua casa.
CLT - Musica, tradotto in italiano l’epistolario di Mendelssohn Il Velino 28 settembre
Roma, 28 set (Velino) - Cade quest’anno il bicentenario della nascita di Felix Mendelssohn Bartholdy (1809-1847). Del compositore tedesco se ne è parlato nel novembre scorso quando, mentre le maestranze della Scala minacciavano di fare saltare il “Don Carlos” inaugurale (forse avrebbero fatto meglio ad attuare la loro minaccia…), l’Accademia di Santa Cecilia gli ha dedicato un mini-festival in cui, accanto all’esecuzione di sinfonie molto ascoltate, ha presentato il grandioso oratorio “Elias”, una vera e propria opera di grande portata. Mendelssohn Bartholdy ha poco frequentato il campo del teatro in musica, se non si considerano tali i due grandi oratori (“Paulus” ed “Elias”) e le musiche di scena per rappresentazioni teatrali, la più nota delle quali è la marcia nuziale del “Sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare, una delle marce più frequentemente suonate in occasione di matrimoni.
Arriva in questi giorni in libreria un volume davvero straordinario, nel senso etimologico del termine: “Felix Mendelssohn Bartholdy ‘Tendere alla perfezione’. Lettere scelte e documenti” (Zecchini Editore). Il testo curato dal musicologo Claudio Bolzan è di grande importanza (se ne auspicano traduzioni in inglese e tedesco da parte di editori con reti di distribuzione internazionali) poiché nei suoi 38 anni di vita piuttosto convenzionale, se raffrontata con quella di altri musicisti tedeschi, Mendelssohn fu a pieno titolo uno dei maggiori autori del romanticismo, nonché un grande maestro concertatore e pianista. Ma, sempre a differenza di altri romantici della Germania, non lasciò nessun trattato di poetica musicale. Eppure, un trattato esiste annidato nelle sei-settemila lettere: un epistolario intrapreso a partire dal 1816, “un’attività che non deve essere considerata episodica o comunque secondaria rispetto a quella organizzativa”, scrive acutamente Bolzan. Era un impegno che occupava Mendelssohn diverse ore della giornata in quanto, specialmente in quelle ai suoi editori, agli organizzatori del Festival del Basso Reno, ai poeti e ad altri compositori, possiamo trovare quella che sarebbe potuta essere la prima bozza di un trattato di musica romantica.
L’epistolario integrale non è mai stato pubblicato tradotto in italiano. Due principalmente le ragioni: i musicologi specialisti del periodo e dell’autore hanno, in genere, dimestichezza con la lingua tedesca; un Himalaya di corrispondenza come quella lasciata dal compositore avrebbe scoraggiato il più semplice lettore colto ed appassionato di musica dall’accostarsi al volume. Dalla selezione compiuta da Bolzan emerge non solo un ritratto di Mendelssohn e della complessa psicologia, ma anche la sua personale visione di dove stesse andando la musica in quel periodo. In particolare il pericolo dell’allontanamento da quell’equilibrio e da quella perfezione, da lui considerati come ideale da perseguire.
(Hans Sachs) 28 set 2009 10:05
Arriva in questi giorni in libreria un volume davvero straordinario, nel senso etimologico del termine: “Felix Mendelssohn Bartholdy ‘Tendere alla perfezione’. Lettere scelte e documenti” (Zecchini Editore). Il testo curato dal musicologo Claudio Bolzan è di grande importanza (se ne auspicano traduzioni in inglese e tedesco da parte di editori con reti di distribuzione internazionali) poiché nei suoi 38 anni di vita piuttosto convenzionale, se raffrontata con quella di altri musicisti tedeschi, Mendelssohn fu a pieno titolo uno dei maggiori autori del romanticismo, nonché un grande maestro concertatore e pianista. Ma, sempre a differenza di altri romantici della Germania, non lasciò nessun trattato di poetica musicale. Eppure, un trattato esiste annidato nelle sei-settemila lettere: un epistolario intrapreso a partire dal 1816, “un’attività che non deve essere considerata episodica o comunque secondaria rispetto a quella organizzativa”, scrive acutamente Bolzan. Era un impegno che occupava Mendelssohn diverse ore della giornata in quanto, specialmente in quelle ai suoi editori, agli organizzatori del Festival del Basso Reno, ai poeti e ad altri compositori, possiamo trovare quella che sarebbe potuta essere la prima bozza di un trattato di musica romantica.
L’epistolario integrale non è mai stato pubblicato tradotto in italiano. Due principalmente le ragioni: i musicologi specialisti del periodo e dell’autore hanno, in genere, dimestichezza con la lingua tedesca; un Himalaya di corrispondenza come quella lasciata dal compositore avrebbe scoraggiato il più semplice lettore colto ed appassionato di musica dall’accostarsi al volume. Dalla selezione compiuta da Bolzan emerge non solo un ritratto di Mendelssohn e della complessa psicologia, ma anche la sua personale visione di dove stesse andando la musica in quel periodo. In particolare il pericolo dell’allontanamento da quell’equilibrio e da quella perfezione, da lui considerati come ideale da perseguire.
(Hans Sachs) 28 set 2009 10:05
domenica 27 settembre 2009
IL FLAUTO MULTIETNICO ONORA O OFFENDE MOZART? Milano Finanza 26 settembre
L’attesa “prima” italiana del “Flauto Magico” (rielaborato dall’Orchestra di Piazza Vittorio) ha avuto luogo il 23 settembre a Roma a conclusione del Festival del Bel Canto dell’Accademia di Santa Cecilia ed ad inaugurazione dellaa XXIV edizione del RomaEuropa Festival- da cui è prodotto. Da Roma andrà a Napoli ed in Emilia (inaugura la stagione lirica dei Teatri di Reggio), per poi viaggiare in Francia in gennaio, continuare la tournée in Italia, arrivando forse a New York.
Dell’opera di Mozart l’azione è semplificata e la partitura riscritta (con interventi jazz, pop, rock, raggae e quant’altro). Violini e contrabbassi sono affiancati da batteria, combas, sax, dijembe e strumenti afro-cubani. Le voci, provenienti da vari continenti, rispecchiano abbastanza bene l’originale. Da un lato, si può dire che questo è ciò che i viennesi videro ed ascoltarono il 30 settembre 1791 al Theater auf der Wieden : un musical in cui l’impresario era anche uno dei protagonisti e canzonette, lazzi e frizzi si intercalavano a musica “colta”. Da un altro lato, si può deprecare il sacrilegio dell’originale mozartiano. Da un terzo punto di vista, l’operazione può venire letta come un modo per avvicinare al teatro in musica “colto” un pubblico nuovo e compiere un esperimento di integrazione inter-etnica . Lo spettacolo è piacevole non scivola mai nel volgare ed ha alcune voci di grande pregio (Pietra Magoni nel ruolo della Regina della Notte e Silvie Lewis in quello di Pamina). Divertente l’africano Pap nel ruolo di Papageno. Accattivanti le scene e le animazioni. Il pubblico ha risposto con vero entusiamo.
Dell’opera di Mozart l’azione è semplificata e la partitura riscritta (con interventi jazz, pop, rock, raggae e quant’altro). Violini e contrabbassi sono affiancati da batteria, combas, sax, dijembe e strumenti afro-cubani. Le voci, provenienti da vari continenti, rispecchiano abbastanza bene l’originale. Da un lato, si può dire che questo è ciò che i viennesi videro ed ascoltarono il 30 settembre 1791 al Theater auf der Wieden : un musical in cui l’impresario era anche uno dei protagonisti e canzonette, lazzi e frizzi si intercalavano a musica “colta”. Da un altro lato, si può deprecare il sacrilegio dell’originale mozartiano. Da un terzo punto di vista, l’operazione può venire letta come un modo per avvicinare al teatro in musica “colto” un pubblico nuovo e compiere un esperimento di integrazione inter-etnica . Lo spettacolo è piacevole non scivola mai nel volgare ed ha alcune voci di grande pregio (Pietra Magoni nel ruolo della Regina della Notte e Silvie Lewis in quello di Pamina). Divertente l’africano Pap nel ruolo di Papageno. Accattivanti le scene e le animazioni. Il pubblico ha risposto con vero entusiamo.
sabato 26 settembre 2009
PECCARE PER CRESCERE Il Tempo 26 settembre
L’aggiustamento contemplato nella finanziaria e la ripresa dei nostri partner commerciali ci aiuteranno a crescere? Oppure torneremo ai tassi anemici degli ultimi 15 anni che ci riporteranno soltanto nel 2014 ai livelli di pil ed occupazione raggiunti nel 2007? Mentre alcuni economisti si scervellano su queste domande, altri si domandano se non solamente si debba consumare di più ma anche incoraggiare quei consumi di solito associati al vizio e ritenuti “disdicevoli” – tabacco, alcol , gioco d’azzardo. Julie Salaber , una simpatica docente di finanza all’Università di Bath, lo sostiene nonostante la sua foto (sul sito dell’ateneo) assomigli a quella di una suffragetta – tipo “Maggiore Barbara” di J.B. Shaw o Sister Sarah di “Bulli e Pupe” ( attraenti, ma severe). Julie ha analizzato il mercato azionario Usa in tempi di recessione e ne ha concluso che le “azioni del peccato” (ossia quelle di aziende che producono sigarette, liquori pesanti e giochi d’azzardo) vanno meglio della media del mercato; dato che ciò avviene pure in tempi di vacche grasse, la Prof.ssa Salaber conclude che a) chi opera in investimenti “socialmente responsabili” perde denaro , b) il peccato fa male a chi lo commette ma, in certe circostanze, può far bene alla società.
C’è anche di più , un’analisi delle prestigiose università di Yale e di Duke (negli Stati Uniti) dimostra che i disdicevoli consumi del vizio (principalmente il bere superalcolici) resistono a prezzi ed a imposte indirette. Tassarli porta gettito all’erario ma non li frena. Neanche in tempo di crisi. Anzi ne fa una solida realtà su cui costruire la ripresa.
C’è anche di più , un’analisi delle prestigiose università di Yale e di Duke (negli Stati Uniti) dimostra che i disdicevoli consumi del vizio (principalmente il bere superalcolici) resistono a prezzi ed a imposte indirette. Tassarli porta gettito all’erario ma non li frena. Neanche in tempo di crisi. Anzi ne fa una solida realtà su cui costruire la ripresa.
LA LEZIONE DI VERDI DIMOSTRA CHE AL TEATRO ITALIANO SERVE UNA SVOLTA LIBERISTA, Il Foglio 26 settembre
Gianandrea Gavazzeni era non solo un musicista, un musicologo ed un superbo direttore d’orchestra (raffrontate il suo “Simon Boccanegra” in cd con la tanto celebrata edizione di Abbado) ma soprattutto un uomo di buon senso. Amava ripetere che Verdi viene celebrato tutte le sere di ciascun anno in molteplici teatri dei cinque continenti; a fronte di questo festival ininterrotto ormai da più di 150 anni, cosa può fare un Festival con la “F” maiuscola intitolato al Maestro di Busseto? Per questa ragione, aggiungeva, i numerosi tentativi di organizzare, a Parma e dintorni, il “Festival Verdi” con la “F” maiuscola non hanno mai avuto un grande esito. Occorre ammettere che da quando Mauro Meli (sovrintendente) e Yuri Termikanov (direttore musicale) sono alla guida del Teatro Regio si è cercato di dare una sferzata e di fare diventare Parma “capitale europea della musica”. Meli viene dalla guida di Ferrara Musica, il Lirico di Cagliari e la Scala, Termikanov da quella della Filarmonica di San Pietroburgo. Hanno tracciato un programma mirato a mettere in scena tutte e 27 le opere di Verdi in edizioni “esemplari” entro il 2013 (secondo centenario dalla nascita del compositore) quando verrebbero varate in un cofanetto di DvD da diffondere in tutto il mondo all’insegna di un “made in Parma” che per molti vorrebbe dire “made in Verdi”.
Un progetto del genere comporta naturalmente collaborazioni internazionali, tournée e supporto pubblico e privato. Richiede anche una certa “esclusiva” (come i marchi Chanel e Yves St Laurent). Tale “esclusiva” è l’opposto del festival continuo evocato da Gavazzeni. L’attuazione del progetto è iniziata circa cinque anni fa. Le collaborazioni internazionali e le tournée non sono mancate. Il supporto locale è stato vivace e, dall’amministrazione centrale dello Stato, l’Arcus (la Spa del Mef , Ministero dell’Economia e delle Finanze, e del Mibac, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, per il sostegno della cultura) ha concesso un finanziamento straordinario (che, all’epoca, ha irritato Sovrintendenti di altri teatri). La crisi economica e finanziaria internazionale, però, ha colpito le entrate dell’erario; ne hanno sofferto, quindi, i fondi per lo spettacolo, la stessa Arcus si trova a corto di risorse e gli sponsor locali fanno fatica a vendere i loro prodotti (meccanica, agro-alimentare). Il “Festival” con la “F” maiuscola è in calendario dal primo al 28 ottobre, ma ha due sole opere complete in cartellone (“I Due Foscari” e “Nabucco”), molte in versione Bignami e concerti. Busseto è irritata perché, per la prima volta in decenni, il suo delizioso teatrino non ospita un’opera. Inoltre, “I Due Foscari” è un allestimento già visto a Bilbao e Trieste; “Nabucco” arriva in una produzione che gira di dieci anni e nel 2008 ha fatto tappa a Reggio Emilia. Protagonista di ambedue i lavori , il quasi settantenne Leo Nucci. Si parla di “Festival Nucci”, piuttosto che di “Festival Verdi”. La “F” con la maiuscola ha il sapore un po’ beffardo del titolo di una commedia di Edoardo, Peppino e Titina (De Filippo).
Come se ciò non bastasse , dal 3 al 16 ottobre al Teatro Comunale di Firenze è in corso un contro-festival: le tre opere “popolari” (“Rigoletto”, “Trovatore”, “Traviata”) presentate in repertorio – in tre giorni si vedono tutte e tre. Affidate ad unico regista (Franco Ripa di Meana), noto per allestimenti a basso costo ma densi di idee, schierano tre maestri concertatori di rango (Stefano Ranzani, Massimo Zanetti, Andrea Callegari), un cast internazionale di livello (Alberto Gazale, Desirée Rancatore, Stuart Neill, Kristine Lewis, Andrea Rost, Franco Vassallo, Saimur Pirgu) e prezzi popolari (dai 50 ai 20 euro). Infine, il colpo basso: l’intera intrapresa viene portata a Reggio Emilia, in terra verdiana, nell’elegante Teatro Romolo Valli.
Gavazzeni certamente, dall’Alto, sorride con quella ironia che lo ha sempre connaturato. Si pongono, però, questioni di politica musicale, di come si declina il coordinamento-competizione tra chi abbraccia “la musa bizzarra e altera”, la musica lirica. Le sedi per coordinarsi e massimizzare i benefici da una spesa sempre più ristretta. Il primo ottobre se ne parlerà, a Milano, in un seminario all’Istituto Bruno Leoni. E’ da augurarsi che sia l’inizio di un dibattito serio tra chi ama la musa bizzarra e altera ma è cosciente dei vincoli finanziari. E dell’improrogabile riforma del Fondo unico per lo spettacolo (Fus).
Un progetto del genere comporta naturalmente collaborazioni internazionali, tournée e supporto pubblico e privato. Richiede anche una certa “esclusiva” (come i marchi Chanel e Yves St Laurent). Tale “esclusiva” è l’opposto del festival continuo evocato da Gavazzeni. L’attuazione del progetto è iniziata circa cinque anni fa. Le collaborazioni internazionali e le tournée non sono mancate. Il supporto locale è stato vivace e, dall’amministrazione centrale dello Stato, l’Arcus (la Spa del Mef , Ministero dell’Economia e delle Finanze, e del Mibac, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, per il sostegno della cultura) ha concesso un finanziamento straordinario (che, all’epoca, ha irritato Sovrintendenti di altri teatri). La crisi economica e finanziaria internazionale, però, ha colpito le entrate dell’erario; ne hanno sofferto, quindi, i fondi per lo spettacolo, la stessa Arcus si trova a corto di risorse e gli sponsor locali fanno fatica a vendere i loro prodotti (meccanica, agro-alimentare). Il “Festival” con la “F” maiuscola è in calendario dal primo al 28 ottobre, ma ha due sole opere complete in cartellone (“I Due Foscari” e “Nabucco”), molte in versione Bignami e concerti. Busseto è irritata perché, per la prima volta in decenni, il suo delizioso teatrino non ospita un’opera. Inoltre, “I Due Foscari” è un allestimento già visto a Bilbao e Trieste; “Nabucco” arriva in una produzione che gira di dieci anni e nel 2008 ha fatto tappa a Reggio Emilia. Protagonista di ambedue i lavori , il quasi settantenne Leo Nucci. Si parla di “Festival Nucci”, piuttosto che di “Festival Verdi”. La “F” con la maiuscola ha il sapore un po’ beffardo del titolo di una commedia di Edoardo, Peppino e Titina (De Filippo).
Come se ciò non bastasse , dal 3 al 16 ottobre al Teatro Comunale di Firenze è in corso un contro-festival: le tre opere “popolari” (“Rigoletto”, “Trovatore”, “Traviata”) presentate in repertorio – in tre giorni si vedono tutte e tre. Affidate ad unico regista (Franco Ripa di Meana), noto per allestimenti a basso costo ma densi di idee, schierano tre maestri concertatori di rango (Stefano Ranzani, Massimo Zanetti, Andrea Callegari), un cast internazionale di livello (Alberto Gazale, Desirée Rancatore, Stuart Neill, Kristine Lewis, Andrea Rost, Franco Vassallo, Saimur Pirgu) e prezzi popolari (dai 50 ai 20 euro). Infine, il colpo basso: l’intera intrapresa viene portata a Reggio Emilia, in terra verdiana, nell’elegante Teatro Romolo Valli.
Gavazzeni certamente, dall’Alto, sorride con quella ironia che lo ha sempre connaturato. Si pongono, però, questioni di politica musicale, di come si declina il coordinamento-competizione tra chi abbraccia “la musa bizzarra e altera”, la musica lirica. Le sedi per coordinarsi e massimizzare i benefici da una spesa sempre più ristretta. Il primo ottobre se ne parlerà, a Milano, in un seminario all’Istituto Bruno Leoni. E’ da augurarsi che sia l’inizio di un dibattito serio tra chi ama la musa bizzarra e altera ma è cosciente dei vincoli finanziari. E dell’improrogabile riforma del Fondo unico per lo spettacolo (Fus).
Pittsburgh: le "nuove regole" e il ruolo del dollaro , Il Foglio 25 settembre
E’ tutta in salita la strada verso le “nuove regole globali” che il Vecchio Continente vorrebbe proporre al resto del mondo: da tetti ai bonus dei maghi della finanza a nuove versioni della “Tobin Tax” (ripudiata, del resto dallo stesso Tobin una dozzina di anni fa) sulle transazioni finanziarie a breve, da nuove mascelle e nuovi denti ad un Fondo monetario (una volta riformato) a varie forme di lotta alla non meglio definita “speculazione”. Il comunicato finale di Pittsburgh, peraltro redatto (ed in gran misura negoziato da settimane), prevede almeno un anno di trattative , durante il quale può accadere di tutto. Alla vigilia del vertice, sulla scrivania di Barack Obama troneggiava il pillolame (ossia il super-sunto in pillole) di uno studio di Paul R. Masson e John C. Pattison della Joseph Rotman School of Management intitolato "Financial Regulatory Reform: Using Models of Cooperation to Evaluate Current Prospects for International Agreement" – ossia “Riforma delle regole internazionali per la finanza: prospettive di un accordo internazionale utilizzando modelli di cooperazione”. Il lavoro, ancora inedito, si può richiedere agli autori (paul.masson@rotman.utoronto.ca; johnpattison@rogers.com).
Ai politici e ai loro “sherpa” non interessa tanto l’analisi (rigorosamente condotta in termini di “teoria dei giochi”), ma la conclusione del lavoro: in un club vasto e diversificato come il G20 è improbabile raggiungere gli stessi prolegomeni di un accordo che non sia tanto vago e tanto ambiguo da voler dire poco o nulla. Quindi – dicono gli americani – meglio non perdere tempo e passare ad altro (mentre, per il momento, ciascuna area geo-economica badi a mettere le regole di casa propria in ordine senza troppe ambizioni mondialistiche). D’altronde – si fa notare a Washington – è ciò che gli europei stanno già facendo, con il varo unilaterale, alla vigilia del vertice, del nuovo sistema di vigilanza bancaria nel loro Continente. Tale mossa viene vista come un errore tattico poiché rafforza la tesi, sostenuta dagli Stati Uniti e da altri Paesi (specialmente gli asiatici) del G20, secondo cui le “rules” dovrebbero essere al massimo regionali – e tra gruppi di Paesi omogenei – e non “global”.
Cosa vuol dire passare ad altro? Concentrarsi sul nodo degli squilibri finanziari mondiali, come afferma un documento del Tesoro Usa, chiamato “i principi di Geithner” quasi a contrapporlo ai “principi de L’Aquila”. Il documento non respinge in toto i punti definiti dal G8 in luglio. Propone una serie di misure per aumentare le “difese” delle istituzioni finanziarie (banche, assicurazioni) nei confronti di tempeste sui mercati (in sostanza incrementi del capitale e delle riserve). Tende la mano agli europei (al Congresso Usa) in materia di incentivi ai manager (bonus, opzioni convertibili in azioni). Pone , però, soprattutto l’accento su come ridurre gli squilibri finanziari internazionali, ossia il disavanzo di conti con l’estero Usa e la caduta del valore internazionale del dollaro. A questo proposito punta il dito sui Paesi asiatici come principali responsabili degli squilibri che avrebbero aggravato (ed in parte originato) l’attuale crisi dopo il lungo periodo di “great moderation” (tassi d’interessi bassi, tassi di cambio senza troppi balzi, borse in rialzo ed immobiliaristi radianti di gioia). Il rinnovo del mandato a Ben Bernanke alla guida della Fed rafforza questo orientamento: per Ben è futile parlare di “nuove regole mondiali” se non si è giunti in precedenza ad un’intesa sui cambi.
I temi relativi agli squilibri finanziari sembrano appassionare i tecnici più che i politici (specialmente i Capi di Stato e di Governo) ma sta diventando un freno pesante al negoziato sulle “global rules”. I punti-chiave ormai sono due: a) in seno al G20 si è ripreso a mettere l’accento sui livelli auspicabili dei tassi di cambio, e sul regime di cambio per raggiungerli ed aggiornarli, gradualmente e senza traumi; b) nel breve e medio termine, l’onere del riassetto è posto principalmente, ove non esclusivamente, sull’Asia (Governi e Banche centrali) e non sugli Stati Uniti.
© 2009 - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi
Ai politici e ai loro “sherpa” non interessa tanto l’analisi (rigorosamente condotta in termini di “teoria dei giochi”), ma la conclusione del lavoro: in un club vasto e diversificato come il G20 è improbabile raggiungere gli stessi prolegomeni di un accordo che non sia tanto vago e tanto ambiguo da voler dire poco o nulla. Quindi – dicono gli americani – meglio non perdere tempo e passare ad altro (mentre, per il momento, ciascuna area geo-economica badi a mettere le regole di casa propria in ordine senza troppe ambizioni mondialistiche). D’altronde – si fa notare a Washington – è ciò che gli europei stanno già facendo, con il varo unilaterale, alla vigilia del vertice, del nuovo sistema di vigilanza bancaria nel loro Continente. Tale mossa viene vista come un errore tattico poiché rafforza la tesi, sostenuta dagli Stati Uniti e da altri Paesi (specialmente gli asiatici) del G20, secondo cui le “rules” dovrebbero essere al massimo regionali – e tra gruppi di Paesi omogenei – e non “global”.
Cosa vuol dire passare ad altro? Concentrarsi sul nodo degli squilibri finanziari mondiali, come afferma un documento del Tesoro Usa, chiamato “i principi di Geithner” quasi a contrapporlo ai “principi de L’Aquila”. Il documento non respinge in toto i punti definiti dal G8 in luglio. Propone una serie di misure per aumentare le “difese” delle istituzioni finanziarie (banche, assicurazioni) nei confronti di tempeste sui mercati (in sostanza incrementi del capitale e delle riserve). Tende la mano agli europei (al Congresso Usa) in materia di incentivi ai manager (bonus, opzioni convertibili in azioni). Pone , però, soprattutto l’accento su come ridurre gli squilibri finanziari internazionali, ossia il disavanzo di conti con l’estero Usa e la caduta del valore internazionale del dollaro. A questo proposito punta il dito sui Paesi asiatici come principali responsabili degli squilibri che avrebbero aggravato (ed in parte originato) l’attuale crisi dopo il lungo periodo di “great moderation” (tassi d’interessi bassi, tassi di cambio senza troppi balzi, borse in rialzo ed immobiliaristi radianti di gioia). Il rinnovo del mandato a Ben Bernanke alla guida della Fed rafforza questo orientamento: per Ben è futile parlare di “nuove regole mondiali” se non si è giunti in precedenza ad un’intesa sui cambi.
I temi relativi agli squilibri finanziari sembrano appassionare i tecnici più che i politici (specialmente i Capi di Stato e di Governo) ma sta diventando un freno pesante al negoziato sulle “global rules”. I punti-chiave ormai sono due: a) in seno al G20 si è ripreso a mettere l’accento sui livelli auspicabili dei tassi di cambio, e sul regime di cambio per raggiungerli ed aggiornarli, gradualmente e senza traumi; b) nel breve e medio termine, l’onere del riassetto è posto principalmente, ove non esclusivamente, sull’Asia (Governi e Banche centrali) e non sugli Stati Uniti.
© 2009 - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi
venerdì 25 settembre 2009
PERCHE' SI DEVE SPINGERE DI PIU' DELLA CRESCITA L'Occidentale 25 settembre
PERCHE’ SI DEVE SPINGERE DI PIU’ SUL PEDALE DELLA CRESCITA
Rientrando a Via Venti Settembre nella primavera 2008, Giulio Tremonti ha promesso che avrebbe firmato l’”ultima finanziaria”. Ha mantenuto l’impegno: il programma triennale varato dal Parlamento quasi alla vigilia dello scorso Natale, è stata l’ultima legge finanziaria in senso stretto.
Una manovra triennale per spostare l’andamento dei conti pubblici da dove stavano andando (in gergo “il tendenziale”) a dove sarebbero dovuti andare (“il programmatico”) in linea con gli obiettivi dell’Unione Europea (Ue). E’ stata un’operazione a vasto raggio che ha lasciato scontenti numerosi Ministeri ed altri enti di spesa.
I tre articoli del disegno di legge 22 settembre 2009 (che tutti possono leggere su Internet) e che il Parlamento si accinge ad esaminare danno corpo concreto alla promessa: un aggiustamento di leggera portata quantitativa (circa 3 miliardi di euro) a quanto approvato nel dicembre 2008 , con accento sul rinnovo dei contratti del pubblico impiego – un tema disatteso troppo a lungo. Non è stato certamente facile mantenere la promessa in un anno in cui il pil ha subito una recessione tra il 4,5% ed il 5% (siamo ancora in corso d’anno e ci si basa su pre-consuntivi).
Occorre, però, chiedersi se si sarebbe potuto tenere fede all’impegno preso utilizzando un percorso leggermente differente ed ottenendo maggiori risultati in termini di crescita del valore aggiunto e dell’occupazione.
La mattina del 24 settembre, l’Associazione Economia Reale ha presentato il proprio rapporto previsionale. Nel documento si sottolinea come seguendo il percorso tracciato dalla finanziaria si tornerebbe al livello di pil, di consumi e di occupazione che si sono registrati nel 2007 – ossia nell’anno in cui la crisi ha cominciato a manifestarsi – solamente nel 2014. Non solo la pressione fiscale resterebbe elevata, attorno al 43%, l’indebitamento netto della Pa scenderebbe al di sotto del 3% del pil non prima del 2015 e il rapporto tra stock di debito pubblico e pil continuerebbe a crescere sino al 2020. Il documento propone una strategia alternativa: un drastico contenimento di spesa pubblica di parte corrente per “acquisti di beni e servizi da parte della Pa” e “trasferimenti a fondo perduto” per 35 miliardi di euro da utilizzare per un drastico taglio del carico fiscale sulle famiglie e sulle imprese, maggiori investimenti pubblici in infrastruttura, difesa, sicurezza, ricerca ed innovazione.
Pur se sono essenzialmente d’accorso sul tracciato indicato nel rapporto di Economia Reale, la mia esperienza a contatto con la Pa mi induce a ritenere che in materia di “acquisti di beni e servizi” c’è davvero poco da tagliare: gran parte delle amministrazioni sono ridotte all’osso (dopo 17 anni di tagli dei capitoli afferenti a questo campo), non riescono a finanziare missioni di servizio ed anche a pagare bollette di utenze quali l’elettricità ed il telefono.
Occorre, invece, effettuare con urgenza un’operazione di contenimento delle “contabilità speciali” in cui vengono annidati “residui di cassa” spesso “impegnati” solo sotto il profilo meramente delle scritture contabili , senza che abbiano come sottostante un contratto od altra obbligazione giuridica. E’ difficile fare una stima precisa senza una mappatura, ma è possibile seguire quanto fatto da Governi precedenti (Prodi, Amato):
a) ridurre drasticamente il lasso di tempo per il quale i residui possono essere parcheggiati in “contabilità speciali” (sia che ci sia che non ci sia un’obbligazione giuridica ad essi sottostanti)
b) effettuare entro la fine del 2009 una rimappatura delle “contabilità speciali”.
E’ possibile che si ottengano risparmi analoghi a quelli che si avrebbero operando sui capitoli degli acquisti di beni e servizi . Da riallocare alla riduzione della pressione tributaria ed a spese con alto impatto di sviluppo.
Rientrando a Via Venti Settembre nella primavera 2008, Giulio Tremonti ha promesso che avrebbe firmato l’”ultima finanziaria”. Ha mantenuto l’impegno: il programma triennale varato dal Parlamento quasi alla vigilia dello scorso Natale, è stata l’ultima legge finanziaria in senso stretto.
Una manovra triennale per spostare l’andamento dei conti pubblici da dove stavano andando (in gergo “il tendenziale”) a dove sarebbero dovuti andare (“il programmatico”) in linea con gli obiettivi dell’Unione Europea (Ue). E’ stata un’operazione a vasto raggio che ha lasciato scontenti numerosi Ministeri ed altri enti di spesa.
I tre articoli del disegno di legge 22 settembre 2009 (che tutti possono leggere su Internet) e che il Parlamento si accinge ad esaminare danno corpo concreto alla promessa: un aggiustamento di leggera portata quantitativa (circa 3 miliardi di euro) a quanto approvato nel dicembre 2008 , con accento sul rinnovo dei contratti del pubblico impiego – un tema disatteso troppo a lungo. Non è stato certamente facile mantenere la promessa in un anno in cui il pil ha subito una recessione tra il 4,5% ed il 5% (siamo ancora in corso d’anno e ci si basa su pre-consuntivi).
Occorre, però, chiedersi se si sarebbe potuto tenere fede all’impegno preso utilizzando un percorso leggermente differente ed ottenendo maggiori risultati in termini di crescita del valore aggiunto e dell’occupazione.
La mattina del 24 settembre, l’Associazione Economia Reale ha presentato il proprio rapporto previsionale. Nel documento si sottolinea come seguendo il percorso tracciato dalla finanziaria si tornerebbe al livello di pil, di consumi e di occupazione che si sono registrati nel 2007 – ossia nell’anno in cui la crisi ha cominciato a manifestarsi – solamente nel 2014. Non solo la pressione fiscale resterebbe elevata, attorno al 43%, l’indebitamento netto della Pa scenderebbe al di sotto del 3% del pil non prima del 2015 e il rapporto tra stock di debito pubblico e pil continuerebbe a crescere sino al 2020. Il documento propone una strategia alternativa: un drastico contenimento di spesa pubblica di parte corrente per “acquisti di beni e servizi da parte della Pa” e “trasferimenti a fondo perduto” per 35 miliardi di euro da utilizzare per un drastico taglio del carico fiscale sulle famiglie e sulle imprese, maggiori investimenti pubblici in infrastruttura, difesa, sicurezza, ricerca ed innovazione.
Pur se sono essenzialmente d’accorso sul tracciato indicato nel rapporto di Economia Reale, la mia esperienza a contatto con la Pa mi induce a ritenere che in materia di “acquisti di beni e servizi” c’è davvero poco da tagliare: gran parte delle amministrazioni sono ridotte all’osso (dopo 17 anni di tagli dei capitoli afferenti a questo campo), non riescono a finanziare missioni di servizio ed anche a pagare bollette di utenze quali l’elettricità ed il telefono.
Occorre, invece, effettuare con urgenza un’operazione di contenimento delle “contabilità speciali” in cui vengono annidati “residui di cassa” spesso “impegnati” solo sotto il profilo meramente delle scritture contabili , senza che abbiano come sottostante un contratto od altra obbligazione giuridica. E’ difficile fare una stima precisa senza una mappatura, ma è possibile seguire quanto fatto da Governi precedenti (Prodi, Amato):
a) ridurre drasticamente il lasso di tempo per il quale i residui possono essere parcheggiati in “contabilità speciali” (sia che ci sia che non ci sia un’obbligazione giuridica ad essi sottostanti)
b) effettuare entro la fine del 2009 una rimappatura delle “contabilità speciali”.
E’ possibile che si ottengano risparmi analoghi a quelli che si avrebbero operando sui capitoli degli acquisti di beni e servizi . Da riallocare alla riduzione della pressione tributaria ed a spese con alto impatto di sviluppo.
mercoledì 23 settembre 2009
PIU’ PIL PER TUTTI, Il Foglio 24 settembre
Joseph Stiglitz ha abbracciato l’”economia della felicità” con l’entusiasmo dei neofiti. In effetti – ti ricordi, Joe, quando si andava a lunch a The Thorn Tree a Kimaty Road ed a cena o da Jacques o a The Lobster Pot nella Nairobi inizio anni 70 ? – il suo principale contributo alla professione è stata la teoria economica dell’informazione tanto sotto il profilo macro quanto sotto quello micro. Cominciò a lavorarci – ne fece il punto centrale della prolusione pronunciata quando gli venne conferito il Premio Nobel dell’Economia nel 2001- in quella fucina di pensiero e fantasia che era l’Istitute of Development Studies (IDS) della capitale del Kenya. Lì lavorava, fianco a fianco, con John Harris, Micheal Todaro e Richard Jolly specialmente sull’economia del lavoro e del capitale umano allo scopo di comprendere cosa inducesse tanti genitori e tanti ragazzi a completare cicli d’istruzione e migrare verso città dove non c’era lavoro per loro. Stiglitz, con Harris, Todaro e Jolly risposero che la determinante era un sistema distorto d’informazioni. Il vostro “chroniqueur” ha vivo e vivido in mente quel periodo perché, allora in Banca Mondiale, faceva luchi e frequenti soggiorni a Nairobi e frequentava l’IDS. Temi importanti ma distanti dall’”economia della felicità” al centro dell’attenzione degli economisti classici scozzesi e degli studiosi di economia pubblica e scienza delle finanze italiani e svedesi all’inizio del secolo scorso.
L’”economia della felicità “ –alla voce “economics of happiness” di Goggle escono circa 10 milioni di “entry”- viene da lontano ed è entrata anche nella pubblicistica giornalistica da decenni. Alla metà degli Anni 80, ad esempio, uscì sul “Wall Street Journal” un lungo articolo di un economista d’azienda giapponese intitolato, non senza una punta di polemica, “Konatabe, GNP!” (“Vai al diavolo, Pil ”- ma in nipponico, l’espressione è molto più volgare). In breve, l’articolo sosteneva che poiché il fine pure costituzionale del Giappone moderno è il “perseguimento della felicità”, occorre misurare la crescita non in termini di aumento del valore aggiunto di beni e servizi e della sua consueta ripartizione tra consumi e risparmi/investimenti ma in termini di incremento della felicità sia pubblica sia privata. Tanto più che tecniche di indagine socio-economica e psicologica (quali quelle delle “valutazioni contingenti”) ne rendevano fattibile la misurazione.
L’”economia della felicità” è divenuta una disciplina a se stante , con cattedre ad essa specificatamente intitolate, all’inizio degli Anni 90. Da una decina d’anni c’è anche una manualistica per integrare le analisi consuete , con tecniche condivise per il calcolo della felicità, specialmente sotto il profilo micro-economico. Non si tratta, necessariamente, di letteratura che fa ricorso a modellistica arcana ed ad algoritmi complicati. Tra i testi rigorosi ma accessibili anche a chi non ha dimestichezza con un armamentario quantitativo , utile segnalare il libro di Bruno Frey e Alois Stutzer “Happiness and Economics; how the economy and the institutions affect human well-being”, “Felicità ed economia; come l’economia e le istituzioni incidono sul benessere umano” Princeton University Press, 2002. In linguaggio chiaro , il volume analizza gli effetti economici della felicità e di converso il ruolo della felicità nel plasmare politiche economiche. Bruno Frey era noto in Italia molti anni prima che assumesse la cattedra di “economia della felicità” all’Università di Zurigo. La sua fama era legata ai suoi studi teorici ed empirici in tema di economia delle arti sceniche (in particolare di quella musa bizzarra ed altera che è l’opera lirica) e di economia del terrorismo. C’è un nesso tra lo studio (economico) delle arti sceniche, da un lato, del terrorismo, da un altro, e della felicità, da un altro ancora: si accantona l’assunto di base che il soggetto economico (indivduo, famiglia, impresa) abbia come obiettivo principale da massimizzare una qualche forma di utilità, e si entra nell’analisi economica dei sentimenti e della psiche (la “neuroeconomics” è ormai diventata una disciplina vera e propria) e con l’interazione tra comportamenti economici (sia micro sia macro) e sentimenti. Tra i lavori in italiano (nonché basati su studi ed esperienze italiane) di rilievo il libro Luigino Bruni e Stefano Zamagni “Economia civile, equità, felicità pubblica” , Il Mulino 2004.) . A livello pubblicistico ne ho trattato spesso sul settimanale “Il Domenicale” e su alcuni quotidiani.
Tra le applicazioni recenti, utile ricordare il dibattito su tassazione progressiva e felicità (sia pubblica sia privata) . Importante l’indagine empirica sull’impatto del benessere economico in termini di felicità in Australia , Germania, Gran Bretagna, Paesi Bassi ed Ungheria. L’indagine individua un tratto comune nei cinque: le spese per beni di consumo durevole contano almeno quanto i flussi di reddito in termini di felicità. Inoltre (altro tratto comune) cambiamenti in livelli di ricchezza, di reddito e di consumo producono mutamenti relativamente modesti in termini di soddisfazione, ossia di felicità. Da diversi anni, gli abbonati al servizio telematico del Social Science Resarch Network ricevono – ogni giorno – due newsletter con abstracts di saggi (con la possibilità di scaricarli) che trattano di “economia dei comportamenti” ; una delle due riguarda la metodologia, l’altra esperimenti concreti effettuati quasi in condizioni quasi di laboratorio (come un’aula universitaria allo scopo, ad esempio, di determinare cosa renda “più felice” un gruppo di giovani, voti più alti agli esami o maggior tempo libero).
Guardando verso il futuro a lungo termine, secondo un’analisi del servizio studi della Banca d’Italia, alla fine del XXI secolo, ci accontenteremo di un pil a crescita rasoterra poiché comunque, a ragione della diminuzione della popolazione, il reddito pro-capite mostrerà leggeri aumenti.
L’”economia della felicità “ –alla voce “economics of happiness” di Goggle escono circa 10 milioni di “entry”- viene da lontano ed è entrata anche nella pubblicistica giornalistica da decenni. Alla metà degli Anni 80, ad esempio, uscì sul “Wall Street Journal” un lungo articolo di un economista d’azienda giapponese intitolato, non senza una punta di polemica, “Konatabe, GNP!” (“Vai al diavolo, Pil ”- ma in nipponico, l’espressione è molto più volgare). In breve, l’articolo sosteneva che poiché il fine pure costituzionale del Giappone moderno è il “perseguimento della felicità”, occorre misurare la crescita non in termini di aumento del valore aggiunto di beni e servizi e della sua consueta ripartizione tra consumi e risparmi/investimenti ma in termini di incremento della felicità sia pubblica sia privata. Tanto più che tecniche di indagine socio-economica e psicologica (quali quelle delle “valutazioni contingenti”) ne rendevano fattibile la misurazione.
L’”economia della felicità” è divenuta una disciplina a se stante , con cattedre ad essa specificatamente intitolate, all’inizio degli Anni 90. Da una decina d’anni c’è anche una manualistica per integrare le analisi consuete , con tecniche condivise per il calcolo della felicità, specialmente sotto il profilo micro-economico. Non si tratta, necessariamente, di letteratura che fa ricorso a modellistica arcana ed ad algoritmi complicati. Tra i testi rigorosi ma accessibili anche a chi non ha dimestichezza con un armamentario quantitativo , utile segnalare il libro di Bruno Frey e Alois Stutzer “Happiness and Economics; how the economy and the institutions affect human well-being”, “Felicità ed economia; come l’economia e le istituzioni incidono sul benessere umano” Princeton University Press, 2002. In linguaggio chiaro , il volume analizza gli effetti economici della felicità e di converso il ruolo della felicità nel plasmare politiche economiche. Bruno Frey era noto in Italia molti anni prima che assumesse la cattedra di “economia della felicità” all’Università di Zurigo. La sua fama era legata ai suoi studi teorici ed empirici in tema di economia delle arti sceniche (in particolare di quella musa bizzarra ed altera che è l’opera lirica) e di economia del terrorismo. C’è un nesso tra lo studio (economico) delle arti sceniche, da un lato, del terrorismo, da un altro, e della felicità, da un altro ancora: si accantona l’assunto di base che il soggetto economico (indivduo, famiglia, impresa) abbia come obiettivo principale da massimizzare una qualche forma di utilità, e si entra nell’analisi economica dei sentimenti e della psiche (la “neuroeconomics” è ormai diventata una disciplina vera e propria) e con l’interazione tra comportamenti economici (sia micro sia macro) e sentimenti. Tra i lavori in italiano (nonché basati su studi ed esperienze italiane) di rilievo il libro Luigino Bruni e Stefano Zamagni “Economia civile, equità, felicità pubblica” , Il Mulino 2004.) . A livello pubblicistico ne ho trattato spesso sul settimanale “Il Domenicale” e su alcuni quotidiani.
Tra le applicazioni recenti, utile ricordare il dibattito su tassazione progressiva e felicità (sia pubblica sia privata) . Importante l’indagine empirica sull’impatto del benessere economico in termini di felicità in Australia , Germania, Gran Bretagna, Paesi Bassi ed Ungheria. L’indagine individua un tratto comune nei cinque: le spese per beni di consumo durevole contano almeno quanto i flussi di reddito in termini di felicità. Inoltre (altro tratto comune) cambiamenti in livelli di ricchezza, di reddito e di consumo producono mutamenti relativamente modesti in termini di soddisfazione, ossia di felicità. Da diversi anni, gli abbonati al servizio telematico del Social Science Resarch Network ricevono – ogni giorno – due newsletter con abstracts di saggi (con la possibilità di scaricarli) che trattano di “economia dei comportamenti” ; una delle due riguarda la metodologia, l’altra esperimenti concreti effettuati quasi in condizioni quasi di laboratorio (come un’aula universitaria allo scopo, ad esempio, di determinare cosa renda “più felice” un gruppo di giovani, voti più alti agli esami o maggior tempo libero).
Guardando verso il futuro a lungo termine, secondo un’analisi del servizio studi della Banca d’Italia, alla fine del XXI secolo, ci accontenteremo di un pil a crescita rasoterra poiché comunque, a ragione della diminuzione della popolazione, il reddito pro-capite mostrerà leggeri aumenti.
Ragioni di cuore per essere tutti afgani in Ffwebmagazini 23 settembre
Lasciare la missione sarebbe voltare le spalle a un intero paese
Ragioni di cuore
per essere tutti afgani
Secondo il sito web www.icasualties.org, alla mezzanotte (ora di Greenwich) del 18 settembre, 1403 militari in missione di pace Nato hanno perso la vita in Afghanistan da quando nel 2001 è iniziata l’operazione. Tra essi 838 americani, 216 britannici e tra quelli di altre Nazioni, le perdite più numerose sono state di canadesi e di tedeschi. Il giorno prima dell’attentato-strage che ha falciato sei parà della Folgore, un titolo di apertura di prima pagina del New York Times ricordava ai propri lettori – in gran parte cittadini Usa – che «molte Nazioni soffrono le pene della guerra in Afghanistan». Attenzione: utilizzava il termine “Nazione” non quello più frequente “paese” o “Stato” e l’ampio servizio (circa una pagina intera del quotidiano) riportava un’analisi asettica delle ripercussioni delle perdite sull’opinione pubblica nell’ambito Nato. Il servizio veniva accostato ad uno, più breve, da Washington in cui si riferiva come lo Stato Maggiore americano si preparava a chiedere alla Casa Bianca un aumento dello sforzo militare, e, quindi, delle forze armate imperniate nell’impervie montagne e valli dell’Asia centrale.
Questo il contesto generale di una situazione in cui tutti i media ricordano correttamente che né le truppe di Sua Maestà britannica (ai tempi del massimo fulgore dell’Impero) né quelle sovietiche sono riuscite ad averla vita in un’area dove da sempre domina la guerriglia di clan tribali, ora accentuata dal fanatismo estremista e terrorista di matrici islamica.
I lettori di Ffwebmagazine sanno che sono un economista, non uno specialista di politica estera e tanto meno di strategia e tattica militare. Tuttavia, parte dei 24 di anni di vita professionale in Banca Mondiale (18) e agenzie specializzate delle Nazioni Unite (6) sono trascorsi lavorando sull’Asia. Per oltre un lustro uno dei miei migliori amici e colleghi è stato un architetto afghano (Zia Naimei) , morto vittima innocente di un gruppo terrorista giapponese nel cielo tra Penang e Kuala Lampur. Era persona colta e raffinata che aveva completato i propri studi a Zurigo e a Monaco, era sposato con un’intellettuale della Baviera, cucinava splendidamente la cucina della sua Nazione e conosceva profondamente la musica del romanticismo tedesco. La sua famiglia risiedeva a Kabul; il padre era stato alto funzionario dell’amministrazione afghana, i suoi fratelli e le sue sorelle erano di religione musulmana ma pensavano e agivano come occidentali. E si era non pochi anni fa, ma nella seconda metà degli Anni Settanta.
Il ricordo della morte, per mano di terroristi, di Zia non può non associarsi a quello dei 1403 (tra cui 21 nostri compatrioti) militari Nato che hanno perso la vita, per mano di terroristi, in Afghanistan. Oggi, infatti, sono afghano anche io. E dovrebbero esserlo tutti gli italiani nella consapevolezza che la lotta al terrorismo tra le valli e le montagne dell’Asia centrale non è soltanto per un Afghanistan libero ma anche per bloccare minacce alla libertà di tutti noi.
Le ragioni per la presenza Nato in Afghanistan sono identiche a quella della presenza Usa in Viet-Nam in anni che le nuove generazioni hanno coperto da una corte di oblio ma che non possono non avere plasmato profondamente chi, come me, ha vissuto a Washington dal 1967 al 1982 e ha visto numerosi compagni di università partire per l’Estremo Oriente volontari e non ritornare. Allora non si era alle prese con la difesa di un regime (quello dei vari Governi che si avvicendavano a Saigon) quanto meno discutibile ma delle libertà essenziali in tutta l’Asia meridionale e forse nel resto del mondo. Erano in corso varie forme di “insurgency” comunista – lo abbiamo dimenticato – in Malesia, in Indonesia, nelle Filippine. Dopo dieci anni di sforzo nel Viet-Nam quella battaglia fu persa, ma la guerra per la libertà nel resto dell’Asia fu vinta.
Phil McCoombs, mio compagno di studi e da giornalista del Washington Post vincitore di numerosi premi (anche perché fu prigioniero dei Viet-Cong e riuscì, in mondo rocambolesco, a scappare) nel saggio scritto a 30 anni della caduta di Saigon, sostiene, acutamente, che la battaglia venne persa solo temporaneamente: se gli “yankee” non avessero resistito per dieci anni, non avrebbe impiantato i semi su cui oggi , pur se in modo confuso e contradditorio, la libertà sta rinascendo nella Penisola.
Il parallelo tra Viet-Nam e Afghanistan è ancora più pregnante per due motivi: perché le montagne e le valli dell’Asia centrale non sono un baluardo di difesa di clan valenti ed orgogliosi come ai tempi dell’Impero britannico e dell’invasione sovietica, ma celano gruppi (minoritari) che sono diventati il motore ed il rifugio del terrorismo internazionale; e perchè persone come il mio compianto amico Zia e la sua famiglia dimostrano che c’è un Afghanistan moderno che può trainare il resto sulla via della modernizzazione, della crescita economica, del benessere, di una società più libera. Lasciare oggi, vorrebbe dire non solo voltare le spalle ai 1403 militari Nato caduti, ma anche al mio amico Zia. E ai tanti come lui.23 settembre 2009
Ragioni di cuore
per essere tutti afgani
Secondo il sito web www.icasualties.org, alla mezzanotte (ora di Greenwich) del 18 settembre, 1403 militari in missione di pace Nato hanno perso la vita in Afghanistan da quando nel 2001 è iniziata l’operazione. Tra essi 838 americani, 216 britannici e tra quelli di altre Nazioni, le perdite più numerose sono state di canadesi e di tedeschi. Il giorno prima dell’attentato-strage che ha falciato sei parà della Folgore, un titolo di apertura di prima pagina del New York Times ricordava ai propri lettori – in gran parte cittadini Usa – che «molte Nazioni soffrono le pene della guerra in Afghanistan». Attenzione: utilizzava il termine “Nazione” non quello più frequente “paese” o “Stato” e l’ampio servizio (circa una pagina intera del quotidiano) riportava un’analisi asettica delle ripercussioni delle perdite sull’opinione pubblica nell’ambito Nato. Il servizio veniva accostato ad uno, più breve, da Washington in cui si riferiva come lo Stato Maggiore americano si preparava a chiedere alla Casa Bianca un aumento dello sforzo militare, e, quindi, delle forze armate imperniate nell’impervie montagne e valli dell’Asia centrale.
Questo il contesto generale di una situazione in cui tutti i media ricordano correttamente che né le truppe di Sua Maestà britannica (ai tempi del massimo fulgore dell’Impero) né quelle sovietiche sono riuscite ad averla vita in un’area dove da sempre domina la guerriglia di clan tribali, ora accentuata dal fanatismo estremista e terrorista di matrici islamica.
I lettori di Ffwebmagazine sanno che sono un economista, non uno specialista di politica estera e tanto meno di strategia e tattica militare. Tuttavia, parte dei 24 di anni di vita professionale in Banca Mondiale (18) e agenzie specializzate delle Nazioni Unite (6) sono trascorsi lavorando sull’Asia. Per oltre un lustro uno dei miei migliori amici e colleghi è stato un architetto afghano (Zia Naimei) , morto vittima innocente di un gruppo terrorista giapponese nel cielo tra Penang e Kuala Lampur. Era persona colta e raffinata che aveva completato i propri studi a Zurigo e a Monaco, era sposato con un’intellettuale della Baviera, cucinava splendidamente la cucina della sua Nazione e conosceva profondamente la musica del romanticismo tedesco. La sua famiglia risiedeva a Kabul; il padre era stato alto funzionario dell’amministrazione afghana, i suoi fratelli e le sue sorelle erano di religione musulmana ma pensavano e agivano come occidentali. E si era non pochi anni fa, ma nella seconda metà degli Anni Settanta.
Il ricordo della morte, per mano di terroristi, di Zia non può non associarsi a quello dei 1403 (tra cui 21 nostri compatrioti) militari Nato che hanno perso la vita, per mano di terroristi, in Afghanistan. Oggi, infatti, sono afghano anche io. E dovrebbero esserlo tutti gli italiani nella consapevolezza che la lotta al terrorismo tra le valli e le montagne dell’Asia centrale non è soltanto per un Afghanistan libero ma anche per bloccare minacce alla libertà di tutti noi.
Le ragioni per la presenza Nato in Afghanistan sono identiche a quella della presenza Usa in Viet-Nam in anni che le nuove generazioni hanno coperto da una corte di oblio ma che non possono non avere plasmato profondamente chi, come me, ha vissuto a Washington dal 1967 al 1982 e ha visto numerosi compagni di università partire per l’Estremo Oriente volontari e non ritornare. Allora non si era alle prese con la difesa di un regime (quello dei vari Governi che si avvicendavano a Saigon) quanto meno discutibile ma delle libertà essenziali in tutta l’Asia meridionale e forse nel resto del mondo. Erano in corso varie forme di “insurgency” comunista – lo abbiamo dimenticato – in Malesia, in Indonesia, nelle Filippine. Dopo dieci anni di sforzo nel Viet-Nam quella battaglia fu persa, ma la guerra per la libertà nel resto dell’Asia fu vinta.
Phil McCoombs, mio compagno di studi e da giornalista del Washington Post vincitore di numerosi premi (anche perché fu prigioniero dei Viet-Cong e riuscì, in mondo rocambolesco, a scappare) nel saggio scritto a 30 anni della caduta di Saigon, sostiene, acutamente, che la battaglia venne persa solo temporaneamente: se gli “yankee” non avessero resistito per dieci anni, non avrebbe impiantato i semi su cui oggi , pur se in modo confuso e contradditorio, la libertà sta rinascendo nella Penisola.
Il parallelo tra Viet-Nam e Afghanistan è ancora più pregnante per due motivi: perché le montagne e le valli dell’Asia centrale non sono un baluardo di difesa di clan valenti ed orgogliosi come ai tempi dell’Impero britannico e dell’invasione sovietica, ma celano gruppi (minoritari) che sono diventati il motore ed il rifugio del terrorismo internazionale; e perchè persone come il mio compianto amico Zia e la sua famiglia dimostrano che c’è un Afghanistan moderno che può trainare il resto sulla via della modernizzazione, della crescita economica, del benessere, di una società più libera. Lasciare oggi, vorrebbe dire non solo voltare le spalle ai 1403 militari Nato caduti, ma anche al mio amico Zia. E ai tanti come lui.23 settembre 2009
martedì 22 settembre 2009
Musica, con “Il Viaggio a Reims” il belcanto fa tappa a Roma Il Velino 22 settembre
Musica, con “Il Viaggio a Reims” il belcanto fa tappa a Roma
Roma, 22 set (Velino) - Dopo il successo riscosso nel 2008, anche quest’anno a Roma l’Accademia di Santa Cecilia ha messo in cantiere un festival del “belcanto”. In primo luogo occorre specificare cosa s’intenda per “belcanto”. Si tratta di una tecnica di canto virtuosistico caratterizzata dal passaggio omogeneo dalle note gravi alle acute e da agilità nell'ornamentazione e nel fraseggio. E’ caratterizzato dalla perfetta uniformità della voce, da un eccellente legato, da un registro lievemente più alto del consueto, da un'incredibile flessibilità e da un timbro morbido. La maggiore enfasi posta sulla tecnica, rispetto al volume, fa sì che il “belcanto” sia associato a un esercizio atto a dimostrare la bravura: il cantante dovrebbe essere in grado di reggere una candela accesa davanti alla bocca e di cantare senza far oscillare la fiamma. E’ arduo dire che la grande Sala Santa Cecilia consente al “belcanto” di dispiegarsi in tutte le sue caratteristiche. Il “belcanto” in senso stretto ha una durata relativamente breve: inizia alla seconda metà del Settecento e termina all’inizio dell’Ottocento. A rigore, Vincenzo Bellini ne è il maggior esponente. I momenti più importanti del festival 2008 sono stati un concerto della “belcantista” per antonomasia Cecilia Bartoli e l’esecuzione delle belliniana “Norma”. Ancor prima che dal melodramma verdiano, il “belcanto” in senso stretto è travolto dal teatro in musica di Mozart, dalle stesse “opere serie” come “Idomeneo” e “La Clemenza di Tito” il cui libretto era stato scritto da Metastasio cinquanta anni prima che il salisburghese ci mettesse le mani su un testo riveduto da Giambattista Veresco.
L’edizione 2009 del festival, dal 16 al 26 settembre, comporta sei spettacoli di cui uno replicato due volte e un altro quattro. Bellini non è presente all’appello. Vi è invece molto Rossini (tre dei sei spettacoli) che, a rigore, non appartiene al “belcanto” e il mozartiano “Flauto Magico”, prodotto da RomaEuropa Festival per inaugurare la sua 24esima stagione, nella versione pop-rock dell’Orchestra di piazza Vittorio. Quindi, il termine “belcanto” deve essere inteso come una cornice molto vasta e molto vaga entro cui incastonare il festival. E’ stato inoltre inaugurato dal jazzista Danilo Rea con una serie non di parafasi ma di improvvisazioni basate principalmente su Bellini e Donizetti. Uno di punti forti è comunque avere portato a Roma, in forma semi-scenica, “Il Viaggio a Reims” di Gioacchino Rossini, opera “miracolata” in quanto considerata perduta sino a quando una studiosa americana ne ha ritrovato la partitura originale (in gran parte riutilizzata dallo stesso Rossini per “Le Comte Ory”) nei polverosi archivi dell’Accademia di Santa Cecilia. “Il Viaggio” venne lanciato da una favolosa esecuzione scenica (regia di Luca Ronconi, scene di Gae Aulenti, direzione musicale di Daniele Abbado) al Rossini Opera Festival del 1984, poi ripresa diverse volte a Pesaro, Vienna e alla Scala.
Variamente chiamato, negli stessi autografi, “Cantata Scenica” o “Opéra Comique en un Act”, “Il Viaggio a Reims” è un lavoro d’occasione: permette di mostrare l’abilità dei sette maggiori cantanti del Théatre Italien di Parigi nei giorni del 1825 in cui si festeggiava l’incoronazione di Carlo X, il quale avrebbe concesso a Rossini un lauto stipendio e una ricca pensione di cui il nostro ha goduto dall’età di 37 anni (Caro Renato Brunetta, i baby pensionati non sono un’italica invenzione recente…). Sta a “Le Comte Ory” come “Ernani” sta a “Il Trovatore”: un magnifico abbozzo di quello che sarebbe diventato uno stupendo lavoro completo. Purtroppo i bigotti impresari del romanticismo e del Novecento storico hanno boicottato “Le Comte” poiché troppo intriso di eros. E’ comunque lavoro importante che richiede un cast di stelle. Sorprende che abbia impiegato oltre 30 anni per arrivare dagli archivi alla Sala grande dove opera l’Accademia di Santa Cecilia e che in questi tre decenni sia stato ignorato anche dal Teatro dell’Opera. “Belcanto” o meno è un’operazione che andava fatta. E che è stata fatta a un alto livello artistico. Inutile raccontare la non-trama: altolocati di vari paesi europei attendono di andare alle feste per l’incoronazione in un albergo termale, ma vengono a mancare i cavalli per le carrozze e il festeggiamento viene fatto in albergo. E’ unicamente un pretesto per mostrare all’epoca cosa fossero in grado di fare Giuditta Pasta, Adelaide Schiassetti, Laure Cinti, Domenico Donzelli, Marco Bordogni, Felice Pellegrini, Vincenzo Graziani e Nicholas-Prosper Lévasseur, ossia il meglio del meglio del Théatre Italien.
Per quanto riguarda l’esecuzione al festival di Santa Cecilia, la bacchetta di Kent Nagano è molto differente da quella di Claudio Abbado: meno frizzante forse, ma più trasparente e di maggior supporto ai cantanti specialmente nel “grande pezzo concertato a quattordici voci”, uno dei momenti più alti e più complessi del lavoro. Il suono dell’orchestra è, al tempo stesso, rotondo e lucente; i solisti (l’arpa, i fiati) sono veri e propri virtuosi. Abbado, va ricordato, aveva a disposizione l’orchestra giovanile della Comunità europea (sia a Pesaro sia nel disco che ne ha immortalato l’esecuzione): senza dubbio giovani professionisti di gran valore, ma non con l’esperienza dei professori di Santa Cecilia.
“Il Viaggio” è un poema di voci e per voci. L’Accademia ha coniugato cantanti già molto noti (Daniela Barcellona, Nicola Ulivieri, Dmitry Korchak, Paolo Bordogna), con voci che adesso stanno cominciando a farsi conoscere (Shi Yijei, Mirco Palazzi, Ellie Dehn, Elena Gorshunova) e con giovanissimi del proprio Opera Studio. Ci vorrebbero pagine per commentare ciascun interprete e l’ottima tenuta d’insieme. Una sola menzione: la 23nne Rosa Feola nel ruolo di Corinna, la parte che rese celebre Cecilia Gasdia e che forse è la più prossima di tutte alla purezza del “belcanto”. E’ stata straordinaria e si è meritata applausi a scena aperta. Un suggerimento: non segua il percorso della Gasdia che, nel giro di tre lustri, ha rovinato il proprio strumento cantando anche ruoli di soprano drammatico. Resti ancorata al “belcanto” di Bellini, Donizetti e di certi ruoli rossiniani: di voci come la sua c’è tanto bisogno perché il “belcanto” possa continuare a essere ascoltato. Un’ultima annotazione: complimenti alla regia di Elisabetta Courir nel difficile spazio scenico e ai bei costumi presi in prestito dal Teatro dell’Opera.
Roma, 22 set (Velino) - Dopo il successo riscosso nel 2008, anche quest’anno a Roma l’Accademia di Santa Cecilia ha messo in cantiere un festival del “belcanto”. In primo luogo occorre specificare cosa s’intenda per “belcanto”. Si tratta di una tecnica di canto virtuosistico caratterizzata dal passaggio omogeneo dalle note gravi alle acute e da agilità nell'ornamentazione e nel fraseggio. E’ caratterizzato dalla perfetta uniformità della voce, da un eccellente legato, da un registro lievemente più alto del consueto, da un'incredibile flessibilità e da un timbro morbido. La maggiore enfasi posta sulla tecnica, rispetto al volume, fa sì che il “belcanto” sia associato a un esercizio atto a dimostrare la bravura: il cantante dovrebbe essere in grado di reggere una candela accesa davanti alla bocca e di cantare senza far oscillare la fiamma. E’ arduo dire che la grande Sala Santa Cecilia consente al “belcanto” di dispiegarsi in tutte le sue caratteristiche. Il “belcanto” in senso stretto ha una durata relativamente breve: inizia alla seconda metà del Settecento e termina all’inizio dell’Ottocento. A rigore, Vincenzo Bellini ne è il maggior esponente. I momenti più importanti del festival 2008 sono stati un concerto della “belcantista” per antonomasia Cecilia Bartoli e l’esecuzione delle belliniana “Norma”. Ancor prima che dal melodramma verdiano, il “belcanto” in senso stretto è travolto dal teatro in musica di Mozart, dalle stesse “opere serie” come “Idomeneo” e “La Clemenza di Tito” il cui libretto era stato scritto da Metastasio cinquanta anni prima che il salisburghese ci mettesse le mani su un testo riveduto da Giambattista Veresco.
L’edizione 2009 del festival, dal 16 al 26 settembre, comporta sei spettacoli di cui uno replicato due volte e un altro quattro. Bellini non è presente all’appello. Vi è invece molto Rossini (tre dei sei spettacoli) che, a rigore, non appartiene al “belcanto” e il mozartiano “Flauto Magico”, prodotto da RomaEuropa Festival per inaugurare la sua 24esima stagione, nella versione pop-rock dell’Orchestra di piazza Vittorio. Quindi, il termine “belcanto” deve essere inteso come una cornice molto vasta e molto vaga entro cui incastonare il festival. E’ stato inoltre inaugurato dal jazzista Danilo Rea con una serie non di parafasi ma di improvvisazioni basate principalmente su Bellini e Donizetti. Uno di punti forti è comunque avere portato a Roma, in forma semi-scenica, “Il Viaggio a Reims” di Gioacchino Rossini, opera “miracolata” in quanto considerata perduta sino a quando una studiosa americana ne ha ritrovato la partitura originale (in gran parte riutilizzata dallo stesso Rossini per “Le Comte Ory”) nei polverosi archivi dell’Accademia di Santa Cecilia. “Il Viaggio” venne lanciato da una favolosa esecuzione scenica (regia di Luca Ronconi, scene di Gae Aulenti, direzione musicale di Daniele Abbado) al Rossini Opera Festival del 1984, poi ripresa diverse volte a Pesaro, Vienna e alla Scala.
Variamente chiamato, negli stessi autografi, “Cantata Scenica” o “Opéra Comique en un Act”, “Il Viaggio a Reims” è un lavoro d’occasione: permette di mostrare l’abilità dei sette maggiori cantanti del Théatre Italien di Parigi nei giorni del 1825 in cui si festeggiava l’incoronazione di Carlo X, il quale avrebbe concesso a Rossini un lauto stipendio e una ricca pensione di cui il nostro ha goduto dall’età di 37 anni (Caro Renato Brunetta, i baby pensionati non sono un’italica invenzione recente…). Sta a “Le Comte Ory” come “Ernani” sta a “Il Trovatore”: un magnifico abbozzo di quello che sarebbe diventato uno stupendo lavoro completo. Purtroppo i bigotti impresari del romanticismo e del Novecento storico hanno boicottato “Le Comte” poiché troppo intriso di eros. E’ comunque lavoro importante che richiede un cast di stelle. Sorprende che abbia impiegato oltre 30 anni per arrivare dagli archivi alla Sala grande dove opera l’Accademia di Santa Cecilia e che in questi tre decenni sia stato ignorato anche dal Teatro dell’Opera. “Belcanto” o meno è un’operazione che andava fatta. E che è stata fatta a un alto livello artistico. Inutile raccontare la non-trama: altolocati di vari paesi europei attendono di andare alle feste per l’incoronazione in un albergo termale, ma vengono a mancare i cavalli per le carrozze e il festeggiamento viene fatto in albergo. E’ unicamente un pretesto per mostrare all’epoca cosa fossero in grado di fare Giuditta Pasta, Adelaide Schiassetti, Laure Cinti, Domenico Donzelli, Marco Bordogni, Felice Pellegrini, Vincenzo Graziani e Nicholas-Prosper Lévasseur, ossia il meglio del meglio del Théatre Italien.
Per quanto riguarda l’esecuzione al festival di Santa Cecilia, la bacchetta di Kent Nagano è molto differente da quella di Claudio Abbado: meno frizzante forse, ma più trasparente e di maggior supporto ai cantanti specialmente nel “grande pezzo concertato a quattordici voci”, uno dei momenti più alti e più complessi del lavoro. Il suono dell’orchestra è, al tempo stesso, rotondo e lucente; i solisti (l’arpa, i fiati) sono veri e propri virtuosi. Abbado, va ricordato, aveva a disposizione l’orchestra giovanile della Comunità europea (sia a Pesaro sia nel disco che ne ha immortalato l’esecuzione): senza dubbio giovani professionisti di gran valore, ma non con l’esperienza dei professori di Santa Cecilia.
“Il Viaggio” è un poema di voci e per voci. L’Accademia ha coniugato cantanti già molto noti (Daniela Barcellona, Nicola Ulivieri, Dmitry Korchak, Paolo Bordogna), con voci che adesso stanno cominciando a farsi conoscere (Shi Yijei, Mirco Palazzi, Ellie Dehn, Elena Gorshunova) e con giovanissimi del proprio Opera Studio. Ci vorrebbero pagine per commentare ciascun interprete e l’ottima tenuta d’insieme. Una sola menzione: la 23nne Rosa Feola nel ruolo di Corinna, la parte che rese celebre Cecilia Gasdia e che forse è la più prossima di tutte alla purezza del “belcanto”. E’ stata straordinaria e si è meritata applausi a scena aperta. Un suggerimento: non segua il percorso della Gasdia che, nel giro di tre lustri, ha rovinato il proprio strumento cantando anche ruoli di soprano drammatico. Resti ancorata al “belcanto” di Bellini, Donizetti e di certi ruoli rossiniani: di voci come la sua c’è tanto bisogno perché il “belcanto” possa continuare a essere ascoltato. Un’ultima annotazione: complimenti alla regia di Elisabetta Courir nel difficile spazio scenico e ai bei costumi presi in prestito dal Teatro dell’Opera.
CARTE ITALIANE A PITTSBURGH Il Tempo 22 settembre
L’Italia ha molto in gioco al G20 di Pittsburgh: la proposta di nuove “global rules” condivise dai 20 “Grandi” dell’economia e della finanza mondiale nasce a Roma. E’ stata portata gradualmente avanti prima in via bilaterale (convincendo Germania e Francia), poi in sede Ue ed infine al G8 (in effetti un G a geometria variabile) tenuto a L’Aquila in luglio. La settimana scorsa è stata il punto centrale della sessione dei Ministri dell’Economia e delle Finanze Ue.
Della proposta si conoscono essenzialmente le 70 pagine (o giù di lì) chiamati , a livello internazionale, i “principi de L’Aquila”. Il nodo di fondo del G20 è se ed in quale misura i “principi” saranno acquisiti e condivisi e si potrà passare allo stadio successivo della (non certo facile) redazione di convenzioni e trattati internazionali. E’ utile notare come parte importante della comunità finanziaria sostenga la linea dei “principi” per giungere a nuove “global rules”. Ad esempio, in questi giorni, Constantinos Stephanou, un alto dirigente della Banca Mondiale, ha pubblicato un saggio in favore dell’approccio “made in Italy”. Anche Rameshu Babu di una delle maggiori facoltà di finanza aziendale dell’India ha inteso scendere in campo con un articolo pubblicato su una delle maggiori riviste internazionale. Ciò non vuole dire che il Governo dell’India (usa a far sentire il proprio peso in sedi come il G20) sia a favore della proposta, adesso diventate “made in European Union”.
Soprattutto, gli Stati Uniti non hanno scoperto le loro carte. Ed il gioco di alleanze ad esse connesso.
Della proposta si conoscono essenzialmente le 70 pagine (o giù di lì) chiamati , a livello internazionale, i “principi de L’Aquila”. Il nodo di fondo del G20 è se ed in quale misura i “principi” saranno acquisiti e condivisi e si potrà passare allo stadio successivo della (non certo facile) redazione di convenzioni e trattati internazionali. E’ utile notare come parte importante della comunità finanziaria sostenga la linea dei “principi” per giungere a nuove “global rules”. Ad esempio, in questi giorni, Constantinos Stephanou, un alto dirigente della Banca Mondiale, ha pubblicato un saggio in favore dell’approccio “made in Italy”. Anche Rameshu Babu di una delle maggiori facoltà di finanza aziendale dell’India ha inteso scendere in campo con un articolo pubblicato su una delle maggiori riviste internazionale. Ciò non vuole dire che il Governo dell’India (usa a far sentire il proprio peso in sedi come il G20) sia a favore della proposta, adesso diventate “made in European Union”.
Soprattutto, gli Stati Uniti non hanno scoperto le loro carte. Ed il gioco di alleanze ad esse connesso.
domenica 20 settembre 2009
FINANZIAMENTI PUBBLICI: DEFISCALIZZARE IL CINEMA , DECENTRARE LA LIRICA, Il Tempo 20 settembre
Dopo anni di emergenza continua, la riforma del Fondo unico per lo spettacolo (Fus) è ormai diventata improrogabile non solo per le “grida di dolore” che, a torno od a ragione, si levano da tutto il settore ma anche in quanto il dibattito pare assumere caratteri folkloristici quali la sfida a duello che una personalità del mondo dello spettacolo ha lanciato al Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione. Da alcuni anni, la dotazione del Fus diminuisce (anche e soprattutto a ragione delle implicazioni sulla finanza pubblica della bassa crescita economica, prima, e della recessione, poi), ma il numero dei soggetti beneficiari (alcuni per contributi di €10.000 l’anno !”) aumenta; il risultato è la polverizzazione a pioggia degli stanziamenti.
L’urgenza della riforma non vuole dire che si debba trattare di un riassetto definito senza un’adeguata consultazione con esponenti ed esperti del settore. Sarebbe auspicabile che la tematica non sia affrontata unicamente da un gruppo molto ristretto di dirigenti ministeriali e di giuristi . Merita di essere discussa in seno al Consiglio Superiore dei Beni Culturali per avere il parere di altre discipline. Sono da incoraggiare iniziative come quella dell’Istituto Bruno Leoni che il primo ottobre a Milano ha indetto un seminario per esaminare una “success story” romana e le lezioni di politica legislativa che se ne possono apprendere.
La metà del Fus è da anni a supporto delle fondazioni liriche. Quindi, riforma del Fus vuole dire in primo luogo riforma del finanziamento pubblico alla lirica, anche perché per il cinema la strada tracciata è quella del credito d’imposta e di agevolazioni fiscale in linea con la normativa Ue. “Le aziende italiane potranno cominciare a investire anche nel cinema”. L’Ue ha dato via libera a questa forma di finanziamento pubblico indiretto alle produzioni cinematografiche, che rende possibile e favorisce il coinvolgimento di aziende italiane che, pur operando in altri settori, intendono investire nel cinema nazionale, in forme che saranno presto delineate nei decreti attuativi in via di pubblicazione. Verrà concesso un credito d’imposta del 40% per investimenti fino a 2 milioni e mezzo, per partecipare con quote minoritarie alla produzione e allo sfruttamento di film italiani. E’ già stata predisposta la modulistica necessaria per consentire ai produttori di richiedere il “tax credit”.
Per la lirica e la sinfonica, la diagnosi resta inquietante: in un Paese dove non si fa politica della cultura musicale da circa 70 anni, le fondazioni liriche (di diritti privato) sono in uno stato comatoso. A fronte del commissariamento di quattro fondazioni su 13 (e del probabile commissariamento di una quinta), di manifestazioni, le soluzioni non possono non tenere conto del “morbo di Baumol” (dal nome dell’economista, William Baumol, che negli Anni 60 ha scritto un fondamentale trattato sul settore): in un mondo di rapido progresso tecnologico, senza supporto pubblico (tramite sovvenzioni o sgravi tributari adeguati alle elargizioni filantropiche) la lirica muore (i teatri tedeschi hanno sovvenzioni che coprono mediamente il 90% dei costi e sono sempre pieni grazie ad un “sottostante” diffuso, popolare ed attivo). Per l’Italia, dove 400 anni fa è nato il teatro in musica, ciò vuol dire una perdita pesante di patrimonio nazionale. In sintesi, le soluzioni possibili sono le seguenti:
• Una revisione drastica della normativa sulle fondazioni che comporti un ripensamento del loro status giuridico ed una riduzione del loro numero (eliminandone un paio o per eccessiva contiguità territoriale con altre o perché hanno masse artistiche- orchestra, coro- qualitativamente al di sotto della media di buoni teatri europei).
• Imporre per legge una gestione delle fondazioni restanti basata sul binomio cooperazione-competitizione. Cooperazione vuole dire dare vita ad un cartellone nazionale con forti risparmi negli allestimenti e nei cachet degli artisti ed evitare che ciascuna fondazione miri a stagioni simili a mini-festival autoreferenziali. Competizione vuole dire premiare le fondazioni che, in base ai risultati di biglietteria e le valutazioni tecniche di una commissione internazionale, sappiano coniugare consuntivi in pareggio ed alta qualità. Non dovrebbe succedere che uno dei più applauditi spettacoli di questa estate abbia avuto un budget di 25.000 euro (e due sole rappresentazioni) ed uno dei più fischiati sia costato, secondo alcune stime, quasi 2 milioni di euro (per quattro rappresentazioni).
• Trasferire, nell’ambito del federalismo, alle Regioni “i teatri di tradizione”, i l”lirici sperimentali”, le “scuola d’opera” e simili. Gli eletti regionali decideranno se dare priorità al patrimonio lirico nazionale od alle fiere del carciofo gigante. Ed i loro elettori li giudicheranno.
Questo è naturalmente lo scheletro di un’architettura più complessa ancora tutta da elaborare.
L’urgenza della riforma non vuole dire che si debba trattare di un riassetto definito senza un’adeguata consultazione con esponenti ed esperti del settore. Sarebbe auspicabile che la tematica non sia affrontata unicamente da un gruppo molto ristretto di dirigenti ministeriali e di giuristi . Merita di essere discussa in seno al Consiglio Superiore dei Beni Culturali per avere il parere di altre discipline. Sono da incoraggiare iniziative come quella dell’Istituto Bruno Leoni che il primo ottobre a Milano ha indetto un seminario per esaminare una “success story” romana e le lezioni di politica legislativa che se ne possono apprendere.
La metà del Fus è da anni a supporto delle fondazioni liriche. Quindi, riforma del Fus vuole dire in primo luogo riforma del finanziamento pubblico alla lirica, anche perché per il cinema la strada tracciata è quella del credito d’imposta e di agevolazioni fiscale in linea con la normativa Ue. “Le aziende italiane potranno cominciare a investire anche nel cinema”. L’Ue ha dato via libera a questa forma di finanziamento pubblico indiretto alle produzioni cinematografiche, che rende possibile e favorisce il coinvolgimento di aziende italiane che, pur operando in altri settori, intendono investire nel cinema nazionale, in forme che saranno presto delineate nei decreti attuativi in via di pubblicazione. Verrà concesso un credito d’imposta del 40% per investimenti fino a 2 milioni e mezzo, per partecipare con quote minoritarie alla produzione e allo sfruttamento di film italiani. E’ già stata predisposta la modulistica necessaria per consentire ai produttori di richiedere il “tax credit”.
Per la lirica e la sinfonica, la diagnosi resta inquietante: in un Paese dove non si fa politica della cultura musicale da circa 70 anni, le fondazioni liriche (di diritti privato) sono in uno stato comatoso. A fronte del commissariamento di quattro fondazioni su 13 (e del probabile commissariamento di una quinta), di manifestazioni, le soluzioni non possono non tenere conto del “morbo di Baumol” (dal nome dell’economista, William Baumol, che negli Anni 60 ha scritto un fondamentale trattato sul settore): in un mondo di rapido progresso tecnologico, senza supporto pubblico (tramite sovvenzioni o sgravi tributari adeguati alle elargizioni filantropiche) la lirica muore (i teatri tedeschi hanno sovvenzioni che coprono mediamente il 90% dei costi e sono sempre pieni grazie ad un “sottostante” diffuso, popolare ed attivo). Per l’Italia, dove 400 anni fa è nato il teatro in musica, ciò vuol dire una perdita pesante di patrimonio nazionale. In sintesi, le soluzioni possibili sono le seguenti:
• Una revisione drastica della normativa sulle fondazioni che comporti un ripensamento del loro status giuridico ed una riduzione del loro numero (eliminandone un paio o per eccessiva contiguità territoriale con altre o perché hanno masse artistiche- orchestra, coro- qualitativamente al di sotto della media di buoni teatri europei).
• Imporre per legge una gestione delle fondazioni restanti basata sul binomio cooperazione-competitizione. Cooperazione vuole dire dare vita ad un cartellone nazionale con forti risparmi negli allestimenti e nei cachet degli artisti ed evitare che ciascuna fondazione miri a stagioni simili a mini-festival autoreferenziali. Competizione vuole dire premiare le fondazioni che, in base ai risultati di biglietteria e le valutazioni tecniche di una commissione internazionale, sappiano coniugare consuntivi in pareggio ed alta qualità. Non dovrebbe succedere che uno dei più applauditi spettacoli di questa estate abbia avuto un budget di 25.000 euro (e due sole rappresentazioni) ed uno dei più fischiati sia costato, secondo alcune stime, quasi 2 milioni di euro (per quattro rappresentazioni).
• Trasferire, nell’ambito del federalismo, alle Regioni “i teatri di tradizione”, i l”lirici sperimentali”, le “scuola d’opera” e simili. Gli eletti regionali decideranno se dare priorità al patrimonio lirico nazionale od alle fiere del carciofo gigante. Ed i loro elettori li giudicheranno.
Questo è naturalmente lo scheletro di un’architettura più complessa ancora tutta da elaborare.
venerdì 18 settembre 2009
LA MUSICA COLTA RISUONA NELLE SAGRE, Milano Finanza 19 settembre
In queste settimane si svolgono due festival internazionali, con grande affluenza di pubblico, rispettivamente in Umbria (Sagra Musicale Umbra) ed in Toscana (Anima Mundi). La Sagra è iniziata il 12 settembre e dura sino al 25 (un totale di 15 rappresentazioni sparse per tutta la regione) ; Anima Mundi si articola a Pisa dal 15 al 9 ottobre ed offre sei appuntamenti. Cinque sono le caratteristiche principali delle due manifestazioni a) enfasi su musica dello spirito – la Sagra Umbra ha come suo centro la figura di Santa Cecilia, la Santa patrona della musica, Anima Mundi la musica d’ispirazione religiosa del Settecento; b) contributi dello Stato molto limitati ma finanziamenti di enti locali e soprattutto di mecenati (di norma imprese) dei rispettivi territori; c) presenza principalmente di grandi complessi stranieri (dai filarmonici di Baviera diretto da Enoch zu Guttenberg all’orchestra e coro del Nord dei Paesi Bassi concertati da Michel Tabachnik, dall’Orchestre Révolutionaire et Romatique guidata da Eliott Gardiner ai celeberrimi Wiener Saengerknaben ) d) accostamento di classici con autori contemporanei, specialmente italiani (Part, Sciarrino, Fedele, Momi, Torchio, Frisina); e) politiche di prezzi contenuti (nella Sagra Umbra) e di gratuità (Anima Mundi), il che favorisce l’affluenza di pubblico nuovo, e giovane.
Sono due manifestazioni che si differenziano pure in termini anagrafici. La Sagra Umbra ha 64 stagioni sulle spalle, e se le porta molto bene. Anima Mundi è relativamente giovane (questa è la nona edizione) ma si è già affermata; l’edizione 2008 ha ottenuto il “Premio Abbiati” (l’Oscar italiano della musica per la categoria Festival). Naturalmente Haendel e Haydn di cui ricorrono i 250 e i 200 anni dalla morte hanno un posto di grande rilievo. Tra gli spettacoli ancora in programma segnalo il concerto finale della Sagra Umbra, a Perugia. in cui Part viene giustapposto a Gounod e a Pisa La Creazione di Haydn concertata da Sir Jonh Eliot Gardiner direttore musicale della manifestazione.
Sono due manifestazioni che si differenziano pure in termini anagrafici. La Sagra Umbra ha 64 stagioni sulle spalle, e se le porta molto bene. Anima Mundi è relativamente giovane (questa è la nona edizione) ma si è già affermata; l’edizione 2008 ha ottenuto il “Premio Abbiati” (l’Oscar italiano della musica per la categoria Festival). Naturalmente Haendel e Haydn di cui ricorrono i 250 e i 200 anni dalla morte hanno un posto di grande rilievo. Tra gli spettacoli ancora in programma segnalo il concerto finale della Sagra Umbra, a Perugia. in cui Part viene giustapposto a Gounod e a Pisa La Creazione di Haydn concertata da Sir Jonh Eliot Gardiner direttore musicale della manifestazione.
giovedì 17 settembre 2009
CLT - Musica, perché occorre portare la Sagra Umbra a Kabul. Il Velino 17 settembre
Roma, 17 set (Velino) - Arrivata la notizia della inutile strage a Kabul, il pensiero è corso a uno dei concerti della Sagra Musicale Umbra che si tiene in questi giorni. In particolare a quello di souer Marie Keyroutz e del suo Esemble de la Paix nella magnifica chiesa medioevale di San Bevignate, riaperta, dopo anni ed anni di restauri, per questa occasione. Soeur Marie è una suora di origine maronita e melchiana di concrezione religiosa. Nata in Libano, nei pressi di Baalbeck, ha un dottorato in musicologia e antropologia religiosa e un diploma in canto classico occidentale. Sotto il profilo tecnico è un “soprano assoluto” con un registro molto vasto e la capacità di ascendere ad acuti elevatissimi e discendere con naturalezza a tonalità gravi. È, in breve, una suora studiosa che canta. Perché canta? Lo ha detto lei stessa in un’intervista: per mettere la musica al servizio dei valori, di quello più alto che è la fede ma anche di quello più importante sul piano terreno che è la pace.
Ha fondato a Parigi un Istituto di Musicologia e anche uno speciale gruppo strumentale, l’Ensemble de la Paix. Costituito unicamente da uomini (di un’ampia gamma d’età), l’Ensemble coniuga strumenti mediorientali , principalmente a corda (il nay, il riqq, il naqus, il mahar, il quanun), con strumenti occidentali, quali il pianoforte e il contrabbasso. Nel concerto di domenica scorsa ha declinato il “Salve ,o Maria” di Mascagni e il “Panis Angelicus” di Franck con canti, spesso tratti dal Vangelo, della chiesa siriaca maronita. Chi ha una certa dimestichezza con la musica ebrea Bukhara (sono emigrati dall’Asia centrale negli Usa, quelli non sterminati nei genocidi comunisti), rimane colpito dalla somiglianza nel lessico musicale delle tre grandi religioni monoteiste. Lo si avverte specialmente nel “Touba lahum” (le Beatidini dal Vangelo di San Matteo cantate da souer Marie a conclusione del concerto). La Sagra Umbra è da 64 anni dedicata alla pace: perché non portarla, con un finanziamento speciale, come messaggero di pace in luoghi di guerra come l’Afghanistan e l’Iraq? Benedetto XVI in più di un’occasione ci ha ricordato che la musica è la più alta delle arti perché è quella che più ci avvicina all’Altissimo.
Anche il concerto inaugurale è stato dedicato alla pace: un “oratorio laico”, ma intriso di religiosità, raramente eseguito in Italia, “Die Jahreszeiten (Le Stagioni)”. È opera matura di un Joseph Haydn quasi settantenne. Composta nel 1800, rappresenta sotto numerosi punti di vista, un ponte tra il classicismo settecentesco e il romanticismo del XIX secolo appena iniziato. Si avvertono presagi, principalmente con il “Freischütz” di Weber (la tempesta della seconda parte e la caccia della terza) e con la “Sinfonia Pastorale” di Beethoven (la descrizione della natura, specialmente nella prima parte sin dall’introduzione in “Si” bemolle). Ciò che distingue l’esecuzione concertata da Enoch zu Guttenberg, alla guida di un orchestra e di un coro da lui creati, rispetto ad altre, è l’accento su questi presagi romantici, pur restando nella struttura formale classica. Per zu Guttenberg, non siamo più in un “oratorio” settecentesco, ma in un’anticipazione di quella che sarebbe stata l’opera romantica tedesca prima della riforma wagneriana. È un’opera a tre personaggi (padre, figlia, fidanzato della figlia), semplici contadini, con un doppio coro, pure esso di contadini, a loro contorno. Si avverte una vicenda di amore nel trascorrere delle stagioni e nel comprendere insieme il significato trascendente della esistenza terrena.
(Hans Sachs) 17 set 2009 19:43
Ha fondato a Parigi un Istituto di Musicologia e anche uno speciale gruppo strumentale, l’Ensemble de la Paix. Costituito unicamente da uomini (di un’ampia gamma d’età), l’Ensemble coniuga strumenti mediorientali , principalmente a corda (il nay, il riqq, il naqus, il mahar, il quanun), con strumenti occidentali, quali il pianoforte e il contrabbasso. Nel concerto di domenica scorsa ha declinato il “Salve ,o Maria” di Mascagni e il “Panis Angelicus” di Franck con canti, spesso tratti dal Vangelo, della chiesa siriaca maronita. Chi ha una certa dimestichezza con la musica ebrea Bukhara (sono emigrati dall’Asia centrale negli Usa, quelli non sterminati nei genocidi comunisti), rimane colpito dalla somiglianza nel lessico musicale delle tre grandi religioni monoteiste. Lo si avverte specialmente nel “Touba lahum” (le Beatidini dal Vangelo di San Matteo cantate da souer Marie a conclusione del concerto). La Sagra Umbra è da 64 anni dedicata alla pace: perché non portarla, con un finanziamento speciale, come messaggero di pace in luoghi di guerra come l’Afghanistan e l’Iraq? Benedetto XVI in più di un’occasione ci ha ricordato che la musica è la più alta delle arti perché è quella che più ci avvicina all’Altissimo.
Anche il concerto inaugurale è stato dedicato alla pace: un “oratorio laico”, ma intriso di religiosità, raramente eseguito in Italia, “Die Jahreszeiten (Le Stagioni)”. È opera matura di un Joseph Haydn quasi settantenne. Composta nel 1800, rappresenta sotto numerosi punti di vista, un ponte tra il classicismo settecentesco e il romanticismo del XIX secolo appena iniziato. Si avvertono presagi, principalmente con il “Freischütz” di Weber (la tempesta della seconda parte e la caccia della terza) e con la “Sinfonia Pastorale” di Beethoven (la descrizione della natura, specialmente nella prima parte sin dall’introduzione in “Si” bemolle). Ciò che distingue l’esecuzione concertata da Enoch zu Guttenberg, alla guida di un orchestra e di un coro da lui creati, rispetto ad altre, è l’accento su questi presagi romantici, pur restando nella struttura formale classica. Per zu Guttenberg, non siamo più in un “oratorio” settecentesco, ma in un’anticipazione di quella che sarebbe stata l’opera romantica tedesca prima della riforma wagneriana. È un’opera a tre personaggi (padre, figlia, fidanzato della figlia), semplici contadini, con un doppio coro, pure esso di contadini, a loro contorno. Si avverte una vicenda di amore nel trascorrere delle stagioni e nel comprendere insieme il significato trascendente della esistenza terrena.
(Hans Sachs) 17 set 2009 19:43
LA SAGRA IN UMBRIA E ANIMA MUNDI A PISA, NOTE DI SACRO, Il Domenicale 19 settembre
Mentre a Milano ed Torino sta volgendo al termine la terza edizione della grande kermesse di Mi.To., è utile ricordare due manifestazioni musicali di alta qualità che in autunno hanno luogo in Italia centrale e sono dedicate alla musica dello spirito. La più antica è la Sagra Musicale Umbra giunta alla 64 edizione; coinvolge numerose città della regione e gode di una partecipazione molto attiva della popolazione. Più recente (è alla nona edizione) la pisana Anima Mundi.
Da quanto Alberto Batisti ne ha assunto la direzione artistica , ogni Sagra ha un tema specifico: nel 2008 lo è stato la Divina Commedia di Dante, nel 2009 il tema èquanto dedicata a Santa Cecilia che patrona della musica . La Santa è il fulcro della manifestazione poiché sono incentrate su di lei sia opere conosciutissime sia primizie barocche sia nuove composizione contemporanee.
In breve Georg Friederich Haendel e Joseph Haydn (in occasione della ricorrenza dei 250 anni dalla morte del primo e dei 200 anni da quella del secondo) e chicche di Herny Purcell e Alessandro Scarlatti vengono giustapposti al Novecento “storico” di Benjamin Britten e alla contemporaneità di Ivan Fedele, Sofia Gubaidulina, Salvatore Sciarrino, Arvo Pärt e Marco Momi con composizioni in qualche modo correlate a Santa Cecilia.
La Sagra è iniziata al Teatro Morlacchi di Perugia il 12 settembre con l’esecuzione dell’oratorio Le Stagioni di Haydn,un grande affresco corale, diretto da Enoch zu Guttenberg alla guida dei Filarmonici di Baviera - KlangVerwaltung e del Chorgemeinschaft Neubeuern. Solisti il soprano Carolina Ullrich, il tenore Jörg Dürmüller e il basso York Felix Speer. Anche la chiusura avverrà al Teatro Morlacchi, il 25 settembre, con l’esecuzione della sontuosa Messa Solenne di Santa Cecilia di Charles Gounod diretta da Michel Tabachnik alla guida della Noord-Nederlands Orkest (NNO), formazione che si esibisce per la prima volta in Italia. Tra queste due date un programma ricchissimo per tutti coloro che amano i vari modi in cui veniva e viene declinata la musica “alta”.
Il vostro chroniquer ha assistito al concerto inaugurale. Le Stagioni è opera matura di un Joseph Haydn quasi settantenne; composta nel 1800 rappresenta , sotto numerosi punti di vista, un ponte tra il classicismo settecentesco ed il romanticismo del secolo appena iniziato. Si avvertono presagi , principalmente con il Freischütz di Weber (la tempesta della seconda parte e la caccia della terza) e con la Sinfonia Pastorale di Beethoven (la descrizione della natura, specialmente nella prima parte sin dall’introduzione in Si bemolle).
Ciò che distingue l’esecuzione concertata da Enoch zu Guttenberg , alla guida di un orchestra e di un coro da lui creati, rispetto ad altre – anche a quelle più presenti nella discografia corrente (ad esempio le incisioni di Harnoncourt e di von Karajan, ora facilmente trovabili in edizioni economiche) è l’accento su questi presagi romantici, pur restando nella struttura formale classica. Per zu Guttenberg, non siamo più in un “oratorio” settecentesco – in effetti Le Stagioni non furono pubblicate come “oratorio” ma con un titolo neutro Le Stagioni , da Thomson, messe in musica da Joseph Haydn – ma in un’anticipazione di quella che sarebbe stata l’opera romantica tedesca prima della riforma wagneriana. E’ un’opera a tre personaggi (padre, figlia, fidanzato della figlia), semplici (contadini), con un doppio coro (pure esso di contadini) a loro contorno. Si avverte una vicenda di amore nel trascorrere delle stagioni e nel comprendere insieme il significato (trascendente) della esistenza terrena. Caroline Ulrich è un giovano soprano lirico cileno, con un volume potente, molto abile nel raggiungere tonalità alte e in momenti di coloratura. Jörg Dürmüller è un tenore dalla emissione pura e dal timbro leggermente scuro (forse anche a ragione delle sue esperienze in ruoli wagneriani), Martin Danes è un baritone-basso , specialmente apprezzabile nei momenti in cui è richiesta agilità.
Di grande impatto anche il concerto di Soeur Marie Keyrouz e il suo Ensemble de la Paix, da anni anche grande successo discografico in quanto i canti della giovane suora maronita sono di particolare appello pure alla nuove generazioni.
Due appuntamenti importanti per chi ama la musica contemporanea: il concerto, nel Museo di San Francesco a Montefalco, del gruppo Kamerinis Koras Brevis di Vilnius in cui verrà eseguito l’Hymn to St. Cecilia di Britten a quello a Torgiano nella Chiesa di San Bartolomeo ove, alle ore 21, Ullrike Brand al violoncello, Margit Kernalla bayan-fisarmonica e Roberta Cortese come voce recitante a due composizioni di Sofia Gubaidulina: In Croce per violoncello e fisarmonica e i 10 Preludi per violoncello solo che accompagnano la recita di Paese senza parole di Dea Loher.
Più giovane la rassegna di musica dello spirito , antica e contemporanea, “Anima Mudi” che da nove anni viene organizzata ogni autunno a Pisa. Il direttore artistico è Sir John Gardiner e si conta su esecutori di grande rilievo. La rassegna si svolge dal 15 settembre al 9 ottobre. Pure a Pisa Haendel e Haydn hanno un posto speciale. La rassegna è iniziata con il grande oratorio haendeliano “Israel In Egypt” e include “La Creazione” e “Le ultime parole di Cristo sulla Croce” di Haydn. Grande attesa per la prima mondiale di un oratorio o opera-oratorio di Don Marco Frisina , compositore sempre al limite tra la musica “alta” e quella più popolare al fine di attirare pubblico nuovo alla musica sacra: dopo avere girato l’Italia (e non solo) con “La Divina Commedia”, debutterà a Pisa la sua lettura musicale del “Cantico dei Cantici”.
Da quanto Alberto Batisti ne ha assunto la direzione artistica , ogni Sagra ha un tema specifico: nel 2008 lo è stato la Divina Commedia di Dante, nel 2009 il tema èquanto dedicata a Santa Cecilia che patrona della musica . La Santa è il fulcro della manifestazione poiché sono incentrate su di lei sia opere conosciutissime sia primizie barocche sia nuove composizione contemporanee.
In breve Georg Friederich Haendel e Joseph Haydn (in occasione della ricorrenza dei 250 anni dalla morte del primo e dei 200 anni da quella del secondo) e chicche di Herny Purcell e Alessandro Scarlatti vengono giustapposti al Novecento “storico” di Benjamin Britten e alla contemporaneità di Ivan Fedele, Sofia Gubaidulina, Salvatore Sciarrino, Arvo Pärt e Marco Momi con composizioni in qualche modo correlate a Santa Cecilia.
La Sagra è iniziata al Teatro Morlacchi di Perugia il 12 settembre con l’esecuzione dell’oratorio Le Stagioni di Haydn,un grande affresco corale, diretto da Enoch zu Guttenberg alla guida dei Filarmonici di Baviera - KlangVerwaltung e del Chorgemeinschaft Neubeuern. Solisti il soprano Carolina Ullrich, il tenore Jörg Dürmüller e il basso York Felix Speer. Anche la chiusura avverrà al Teatro Morlacchi, il 25 settembre, con l’esecuzione della sontuosa Messa Solenne di Santa Cecilia di Charles Gounod diretta da Michel Tabachnik alla guida della Noord-Nederlands Orkest (NNO), formazione che si esibisce per la prima volta in Italia. Tra queste due date un programma ricchissimo per tutti coloro che amano i vari modi in cui veniva e viene declinata la musica “alta”.
Il vostro chroniquer ha assistito al concerto inaugurale. Le Stagioni è opera matura di un Joseph Haydn quasi settantenne; composta nel 1800 rappresenta , sotto numerosi punti di vista, un ponte tra il classicismo settecentesco ed il romanticismo del secolo appena iniziato. Si avvertono presagi , principalmente con il Freischütz di Weber (la tempesta della seconda parte e la caccia della terza) e con la Sinfonia Pastorale di Beethoven (la descrizione della natura, specialmente nella prima parte sin dall’introduzione in Si bemolle).
Ciò che distingue l’esecuzione concertata da Enoch zu Guttenberg , alla guida di un orchestra e di un coro da lui creati, rispetto ad altre – anche a quelle più presenti nella discografia corrente (ad esempio le incisioni di Harnoncourt e di von Karajan, ora facilmente trovabili in edizioni economiche) è l’accento su questi presagi romantici, pur restando nella struttura formale classica. Per zu Guttenberg, non siamo più in un “oratorio” settecentesco – in effetti Le Stagioni non furono pubblicate come “oratorio” ma con un titolo neutro Le Stagioni , da Thomson, messe in musica da Joseph Haydn – ma in un’anticipazione di quella che sarebbe stata l’opera romantica tedesca prima della riforma wagneriana. E’ un’opera a tre personaggi (padre, figlia, fidanzato della figlia), semplici (contadini), con un doppio coro (pure esso di contadini) a loro contorno. Si avverte una vicenda di amore nel trascorrere delle stagioni e nel comprendere insieme il significato (trascendente) della esistenza terrena. Caroline Ulrich è un giovano soprano lirico cileno, con un volume potente, molto abile nel raggiungere tonalità alte e in momenti di coloratura. Jörg Dürmüller è un tenore dalla emissione pura e dal timbro leggermente scuro (forse anche a ragione delle sue esperienze in ruoli wagneriani), Martin Danes è un baritone-basso , specialmente apprezzabile nei momenti in cui è richiesta agilità.
Di grande impatto anche il concerto di Soeur Marie Keyrouz e il suo Ensemble de la Paix, da anni anche grande successo discografico in quanto i canti della giovane suora maronita sono di particolare appello pure alla nuove generazioni.
Due appuntamenti importanti per chi ama la musica contemporanea: il concerto, nel Museo di San Francesco a Montefalco, del gruppo Kamerinis Koras Brevis di Vilnius in cui verrà eseguito l’Hymn to St. Cecilia di Britten a quello a Torgiano nella Chiesa di San Bartolomeo ove, alle ore 21, Ullrike Brand al violoncello, Margit Kernalla bayan-fisarmonica e Roberta Cortese come voce recitante a due composizioni di Sofia Gubaidulina: In Croce per violoncello e fisarmonica e i 10 Preludi per violoncello solo che accompagnano la recita di Paese senza parole di Dea Loher.
Più giovane la rassegna di musica dello spirito , antica e contemporanea, “Anima Mudi” che da nove anni viene organizzata ogni autunno a Pisa. Il direttore artistico è Sir John Gardiner e si conta su esecutori di grande rilievo. La rassegna si svolge dal 15 settembre al 9 ottobre. Pure a Pisa Haendel e Haydn hanno un posto speciale. La rassegna è iniziata con il grande oratorio haendeliano “Israel In Egypt” e include “La Creazione” e “Le ultime parole di Cristo sulla Croce” di Haydn. Grande attesa per la prima mondiale di un oratorio o opera-oratorio di Don Marco Frisina , compositore sempre al limite tra la musica “alta” e quella più popolare al fine di attirare pubblico nuovo alla musica sacra: dopo avere girato l’Italia (e non solo) con “La Divina Commedia”, debutterà a Pisa la sua lettura musicale del “Cantico dei Cantici”.
NEL 2020 LA PREVIDENZA ASSORBIRA’ IL 205 DEL PIL, Il Tempo del 17 settembre
E’ il caso di stappare bottiglie di champagne ed affermare che i problemi previdenziali del Paese sono risolti? Martedì 15 settembre, il Consiglio di Indirizzo e di Vigilanza dell’Inps – ossia, nella “governance” duale dell’istituto, l’organo di governo designato dalle associazioni sindacali e imprenditoriali- esaminerà stime secondo cui l’esercizio di gestione per il 2009 esporrà un saldo attivo di 5,9 miliardi di euro. I bilancio di esercizio del 2008 e del 2009 si sono chiusi con saldi attivi attorno a 6,5-7 miliardi di euro ed il patrimonio netto dell’istituto è valutato in ben 45 miliardi; grande festa, quindi, a Via Ciro Il Grande (sede centrale Inps). E’ il caso di farla?
Occorre cautela prima di organizzarla. Le entrate Inps – al netto del contributo a carico dell’erario- sono aumentate in misura significativa in questi ultimi anni a ragione di determinanti di breve e medio periodo non di cambiamenti strutturali nell’evoluzione della spesa previdenziale e delle risorse per sostenerla, oppure dell’andamento demografico. Alcune di queste determinanti – la regolarizzazione di circa 200.000 stranieri (sia extra-comunitari sia neocomunitari) e la lotta al lavoro in nero con l’emersione di circa 80.000 uomini e donne tra dipendenti ed autonomi- sono chiaramente “una tantum”. Inoltre, le regole Ue e le “convenzioni” bilaterali con numerosi Paesi terzi prevedono che, in caso di rientro in Patria, i contributi versati all’Inps dagli stranieri e dai loro datori di lavoro vengano stornati agli istituti previdenziali dei Paesi di provenienza: possibile, quindi, che le entrate nette di oggi vengano in parte neutralizzate da uscite di domani. Alcuni scenari suggeriscono pure un deflusso netto, come si sta verificando in Canada. L’aumento dei contributi varato dal Governo Prodi è anche esso una misura i cui effetti si esauriscono nel giro di pochi anni, dopo il balzo iniziale di entrate da esso attivato. Tra le entrate messe in conto, poi, ci sono crediti per 30 miliardi nei confronti principalmente di imprese (che non hanno versato i contributi), ma il loro valore effettivo dipende dall’esito di circa mezzo milione di vertenze. La conclusioni di molte di queste sarà alla calende greche. Per molte altre, si dovrà giungere ad accordi extra-giudiziali che presumibilmente porteranno ad introiti inferiori a quelli oggi stimati. Se mediamente tali accordi comportassero una riduzione effettiva dei crediti del 30% (ipotesi prudenziale; è più verosimile un recupero attorno al 50%), si passerebbe da un attivo ad un passivo.
I nodi di fondo- economici, ancora prima che finanziari, e demografici – sono ben lungi dall’essere risolti. Lo mostrano a tutto tondo le previsioni nell’ultimo Dpef che pur ipotizzano una crescita economica più sostenuta (1,5-2% l’anno del pil) di quella che ora appare realistica (una ripresa lenta dopo una contrazione: si tornerebbe al pil del 2008 attorno al 2012) e mettevano in conto una modifica (al ribasso) dei “coefficienti di trasformazione” (i parametri con cui calcolare le annualità da erogare, ai pensionati, in base al montante di contributi spettante a ciascuno). Non molto differenti da quelle della Ragioneria Generale dello Stato ( sulle quali si basa il Dpef) sono le stime dell’Ocse e di uno studio dell’Università di Roma. In sintesi, mentre nella media dei Paesi Ue, la spese per la previdenza pubblica assorbono circa il 14%del pil, in Italia rischiano di arrivare al 16% - ove non al 18% - del pil prima di assestarsi sul 14% verso il 2050. Attenzione, secondo mie stime a ragione dell’andamento macroeconomico 2008-2012 nel 2020 circa, a regole invariate la previdenza potrebbe assorbire circa il 20% del pil. Quanto più si spende per la previdenza tanto meno si ha a disposizione per istruzione, cultura, e via discorrendo.
In questi anni, tutti gli altri Paesi Ocse si stanno prendendo misure per incoraggiare gli anziani a restare nel mercato del lavoro. La crisi economica è in molti Paesi il grimaldello per cambiare la normativa; nei Paesi scandinavi ed in Germania l’età legale della pensione viaggia più o meno gradualmente verso i 68 anni, ove non i 70. L’unica eccezione è la Francia, dove i lavoratori dipendenti nel settore privato vanno in pensione ancora a 60 anni (nel pubblico a 65, tranne alcune categorie quali i ferrorieri).
In Italia esiste un forte incentivo a restare sul mercato del lavoro (ma pochi lavoratori se ne sono accorti) : se si torna ad un tasso d’inflazione del 5% l’anno – come verosimilmente stanno programmando Usa ed Ue per liberarsi della montagna di debito accumulato in questi ultimi due anni-, nel giro di dieci anni il valore reale di molte pensioni medio-alte si ridurrà del 40%, quello di pensioni basse del 20%. Chi va in pensione presto, quindi, rischia grosso.
Occorre cautela prima di organizzarla. Le entrate Inps – al netto del contributo a carico dell’erario- sono aumentate in misura significativa in questi ultimi anni a ragione di determinanti di breve e medio periodo non di cambiamenti strutturali nell’evoluzione della spesa previdenziale e delle risorse per sostenerla, oppure dell’andamento demografico. Alcune di queste determinanti – la regolarizzazione di circa 200.000 stranieri (sia extra-comunitari sia neocomunitari) e la lotta al lavoro in nero con l’emersione di circa 80.000 uomini e donne tra dipendenti ed autonomi- sono chiaramente “una tantum”. Inoltre, le regole Ue e le “convenzioni” bilaterali con numerosi Paesi terzi prevedono che, in caso di rientro in Patria, i contributi versati all’Inps dagli stranieri e dai loro datori di lavoro vengano stornati agli istituti previdenziali dei Paesi di provenienza: possibile, quindi, che le entrate nette di oggi vengano in parte neutralizzate da uscite di domani. Alcuni scenari suggeriscono pure un deflusso netto, come si sta verificando in Canada. L’aumento dei contributi varato dal Governo Prodi è anche esso una misura i cui effetti si esauriscono nel giro di pochi anni, dopo il balzo iniziale di entrate da esso attivato. Tra le entrate messe in conto, poi, ci sono crediti per 30 miliardi nei confronti principalmente di imprese (che non hanno versato i contributi), ma il loro valore effettivo dipende dall’esito di circa mezzo milione di vertenze. La conclusioni di molte di queste sarà alla calende greche. Per molte altre, si dovrà giungere ad accordi extra-giudiziali che presumibilmente porteranno ad introiti inferiori a quelli oggi stimati. Se mediamente tali accordi comportassero una riduzione effettiva dei crediti del 30% (ipotesi prudenziale; è più verosimile un recupero attorno al 50%), si passerebbe da un attivo ad un passivo.
I nodi di fondo- economici, ancora prima che finanziari, e demografici – sono ben lungi dall’essere risolti. Lo mostrano a tutto tondo le previsioni nell’ultimo Dpef che pur ipotizzano una crescita economica più sostenuta (1,5-2% l’anno del pil) di quella che ora appare realistica (una ripresa lenta dopo una contrazione: si tornerebbe al pil del 2008 attorno al 2012) e mettevano in conto una modifica (al ribasso) dei “coefficienti di trasformazione” (i parametri con cui calcolare le annualità da erogare, ai pensionati, in base al montante di contributi spettante a ciascuno). Non molto differenti da quelle della Ragioneria Generale dello Stato ( sulle quali si basa il Dpef) sono le stime dell’Ocse e di uno studio dell’Università di Roma. In sintesi, mentre nella media dei Paesi Ue, la spese per la previdenza pubblica assorbono circa il 14%del pil, in Italia rischiano di arrivare al 16% - ove non al 18% - del pil prima di assestarsi sul 14% verso il 2050. Attenzione, secondo mie stime a ragione dell’andamento macroeconomico 2008-2012 nel 2020 circa, a regole invariate la previdenza potrebbe assorbire circa il 20% del pil. Quanto più si spende per la previdenza tanto meno si ha a disposizione per istruzione, cultura, e via discorrendo.
In questi anni, tutti gli altri Paesi Ocse si stanno prendendo misure per incoraggiare gli anziani a restare nel mercato del lavoro. La crisi economica è in molti Paesi il grimaldello per cambiare la normativa; nei Paesi scandinavi ed in Germania l’età legale della pensione viaggia più o meno gradualmente verso i 68 anni, ove non i 70. L’unica eccezione è la Francia, dove i lavoratori dipendenti nel settore privato vanno in pensione ancora a 60 anni (nel pubblico a 65, tranne alcune categorie quali i ferrorieri).
In Italia esiste un forte incentivo a restare sul mercato del lavoro (ma pochi lavoratori se ne sono accorti) : se si torna ad un tasso d’inflazione del 5% l’anno – come verosimilmente stanno programmando Usa ed Ue per liberarsi della montagna di debito accumulato in questi ultimi due anni-, nel giro di dieci anni il valore reale di molte pensioni medio-alte si ridurrà del 40%, quello di pensioni basse del 20%. Chi va in pensione presto, quindi, rischia grosso.
mercoledì 16 settembre 2009
SOLO LA STAMPA ITALIANA POTEVA FESTEGGIARE L’ANNIVERSARIO DELLA CRISI, L'Occidentale 16 settembre
Un suggerimento a editori, amministratori delegati e direttori di giornali: in tutte le redazioni ci dovrebbe essere affisso un pannello con il detto americano Boys (and Girls) Do Not Cry. La lettura dei commenti e dei servizi economico delle prime pagine del 14 e 15 settembre (specialmente di quelle di alcune testate, per di più da sempre collaterali alla grande industria ed alla grande finanza) dava la netta impressione che i giornalisti economici amino i necrologi (forse perché diventati fonte essenziale d’inserzione) e i lacrimatoi di neroniana memoria(Tacito racconta che l’Imperatore aveva una stanza apposita nella Domus Area dedicata al pianto ed alla raccolta, in urne, delle imperiali lacrime).
Basta scorrere che pochi hanno dedicato la loro attenzione ai segni di ripresa ed a temi relativamente nuovi per la stampa quotidiana , pur se antichi nella professione, (come l’economia della felicità). Quasi tutti hanno dedicato colonne e colonne all’anniversario del fallimento di Lehman Brothers , trattato come evento epocale (pur se lacrimogeno e lacrimoso) che avrebbe segnato una spartiacque nell’evoluzione mondiale e nella percezione di cosa è auspicabile e cosa è invece deprecabile. Gran parte degli articoli erano, in aggiunta, firmati da giornalisti che non avevano percepito l’avanzarsi della crisi nella prima parte di questo decennio. Tra coloro in lacrime anche un collega con cui ha avuto una garbata polemica nel luglio 2007 poiché alle prime misure della Federal Reserve (dirette a tentare di mettere una toppa) aveva salutato la fine delle difficoltà finanziarie (si era appena all’inizio) ed aveva anche lanciato un peana in favore dei mutui subprime per la loro funzione da lui ritenuta sociale.
Le rassegne stampa del 14 e 15 settembre dovrebbe indurre ad una riflessione. In primo luogo, non si celebrano le ricorrenze dei fallimenti – la stampa estera ha ricordato l’evento con molta sobrietà e poco spazio. In secondo luogo, se la stampa economica, in una fase densa di temi nuovi come l’attuale, si dedica ad acchiappare farfalle (tra un piagnisteo e l’altro), non dobbiamo sorprenderci se lettori (ed inserzionisti) votano con le gambe e le voltano le spalle.
Nel 1952, Keith Murdoch, padre quel Sir Rupert che è uno dei maggiori editori a livello mondiale, scrisse nella propria lettera-testamento al proprio figlio-erede: “Salva la stampa scritta”. Keith la vedeva già assediata dalla televisione ma ne riconosceva la funzione sociale: non solo dare notizie (quello, nel 1952, poteva già farlo la televisione ed ora Internet e tanti altri meccanismi) ma approdarle, evidenziarne la relativa gerarchia. Keith Murdoch non è ricordato nell’ultimo lavoro di Alex Jones, per anni una delle firme di punta del “New Times”, vincitore di un Premio Pulitzer e a lungo alla guida dello Shorenstein Center on the Press, Politics and Public Policy all’Università di Harvard. Nel suo ultimo libro (“Losing the News. The Future of News that Feeds Democracy, Oxford University Press) sottolinea, in 234 pagine dense di teoria del giornalismo e di analisi empiriche, come la stampa scritta ha una sola strada per salvarsi (e contribuire alla democrazia): in-depth reporting (ossia approfondimenti ed inchieste). Se il giornalismo si dedica al coretto a cappella per intonare un Miserere per Lehman Brothers, non si lamenti che i tempi sono duri.
Basta scorrere che pochi hanno dedicato la loro attenzione ai segni di ripresa ed a temi relativamente nuovi per la stampa quotidiana , pur se antichi nella professione, (come l’economia della felicità). Quasi tutti hanno dedicato colonne e colonne all’anniversario del fallimento di Lehman Brothers , trattato come evento epocale (pur se lacrimogeno e lacrimoso) che avrebbe segnato una spartiacque nell’evoluzione mondiale e nella percezione di cosa è auspicabile e cosa è invece deprecabile. Gran parte degli articoli erano, in aggiunta, firmati da giornalisti che non avevano percepito l’avanzarsi della crisi nella prima parte di questo decennio. Tra coloro in lacrime anche un collega con cui ha avuto una garbata polemica nel luglio 2007 poiché alle prime misure della Federal Reserve (dirette a tentare di mettere una toppa) aveva salutato la fine delle difficoltà finanziarie (si era appena all’inizio) ed aveva anche lanciato un peana in favore dei mutui subprime per la loro funzione da lui ritenuta sociale.
Le rassegne stampa del 14 e 15 settembre dovrebbe indurre ad una riflessione. In primo luogo, non si celebrano le ricorrenze dei fallimenti – la stampa estera ha ricordato l’evento con molta sobrietà e poco spazio. In secondo luogo, se la stampa economica, in una fase densa di temi nuovi come l’attuale, si dedica ad acchiappare farfalle (tra un piagnisteo e l’altro), non dobbiamo sorprenderci se lettori (ed inserzionisti) votano con le gambe e le voltano le spalle.
Nel 1952, Keith Murdoch, padre quel Sir Rupert che è uno dei maggiori editori a livello mondiale, scrisse nella propria lettera-testamento al proprio figlio-erede: “Salva la stampa scritta”. Keith la vedeva già assediata dalla televisione ma ne riconosceva la funzione sociale: non solo dare notizie (quello, nel 1952, poteva già farlo la televisione ed ora Internet e tanti altri meccanismi) ma approdarle, evidenziarne la relativa gerarchia. Keith Murdoch non è ricordato nell’ultimo lavoro di Alex Jones, per anni una delle firme di punta del “New Times”, vincitore di un Premio Pulitzer e a lungo alla guida dello Shorenstein Center on the Press, Politics and Public Policy all’Università di Harvard. Nel suo ultimo libro (“Losing the News. The Future of News that Feeds Democracy, Oxford University Press) sottolinea, in 234 pagine dense di teoria del giornalismo e di analisi empiriche, come la stampa scritta ha una sola strada per salvarsi (e contribuire alla democrazia): in-depth reporting (ossia approfondimenti ed inchieste). Se il giornalismo si dedica al coretto a cappella per intonare un Miserere per Lehman Brothers, non si lamenti che i tempi sono duri.
BILANCIO POSITIVO INPS MA LE PENSIONI RESTANO DA RIFORMARE Avvenire 16 settembre
Giuseppe Pennisi
Molti hanno applaudito le stime secondo cui per il terzo anno consecutivo il conto economico (o bilancio d’esercizio) dell’Inps segna un considerevole utile di gestione (circa 6 miliardi di euro). Tale utile può essere considerato come un’indicazione che il “tormentone” previdenziale italiano sta terminando e dobbiamo smetterla di parlare di riforme della previdenza? Senza dubbio, un utile è preferibile ad un disavanzo. Tuttavia, l’Inps copre solamente parte dell’universo previdenziale e riceve un congruo contributo dall’erario a titolo di separazione tra assistenza e previdenza (in molti Paesi Ocse parte delle voci da noi considerate “assistenza” rientrano a pieno titolo nella “previdenza”). Ci sono, poi, determinanti di breve periodo destinante ad esaurire il loro apporto ai conti Inps: a) l’aumento dei contributi di numerose categorie varato nella scorsa legislatura; b) la regolarizzazione di 200.000 extra-comunitari e neo-comunitari; c) l’emersione di 80.000 lavoratori in nero. Un tassello è particolarmente fragile: le regole Ue e i trattati dell’Italia con molti Paesi extra-comunitari prevedono che al rientro in patria i lavoratori portino seco (ai loro enti previdenziali nazionali) i contributi versati da loro e dai loro datori di lavoro. Altro tassello fragile riguarda le entrate: vengono contabilizzati crediti (nei confronti principalmente di imprese renitenti al pagamento dei contributi) per 30 miliardi di euro- arduo ipotizzare che ne venga recuperato più del 30-50% (in tal caso l’attivo di d’esercizio prospettato per il 2009 diventerebbe un passivo). I conti possono sembrare incipriati.
Come si è detto, l’Inps non copre tutta la spesa previdenziale: i conti di altri istituti- Inpdap in particolare – forniscono un quadro non affatto incoraggiante. Il punto cruciale è che sulla base delle nuove stime di crescita dell’economia italiana c’è l’alta probabilità la spesa totale per la previdenza passi dal 14% del pil nel 2008 al 19-20% nel 2018, togliendo risorse ad altri settori importanti (istruzione, ricerca, supporto alla trasformazione produttiva).
Il quadro non è solamente fosco. C’è un tracollo delle richieste di pensionamento d’anzianità ed un graduale prolungamento dell’età in cui si va a riposo. Stanno cambiando in senso virtuoso i comportamenti – un effetto ritardato delle norme del 1993 e del 1997 in materia di indicizzazione (che comportano un’erosione, nel tempo, del valore reale dei trattamenti). Tale cambiamento è molto più importante di conti più o meno imbellettati.
Basta contare su un ulteriore modifica spontanea dei comportamenti nella direzione appropriata? Probabilmente no. Occorre rimettere mano ai coefficienti per trasformare in trattamenti annuali i montanti di contributi accumulati nella vita lavorativa. La soluzione migliore sarebbe prevedere una riduzione maggiore dell’attuale della differenza tra ultimo stipendio e prima pensione ma un aumento significato del’assegno previdenziale dai 75 anni in più – quando maggiore è l’esigenza di assistenza. Ciò inciderebbe davvero sui comportamenti .
Molti hanno applaudito le stime secondo cui per il terzo anno consecutivo il conto economico (o bilancio d’esercizio) dell’Inps segna un considerevole utile di gestione (circa 6 miliardi di euro). Tale utile può essere considerato come un’indicazione che il “tormentone” previdenziale italiano sta terminando e dobbiamo smetterla di parlare di riforme della previdenza? Senza dubbio, un utile è preferibile ad un disavanzo. Tuttavia, l’Inps copre solamente parte dell’universo previdenziale e riceve un congruo contributo dall’erario a titolo di separazione tra assistenza e previdenza (in molti Paesi Ocse parte delle voci da noi considerate “assistenza” rientrano a pieno titolo nella “previdenza”). Ci sono, poi, determinanti di breve periodo destinante ad esaurire il loro apporto ai conti Inps: a) l’aumento dei contributi di numerose categorie varato nella scorsa legislatura; b) la regolarizzazione di 200.000 extra-comunitari e neo-comunitari; c) l’emersione di 80.000 lavoratori in nero. Un tassello è particolarmente fragile: le regole Ue e i trattati dell’Italia con molti Paesi extra-comunitari prevedono che al rientro in patria i lavoratori portino seco (ai loro enti previdenziali nazionali) i contributi versati da loro e dai loro datori di lavoro. Altro tassello fragile riguarda le entrate: vengono contabilizzati crediti (nei confronti principalmente di imprese renitenti al pagamento dei contributi) per 30 miliardi di euro- arduo ipotizzare che ne venga recuperato più del 30-50% (in tal caso l’attivo di d’esercizio prospettato per il 2009 diventerebbe un passivo). I conti possono sembrare incipriati.
Come si è detto, l’Inps non copre tutta la spesa previdenziale: i conti di altri istituti- Inpdap in particolare – forniscono un quadro non affatto incoraggiante. Il punto cruciale è che sulla base delle nuove stime di crescita dell’economia italiana c’è l’alta probabilità la spesa totale per la previdenza passi dal 14% del pil nel 2008 al 19-20% nel 2018, togliendo risorse ad altri settori importanti (istruzione, ricerca, supporto alla trasformazione produttiva).
Il quadro non è solamente fosco. C’è un tracollo delle richieste di pensionamento d’anzianità ed un graduale prolungamento dell’età in cui si va a riposo. Stanno cambiando in senso virtuoso i comportamenti – un effetto ritardato delle norme del 1993 e del 1997 in materia di indicizzazione (che comportano un’erosione, nel tempo, del valore reale dei trattamenti). Tale cambiamento è molto più importante di conti più o meno imbellettati.
Basta contare su un ulteriore modifica spontanea dei comportamenti nella direzione appropriata? Probabilmente no. Occorre rimettere mano ai coefficienti per trasformare in trattamenti annuali i montanti di contributi accumulati nella vita lavorativa. La soluzione migliore sarebbe prevedere una riduzione maggiore dell’attuale della differenza tra ultimo stipendio e prima pensione ma un aumento significato del’assegno previdenziale dai 75 anni in più – quando maggiore è l’esigenza di assistenza. Ciò inciderebbe davvero sui comportamenti .
martedì 15 settembre 2009
KAFKA SUL PALCO Il Foglio 16 settembre
In settembre, si scatena, l’”assalto alla diligenza” sulla finanziaria tanto in Italia quanto in gran parte dei Paesi Ue .Il mondo variopinto dei teatri in musica è quello che forse più di altri alle proteste accompagna i pianti. Sarà il senso del melodramma nel Dna della “musa bizzarra e altera”, così un musicologo tedesco chiamò anni fa la lirica. Sarà la rassegnazione in seguito ai “tagli” del passato. Sarà che, nelle “coulisses” dello stesso Ministero responsabile del Fus (il veicolo per le sovvenzioni ai teatri) albergano (da tre lustri) “residui di cassa” in “contabilità speciali”, limitando l’azione nei confronti di chi ha il cordone della spesa.
Il vostro “chroniqueur” è stato sedotto dalla “musa bizzarra e altera” quando era adolescente. Non si associa al coretto a cappella non solamente perché, come dice il proverbio americano, boys do not cry (“i ragazzi non piangono”) ma poiché è convinto che la “musa” sarà sempre più nei guai se non riduce i propri costi (troppe risorse finiscono in belletti e maschere facciali) e non attira il pubblico giovane. In reve, “la musa bizzarra e altera” deve ricominciare a sedurre i ragazzi nell’età che plasma i gusti. E’ riuscita a farlo in Europa centrale, in Nord America, in Estremo Oriente, nelle Isole britanniche. Perché non prova in Italia dove è nata per iniziativa di giovani (la Camerata Bardi) colti ma anche dediti ai piaceri della buona cucini, dei buoni vini e della carne?
Uno strumento sarebbe fare circolare le produzioni low-cost che da quattro anni, proprio in settembre, mentre vengono intonate le lamentazioni, sono allestite alla Sagra Melatestiana a Rimini. La prima è stata Diario di uno scomparso di Leoš Janàcek, posta in scena come un’opera con una propria integrità, un allestimento tanto più efficace quanto più “povero”. Ha seguito La Bellezza ravveduta nel Tempo nel Disinganno di Georg Händel : chi poteva pensare che un oratorio moralizzante (di tre ore) su libretto del Cardinal Pamphili potesse interessare i giovani di oggi? Era già successo a Zurigo. A Rimini, è stato portato ai giorni nostri : una cena (quattro cantanti, un piccolo complesso strumentale) durante il quale si svolge un delicato gioco di coppie. L’anno scorso è stata la volta di Water Passion di Tan Dun, di cui “Il Foglio” ha trattato: una scarna passione secondo Matteo dove live electronics è integrata da musica di elementi naturali- acqua, pietre. Ora sono è in scena Kafka Fragmente composto da György Kurtàg , uno dei maggiori compositori viventi che alla Biennale di Venezia 2009 riceve il Leon d’Oro alla carriera. E’ un’opera lirica che richiede solo un soprano (Sara Allegretta a Rimini) ed una violinista (Jeanne-Marie Conquer). Dura 50 minuti ed è strutturata in otto “scene” e quattro parti. Kurtág afferma che il luogo adatto per rappresentarla è una qualsiasi strada- “un’opera da strada”. Il regista Denis Krief ha scelto un cantiere aperto nel semi-distrutto complesso degli agostiniani, corredandolo con proiezioni di incisioni di Kubin e di immagini di film dei tempi di Kafka e di Kurtág. Le quattro parti (ciascuna frase viene da lavori giovanili di Kafka) esprimono i timori ed i tremori del giovane di fronte alla “folla cittadina”. E’ immediato il riferimento al romanzo “Amerika”. Non ne è, però, una riduzione. György Kurtàg sfiora Kafka, prelevando poche frasi e riportando tutto ad una drammaturgia che interviene sulle parole, sulle sillabe, sulle vocali. Spettacolo affascinante che attrae giovani ed il cui budget sfiora i 20.000 euro non gli oltre 2 milioni di euro che, pare, è costata la recente messa in scena della rossiniana Zelmira al Rof.
Richiede un teatro di dimensioni contenute. Sarebbe perfetto per la Piccola Scala, se esistesse ancora. Per il Goldoni di Firenze (raramente utilizzato). Per il Teatro Studio del Parco della Musica, per il Palladio, per il Nazionale a Roma. Per il Teatro delle Celebrazioni a Bologna. Per il Politeama a Napoli. Per gli splendidi teatri di Umbria, Marche e Toscana (restaurati di recente a spese dei contribuenti). Cosa fanno le fondazioni e gli enti preposti di fronte a alta qualità a costo basso (e mirata ad un nuovo pubblico)? Se si lamentano, la risposta può solo essere: Boys do not cry
Il vostro “chroniqueur” è stato sedotto dalla “musa bizzarra e altera” quando era adolescente. Non si associa al coretto a cappella non solamente perché, come dice il proverbio americano, boys do not cry (“i ragazzi non piangono”) ma poiché è convinto che la “musa” sarà sempre più nei guai se non riduce i propri costi (troppe risorse finiscono in belletti e maschere facciali) e non attira il pubblico giovane. In reve, “la musa bizzarra e altera” deve ricominciare a sedurre i ragazzi nell’età che plasma i gusti. E’ riuscita a farlo in Europa centrale, in Nord America, in Estremo Oriente, nelle Isole britanniche. Perché non prova in Italia dove è nata per iniziativa di giovani (la Camerata Bardi) colti ma anche dediti ai piaceri della buona cucini, dei buoni vini e della carne?
Uno strumento sarebbe fare circolare le produzioni low-cost che da quattro anni, proprio in settembre, mentre vengono intonate le lamentazioni, sono allestite alla Sagra Melatestiana a Rimini. La prima è stata Diario di uno scomparso di Leoš Janàcek, posta in scena come un’opera con una propria integrità, un allestimento tanto più efficace quanto più “povero”. Ha seguito La Bellezza ravveduta nel Tempo nel Disinganno di Georg Händel : chi poteva pensare che un oratorio moralizzante (di tre ore) su libretto del Cardinal Pamphili potesse interessare i giovani di oggi? Era già successo a Zurigo. A Rimini, è stato portato ai giorni nostri : una cena (quattro cantanti, un piccolo complesso strumentale) durante il quale si svolge un delicato gioco di coppie. L’anno scorso è stata la volta di Water Passion di Tan Dun, di cui “Il Foglio” ha trattato: una scarna passione secondo Matteo dove live electronics è integrata da musica di elementi naturali- acqua, pietre. Ora sono è in scena Kafka Fragmente composto da György Kurtàg , uno dei maggiori compositori viventi che alla Biennale di Venezia 2009 riceve il Leon d’Oro alla carriera. E’ un’opera lirica che richiede solo un soprano (Sara Allegretta a Rimini) ed una violinista (Jeanne-Marie Conquer). Dura 50 minuti ed è strutturata in otto “scene” e quattro parti. Kurtág afferma che il luogo adatto per rappresentarla è una qualsiasi strada- “un’opera da strada”. Il regista Denis Krief ha scelto un cantiere aperto nel semi-distrutto complesso degli agostiniani, corredandolo con proiezioni di incisioni di Kubin e di immagini di film dei tempi di Kafka e di Kurtág. Le quattro parti (ciascuna frase viene da lavori giovanili di Kafka) esprimono i timori ed i tremori del giovane di fronte alla “folla cittadina”. E’ immediato il riferimento al romanzo “Amerika”. Non ne è, però, una riduzione. György Kurtàg sfiora Kafka, prelevando poche frasi e riportando tutto ad una drammaturgia che interviene sulle parole, sulle sillabe, sulle vocali. Spettacolo affascinante che attrae giovani ed il cui budget sfiora i 20.000 euro non gli oltre 2 milioni di euro che, pare, è costata la recente messa in scena della rossiniana Zelmira al Rof.
Richiede un teatro di dimensioni contenute. Sarebbe perfetto per la Piccola Scala, se esistesse ancora. Per il Goldoni di Firenze (raramente utilizzato). Per il Teatro Studio del Parco della Musica, per il Palladio, per il Nazionale a Roma. Per il Teatro delle Celebrazioni a Bologna. Per il Politeama a Napoli. Per gli splendidi teatri di Umbria, Marche e Toscana (restaurati di recente a spese dei contribuenti). Cosa fanno le fondazioni e gli enti preposti di fronte a alta qualità a costo basso (e mirata ad un nuovo pubblico)? Se si lamentano, la risposta può solo essere: Boys do not cry
Return to the Origins — Chamber Opera in Crisis Times in Opera Today 15 settembre
15 Sep 2009
Return to the Origins — Chamber Opera in Crisis Times
Chamber opera is coming back after a period when it appeared to be confined to experimental works.
Matteo D’Amico: Le Malentendu; György Kurtág: Kafka Fragmente
Le Malentendu: E. Zilio, S. Solovij, M. Millhofer, D. Radrìguez, M. Iacomelli. Quartetti Bernini (M.Serino, Y. Ichichara, G. Saggini, V. Taddeo), M. Ceccarelli, M. Patarini, musical direction Guillaume Tournaire, stage direction Saverio Marconi, stage sets Gabriele Moreschi. Macerata, Teatro Italia.
Kafka Fragmente: S. Allegretta, J-M. Conquer. Stage direction, set, costumes and lighting Dennis Krief.
Above: From Kafke Fragmente
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It is a return to the origins of Opera, because, at the end of the sixteenth and beginning of the seventeenth centuries, Opera started out as a private musical entertainment, to be performed in the large hall of a Palace for the enjoyment of a limited number of friends and guests. Thus, it was chamber opera in the most literal sense.
There are several determinants at the roots of the return. Firstly, chamber opera requires a light budget with few soloists, an instrumental ensemble and simple sets and costumes; also, the production is generally suitable for touring and the costs can be shared. Secondly, it attracts a new and younger audience, partly because it charges lower ticket prices that a regular opera performance. Thirdly, and perhaps more significantly, chamber opera fits crisis times. In his Minima Moralia, Theodor A. Adorno considers Stravinsky’s chamber opera A Soldier’s Tale as one of the best expressions of World War I: the chamber group battered by shocks whose dreamlike compulsiveness simultaneously expresses real and symbolic destruction. This explains also Benjamin Britten’s emphasis on chamber opera in the years immediately after World War II.
An interesting feature of the return of chamber opera is the tendency to be addressed to an international audience. This is a new dimension: even Britten’s chamber operas were thought of primarily for an Anglo-Saxon public (although one of his masterpieces was premièred at La Fenice Opera House in Venice). In the last few weeks, two “international” chamber operas have had their première in Italy with plans of extensive European tours: Le Malentendu by Matteo D’Amico and Kafka Fragmente by György Kurtág . Neither of the two operas is in Italian; the former is in French, the latter in German. Both have been entrusted to an international cast.
The two composers are very different in age – D’Amico is in early 50s, Kurtág (in his 80s) just received the “Golden Lion” for his career at the Venice 2009 Biennale of Contemporary Music. D’Amico and Kurtág belong to different schools; in D’Amico’s work the listener feels the flavour and the colour of Henze. and those of Boulez in Kurtág’s. Both operas can be performed in a regular theatre of comparatively small dimensions (an audience of 400-600) but they are much more effective in an unusual space. For Le Malentendu a small center stage arena was chosen; for Kafka Fragmente the half destroyed main hall of a Convent bombed during World War II and never reconstructed.
Le Malentendu was premiered in Macerata. Its text is after Camus’ play, shortened so that the performance has a total 90 minutes’ duration without intermission. The four singers come from different European countries: the mother (Elena Zilio) is Italian, the daughter Martha (Sofia Solovij) Ukrainian, the son Jean (Mark Milhofer) British, his wife Maria (Davinia Rodrìguez) from Las Palmas. There is also a fifth character, the servant (Marco Iacomelli) - silent throughout the performance until his final explosion (a very loud “No!”). The orchestra, conducted by the French Guillaume Tournaire, is made up of five strings, a clarinet/bass clarinet, and an accordion.
The plot is simple: after many years, Jean goes back to his family and rents a room in the small B & B which his mother and his sisters operate. He does not unveil himself as he wishes to be recognized by his family; he gives his passport to the servant who keeps the information strictly to himself. As a result of this malentendu (misunderstanding), he is killed by the two women, who intend to steal his money. When the servant finally shows them Jan’s document, they are in despair. In tears, his wife asks God if there is a meaning to all this. The until-then-silent servant explodes with a loud “No!”
A scene from Le Malentendu
Camus wrote Le Malentendu in 1941, when France was under occupation. The play is pervaded with symbolism, expressionism and existentialism. It is theater of the absurd, or of the absurdity of life. It mirrors a deep crisis in Europe. To enhance full understanding of the text, singing is harsh declamation sliding into melodic intervals, a couple of arioso and duets. The orchestration is rich; the accordion is the link between the strings and clarinet/bass clarinet, and conveys anguish and loneliness in the voyage to nowhere by the protagonists. Singing and acting is of high quality, and because nearly all the four singers have perfect French diction – a rarity in opera performances in Italy. The only exception is Sofia Solovij: she excels dramatically but her French is barely understandable. A special mention to Elena Zilio, for the difficult role she takes at her not quite so young age.
Kafka Fragmente was also premiered in a comparatively small town, Rimini. Kurtág composed it nearly 20 years ago .Until last year it had only concert performances, although its author considers it “a street opera” – viz, a real opera (not a lieder cycle) to be “staged” in the street, in a tramway, in the midst of the crowd of a city. It lasts 50 minutes. It is made up of four scenes (without intermission) and requires only two interpreters: a soprano and a violinist –both young and attractive. Last year, a staged version toured France and part of Germany; it was conceived for regular theatres with a proper stage, stalls and balconies or boxes. It did not really fit Kurtág’s design of a “street opera”. This new production places the stage in a high Plexiglas and wood structure at the centre of the dilapidated hall: it shows the small apartment of a youngster at the beginning of the twentieth Century. The public sits on both sides of this unusual stage – perfect for any comparatively large hall. On the Plexiglas walls, footage of old movies is projected, to provide the colour of the four scenes. The footage is skilfully mixed in order not to allow the audience to identify the individual films.
The staging is international. Denis Krief , the mastermind (stage director and also responsible for costumes and lighting) was born in Tunisia, is a resident of Rome and has in his veins Jewish, Arab, French, Italian and Austro-Hungarian blood. The soprano is the Italian Sara Allegretta, the violinist the French Jeanne Marie Conquer.
Based on fragments of Kafka’s diary as well as of his first novel (Amerika), the four scenes have a development: the growing up to age of a fragile young person. The musical tension is between the voice and the instrument, heightened by the fact that the soprano and the violinist cannot see one another. Kurtág’ s vocal and instrumental writing is elegant - there is no minimalism at all in the intense 50 minutes, even though there are only two interpreters. They both have virtuoso roles. Sara Allegretta is a soprano assoluto with the full gamut of lyric, dramatic and even coloratura nuances; personally, in certain moments, I would have liked also a Wagnerian pitch. Jeanne Marie Conquer was simply exquisite.
Giuseppe Pennisi
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Return to the Origins — Chamber Opera in Crisis Times
Chamber opera is coming back after a period when it appeared to be confined to experimental works.
Matteo D’Amico: Le Malentendu; György Kurtág: Kafka Fragmente
Le Malentendu: E. Zilio, S. Solovij, M. Millhofer, D. Radrìguez, M. Iacomelli. Quartetti Bernini (M.Serino, Y. Ichichara, G. Saggini, V. Taddeo), M. Ceccarelli, M. Patarini, musical direction Guillaume Tournaire, stage direction Saverio Marconi, stage sets Gabriele Moreschi. Macerata, Teatro Italia.
Kafka Fragmente: S. Allegretta, J-M. Conquer. Stage direction, set, costumes and lighting Dennis Krief.
Above: From Kafke Fragmente
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It is a return to the origins of Opera, because, at the end of the sixteenth and beginning of the seventeenth centuries, Opera started out as a private musical entertainment, to be performed in the large hall of a Palace for the enjoyment of a limited number of friends and guests. Thus, it was chamber opera in the most literal sense.
There are several determinants at the roots of the return. Firstly, chamber opera requires a light budget with few soloists, an instrumental ensemble and simple sets and costumes; also, the production is generally suitable for touring and the costs can be shared. Secondly, it attracts a new and younger audience, partly because it charges lower ticket prices that a regular opera performance. Thirdly, and perhaps more significantly, chamber opera fits crisis times. In his Minima Moralia, Theodor A. Adorno considers Stravinsky’s chamber opera A Soldier’s Tale as one of the best expressions of World War I: the chamber group battered by shocks whose dreamlike compulsiveness simultaneously expresses real and symbolic destruction. This explains also Benjamin Britten’s emphasis on chamber opera in the years immediately after World War II.
An interesting feature of the return of chamber opera is the tendency to be addressed to an international audience. This is a new dimension: even Britten’s chamber operas were thought of primarily for an Anglo-Saxon public (although one of his masterpieces was premièred at La Fenice Opera House in Venice). In the last few weeks, two “international” chamber operas have had their première in Italy with plans of extensive European tours: Le Malentendu by Matteo D’Amico and Kafka Fragmente by György Kurtág . Neither of the two operas is in Italian; the former is in French, the latter in German. Both have been entrusted to an international cast.
The two composers are very different in age – D’Amico is in early 50s, Kurtág (in his 80s) just received the “Golden Lion” for his career at the Venice 2009 Biennale of Contemporary Music. D’Amico and Kurtág belong to different schools; in D’Amico’s work the listener feels the flavour and the colour of Henze. and those of Boulez in Kurtág’s. Both operas can be performed in a regular theatre of comparatively small dimensions (an audience of 400-600) but they are much more effective in an unusual space. For Le Malentendu a small center stage arena was chosen; for Kafka Fragmente the half destroyed main hall of a Convent bombed during World War II and never reconstructed.
Le Malentendu was premiered in Macerata. Its text is after Camus’ play, shortened so that the performance has a total 90 minutes’ duration without intermission. The four singers come from different European countries: the mother (Elena Zilio) is Italian, the daughter Martha (Sofia Solovij) Ukrainian, the son Jean (Mark Milhofer) British, his wife Maria (Davinia Rodrìguez) from Las Palmas. There is also a fifth character, the servant (Marco Iacomelli) - silent throughout the performance until his final explosion (a very loud “No!”). The orchestra, conducted by the French Guillaume Tournaire, is made up of five strings, a clarinet/bass clarinet, and an accordion.
The plot is simple: after many years, Jean goes back to his family and rents a room in the small B & B which his mother and his sisters operate. He does not unveil himself as he wishes to be recognized by his family; he gives his passport to the servant who keeps the information strictly to himself. As a result of this malentendu (misunderstanding), he is killed by the two women, who intend to steal his money. When the servant finally shows them Jan’s document, they are in despair. In tears, his wife asks God if there is a meaning to all this. The until-then-silent servant explodes with a loud “No!”
A scene from Le Malentendu
Camus wrote Le Malentendu in 1941, when France was under occupation. The play is pervaded with symbolism, expressionism and existentialism. It is theater of the absurd, or of the absurdity of life. It mirrors a deep crisis in Europe. To enhance full understanding of the text, singing is harsh declamation sliding into melodic intervals, a couple of arioso and duets. The orchestration is rich; the accordion is the link between the strings and clarinet/bass clarinet, and conveys anguish and loneliness in the voyage to nowhere by the protagonists. Singing and acting is of high quality, and because nearly all the four singers have perfect French diction – a rarity in opera performances in Italy. The only exception is Sofia Solovij: she excels dramatically but her French is barely understandable. A special mention to Elena Zilio, for the difficult role she takes at her not quite so young age.
Kafka Fragmente was also premiered in a comparatively small town, Rimini. Kurtág composed it nearly 20 years ago .Until last year it had only concert performances, although its author considers it “a street opera” – viz, a real opera (not a lieder cycle) to be “staged” in the street, in a tramway, in the midst of the crowd of a city. It lasts 50 minutes. It is made up of four scenes (without intermission) and requires only two interpreters: a soprano and a violinist –both young and attractive. Last year, a staged version toured France and part of Germany; it was conceived for regular theatres with a proper stage, stalls and balconies or boxes. It did not really fit Kurtág’s design of a “street opera”. This new production places the stage in a high Plexiglas and wood structure at the centre of the dilapidated hall: it shows the small apartment of a youngster at the beginning of the twentieth Century. The public sits on both sides of this unusual stage – perfect for any comparatively large hall. On the Plexiglas walls, footage of old movies is projected, to provide the colour of the four scenes. The footage is skilfully mixed in order not to allow the audience to identify the individual films.
The staging is international. Denis Krief , the mastermind (stage director and also responsible for costumes and lighting) was born in Tunisia, is a resident of Rome and has in his veins Jewish, Arab, French, Italian and Austro-Hungarian blood. The soprano is the Italian Sara Allegretta, the violinist the French Jeanne Marie Conquer.
Based on fragments of Kafka’s diary as well as of his first novel (Amerika), the four scenes have a development: the growing up to age of a fragile young person. The musical tension is between the voice and the instrument, heightened by the fact that the soprano and the violinist cannot see one another. Kurtág’ s vocal and instrumental writing is elegant - there is no minimalism at all in the intense 50 minutes, even though there are only two interpreters. They both have virtuoso roles. Sara Allegretta is a soprano assoluto with the full gamut of lyric, dramatic and even coloratura nuances; personally, in certain moments, I would have liked also a Wagnerian pitch. Jeanne Marie Conquer was simply exquisite.
Giuseppe Pennisi
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lunedì 14 settembre 2009
TRECENTO CANDELINE PER FESTEGGIARE PERGOLES Milano Finanza 12 settembre
Pergolesi nacque a Jesi il 10 gennaio 2010. Tanto la sua città natale quanto a Pozzuoli (dove è morto a 26 anni) è stato ha predisposto un programma da fare invidia quello allestito da Salisburgo per Mozart. Iniziato in giugno con un concerto inaugurale diretto da Claudio Abbado a Jesi, fino a tutto il 2010, sia Jesi sia a Pozzuoli, vengono messe in scena tutte e 10 le sue opere e il resto della sua musica. La ricorrenza viene celebrata anche in Francia, dove il Festival di Radio France ha spesso coprodotto allestimenti con la Fondazione Pergolesi, perché nel 1752 la rappresentazione a Parigi de “La Serva Padrona” – intermezzo dell’”opera seria” “Il Prigionier Superbo”- scatenò la “querelle des bouffons” tra sostenitori dell’”opéra ballet” barocca ed lirismo italiano. La “querelle” fu fondamentale nell’evoluzione dell’illuminismo e segnò la strada che avrebbe preso il teatro in musica.
Il boccone più prelibato del festival in corso è il “Prigionier Superbo”. Si fa ricorso ad una produzione internazionale con regia di Henning Brockhaus e direzione musicale di Corrado Rovaris ed una rosa d’interpreti specializzati. Anche al fine di tenere lo spettacolo entro una durata di meno di tre ore, non è incluso l’intermezzo “La Serva Padrona” . Interessante la regia: il mondo del barocco viene contrapposto a quello contemporaneo, facendo riferimento al teatro giapponese delle marionette Bunraku. Pupazzi inanimati vestiti con sfarzosi abiti barocchi prendono vita quando si stabilisce la connessione con i cantanti, loro alter ego contemporanei.
Il boccone più prelibato del festival in corso è il “Prigionier Superbo”. Si fa ricorso ad una produzione internazionale con regia di Henning Brockhaus e direzione musicale di Corrado Rovaris ed una rosa d’interpreti specializzati. Anche al fine di tenere lo spettacolo entro una durata di meno di tre ore, non è incluso l’intermezzo “La Serva Padrona” . Interessante la regia: il mondo del barocco viene contrapposto a quello contemporaneo, facendo riferimento al teatro giapponese delle marionette Bunraku. Pupazzi inanimati vestiti con sfarzosi abiti barocchi prendono vita quando si stabilisce la connessione con i cantanti, loro alter ego contemporanei.
A Guide To The Music Of The 21st Century Milano Finanza 12 settembre
Non fatevi confondere dal titolo e dalla copertina . Non è una nuova aggiornata edizione di “The Young Person’s Guide to Orchestra” oppure un’antologia delle nuove tendenze post-dodecafoniche quali minimalismo, elettroacustica e neo-romanticismo. E’, invece, una piacevole fusione di vari aspetti di quella che negli anni 70 si sarebbe chiamata musica “easy listening” utilizzando strumentazione sia antica sia moderna e con una buona dose di virtuosismo. Scavando ci si accorge che è una mini-opera rock : un gruppo di hippie scatena un virus in modo da potere restare soli a contemplare, nella loro isola, il loro universo; nel far ciò fondono le tendenze prevalenti di questi ultimi anni.
Perfect Vacuum
A Guide To The Music Of The 21st Century
Acidsoxx Musicks, Sante Fe, NM, 2009
CD $9.98
website del distributore: http://www.acidsoxx.com.
Perfect Vacuum
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Acidsoxx Musicks, Sante Fe, NM, 2009
CD $9.98
website del distributore: http://www.acidsoxx.com.
Parisina Milano Finanza 12 settembre
Parisina
Pietro Mascagni. Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma- Direzione Musicale Gianandrea Gavazzeni
Perché dedicare alcune ore di un calda estate all’ascolto di questa “Parisina” edita sulla base dei nastri di un’edizione romana del lontano dicembre 1978? In primo luogo, ricorrono dieci anni dalla scomparsa di Gavazzeni, uno dei maggiori musicisti europei del Novecento; è opera a cui Gavazzeni era (giustamente) particolarmente affezionato ma, da 30 anni, scomparsa dai palcoscenici italiani. In secondo luogo, il libretto è di Gabriele D’Annunzio ed il lavoro rappresenta l’apice a cui giunse, ai tempi della prima guerra mondiale, il decadentismo italiano. In terzo luogo, il decadentismo è tornato a piacere , soprattutto ai più giovani: anche per questa ragione il prossimo Maggio Musicale Fiorentino viene inaugurato con “La Donna Senz’Ombra”, contemporanea di “Parisina” con cui ha molte assonanze di scrittura vocale e strumentale.
Parisina
Pietro Mascagni – Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma- Direzione Musicale Gianandrea Gavazzeni. Solisti principali: Hazan, Venditelli, Protti, Furlanetto
Bongiovanni Editore € 31
Pietro Mascagni. Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma- Direzione Musicale Gianandrea Gavazzeni
Perché dedicare alcune ore di un calda estate all’ascolto di questa “Parisina” edita sulla base dei nastri di un’edizione romana del lontano dicembre 1978? In primo luogo, ricorrono dieci anni dalla scomparsa di Gavazzeni, uno dei maggiori musicisti europei del Novecento; è opera a cui Gavazzeni era (giustamente) particolarmente affezionato ma, da 30 anni, scomparsa dai palcoscenici italiani. In secondo luogo, il libretto è di Gabriele D’Annunzio ed il lavoro rappresenta l’apice a cui giunse, ai tempi della prima guerra mondiale, il decadentismo italiano. In terzo luogo, il decadentismo è tornato a piacere , soprattutto ai più giovani: anche per questa ragione il prossimo Maggio Musicale Fiorentino viene inaugurato con “La Donna Senz’Ombra”, contemporanea di “Parisina” con cui ha molte assonanze di scrittura vocale e strumentale.
Parisina
Pietro Mascagni – Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma- Direzione Musicale Gianandrea Gavazzeni. Solisti principali: Hazan, Venditelli, Protti, Furlanetto
Bongiovanni Editore € 31
FINALMENTE, TUTTO PERGOLESI (E 300) Il Domenicale 12 settembre
La piccola Jesi si propone come la Salisburgo italiana del 2010. E, per essere certa di partite con il piede giusto, inizia le attività in questi giorni. Nel 2006 in occasione dei 150 dalla nascita di Mozart, nella sua città natale vennero rappresentati tutti e 22 i suoi lavori per il teatro in musica. Gian Battista Draghi (o Drago) detto Pergolesi in quanto discendente da una famiglia di Pergola, nacque a Jesi il 10 gennaio 2010 e la città natale ha predisposto un programma per mettere in scena tutte e 10 le sue opere ed anche tutto il resto della sua musica (soprattutto sacra, come il notissimo “Stabat Mater”. Pergolesi visse solo 26 anni (Mozart arrivò a 35). Sino a quando una diecina di anni fa, la Fondazione Pergolesi- Spontini , con un forte sostegno locale, non ha creato un festival annuale, venivano rappresentati unicamente “La Serva Padrona” (nata come in intermezzo in due parti per l’opera seria “Il Prigionier Superbo”), la commedia in musica “Il Flaminio” e grazie principalmente a Riccardo Muti (appassionato del lavoro), l’opera buffa “Lu’ Frate Innamoratu”. Non si conosceva, quasi, il grande contributo dato, nell’arco di pochi anni, all’opera seria.
Le celebrazioni hanno avuto un’anteprima il 5 giugno con un concerto diretto da Claudio Abbado alla guida dell’Orchestra Mozart . Il programma vero e proprio è cominciato l’11 settembre con la prima rappresentazione in tempi moderni de “Il Prigionier Superbo” (regia di Henning Brockhaus, Corrado Rovaris alla guida dell’Accademia Barocca). Entro l’autunno del 2010 verranno rappresentate tutte le opere del compositore non solo a Jesi ma anche a Pozzuoli (dove morì ), spesso in coproduzione con altri teatri italiani e stranieri che le metteranno in scena tra il 2010 ed il 2011 In. È un evento importante su cui si sono accesi i riflettori internazionali.
Come abbiamo visto in maggiore dettaglio sul “Domenicale” del 30 agosto 2008, grandissimo è stato l’impatto di Pergolesi sullo sviluppo del teatro in musica, in poco più di cinque lustri di vita e soltanto sette anni di professione. Formatosi a Napoli, al “Conservatorio dei poveri di Gesù Cristo”, iniziò con lavori a carattere religioso: “La fenice sul rogo, ovvero la morte di San Giuseppe, oratorio in 2 parti”, “Li prodigi della Divina Grazia nella conversione di San Guglielmo Duca d'Aquitania”, la “Messa in Re maggiore”. “Salustia”, messa in scena nel 2008 a Montpellier ed a Jesi, ed “Il Prigionier Superbo” (mai rappresentato sino all’11 settembre 2009) mostrano come Pergolesi avesse assimilato e reso trasparente il linguaggio dei musicisti allora all’avanguardia (Leo, Hasse, Vinci). In “Adriano in Siria”, Pergolesi affrontò tutte la opportunità che il “sistema melodrammatico” potesse offrire. Ne “L’Olimpiade” fece una scelta stilistica intimista. Accanto a questo percorso nel teatro serio, ne svolse uno parallelo nella musica sacra (“Salve Regina”, “Stabat Mater”) e soprattutto nella commedia in musica (“Lo’ Frate Innamoratu”, “La Serva Padrona”, “Livietta e Tracollo”, “Il Flaminio”). In tutte queste composizioni, anche le più religiose o le più esilaranti, pone al centro “il palpito dell’anima”, come ha scritto il compianto musicologo Francesco Degrada.
Fu questo “palpito dell’anima”, ancor più della rappresentazione a Parigi nel 1752 de “La Serva Padrona” a scatenare “la querelle des bouffons”, polemica durissima fra tradizione francese e musica italiana che segnò un punto di svolta non solo nella storia della musica ma nell’evoluzione dell’illuminismo
Le celebrazioni hanno avuto un’anteprima il 5 giugno con un concerto diretto da Claudio Abbado alla guida dell’Orchestra Mozart . Il programma vero e proprio è cominciato l’11 settembre con la prima rappresentazione in tempi moderni de “Il Prigionier Superbo” (regia di Henning Brockhaus, Corrado Rovaris alla guida dell’Accademia Barocca). Entro l’autunno del 2010 verranno rappresentate tutte le opere del compositore non solo a Jesi ma anche a Pozzuoli (dove morì ), spesso in coproduzione con altri teatri italiani e stranieri che le metteranno in scena tra il 2010 ed il 2011 In. È un evento importante su cui si sono accesi i riflettori internazionali.
Come abbiamo visto in maggiore dettaglio sul “Domenicale” del 30 agosto 2008, grandissimo è stato l’impatto di Pergolesi sullo sviluppo del teatro in musica, in poco più di cinque lustri di vita e soltanto sette anni di professione. Formatosi a Napoli, al “Conservatorio dei poveri di Gesù Cristo”, iniziò con lavori a carattere religioso: “La fenice sul rogo, ovvero la morte di San Giuseppe, oratorio in 2 parti”, “Li prodigi della Divina Grazia nella conversione di San Guglielmo Duca d'Aquitania”, la “Messa in Re maggiore”. “Salustia”, messa in scena nel 2008 a Montpellier ed a Jesi, ed “Il Prigionier Superbo” (mai rappresentato sino all’11 settembre 2009) mostrano come Pergolesi avesse assimilato e reso trasparente il linguaggio dei musicisti allora all’avanguardia (Leo, Hasse, Vinci). In “Adriano in Siria”, Pergolesi affrontò tutte la opportunità che il “sistema melodrammatico” potesse offrire. Ne “L’Olimpiade” fece una scelta stilistica intimista. Accanto a questo percorso nel teatro serio, ne svolse uno parallelo nella musica sacra (“Salve Regina”, “Stabat Mater”) e soprattutto nella commedia in musica (“Lo’ Frate Innamoratu”, “La Serva Padrona”, “Livietta e Tracollo”, “Il Flaminio”). In tutte queste composizioni, anche le più religiose o le più esilaranti, pone al centro “il palpito dell’anima”, come ha scritto il compianto musicologo Francesco Degrada.
Fu questo “palpito dell’anima”, ancor più della rappresentazione a Parigi nel 1752 de “La Serva Padrona” a scatenare “la querelle des bouffons”, polemica durissima fra tradizione francese e musica italiana che segnò un punto di svolta non solo nella storia della musica ma nell’evoluzione dell’illuminismo
CLT - Festival Pergolesi Spontini / Se il regista butta la chiave…Il Velino 14 settembre
Roma, 14 set (Velino) - “Il prigionier superbo” di Giovanni Battista Pergolesi, messo in scena al Festival di Jesi per la seconda volta in tempi moderni (circa tre lustri fa sempre nella città marchigiana ci fu un’esecuzione diretta da Marcello Panni e registrata dalla casa discografica Bongiovanni), è una di quelle opere che dovrebbero interessare unicamente gli storici della musica. Non è dato sapere se dopo le due rappresentazioni jesine ci saranno ulteriori riprese. Si era parlato di Treviso e anche di Montpellier, ma per una serie di ragioni la sola data certa è il ritorno a Jesi tra circa un anno, in occasione delle celebrazioni del terzo centenario della nascita di Pergolesi, uno dei genius loci della gradevole città. Da quanto visto al Festival, un evento interessante, pieno di buona musica, composto nel 1733 da un Pergolesi ventiquattrenne, che sarebbe morto due anni dopo, è stato praticamente distrutto da una regia macchinosa che ha reso lo spettacolo incomprensibile. Spiace per Henning Brockhaus che ci ha regalato memorabili spettacoli (“Traviata”, “Elektra”, “El Cimarron”, “Emperor Jones”, “Lucia di Lammermoor”,”Madama Butterfly”, per citarne solo alcuni), ma che questa volta ha toppato. In un’opera in cui si tratta di prigioni e prigionieri – lo dice il titolo stesso-, ha chiuso la porta del carcere e buttato la chiave più importante: quella di rendere comprensibile la vicenda al pubblico che, come diceva Flaiano, ha reagito con le gambe (al terzo atto molto file e diversi palchi erano vuoti) o dormendo.
A giustificazione del regista occorre dire che il libretto è farraginoso e privo di vera efficacia drammatica: una complessa vicenda (con lieto fine), di re spodestati e incatenati, matrimoni combinati, tradimenti e via discorrendo. Brockhaus ha pensato di risolverla facendo ricorso al Teatro Bunraku delle marionette. In effetti, l’azione è rappresentata dalla meravigliose marionette del “Teatro Pirata”. Mentre, però, nel Bunraku, gli attori/cantanti sono in tute nere, invisibili (si sente solo la voce), nell’edizione jesina del “Prigionier superbo” si svolge un’azione parallela con cantanti in abiti moderni e mimi. A rendere il tutto ancora più incomprensibile, dato che ai tempi di Pergolesi molti ruoli maschili venivano affidati a castrati (prassi che, grazie al Cielo, non si usa più), mentre oggi sono assegnati a soprano o mezzo soprano, le cantanti che impersonano giovani e focosi principi indossano abiti lunghi e decolté invece che pantaloni. Difficile capire, per quasi tutto lo spettacolo, chi impersoni un uomo e chi una donna, ingenerando caos e inducendo parte del pubblico a girare la manovella per lasciare il teatro o addormentarsi sulle note di Pergolesi. Non mancano momenti efficaci, ad esempio l’inizio del terzo atto. Il cast internazionale è magistrale. L’orchestra è di valore. La concertazione buona e trasparente. Ma una volta buttata la chiave della comprensione lo spettacolo non regge.
Sarebbe stato molto più semplice se ci si fosse chiesto, con grande umiltà, perché i napoletani andarono ad ascoltare e vedere la messa in musica di una vicenda così complicata, in una Norvegia del tutto improbabile. Nel 1733, data del debutto al Teatro San Bartolomeo, l’intreccio aveva un forte significato politico e sociale: era una metafora delle tensioni in corso in Europa e nella Napoli governata dai Borboni d’Austria. Tensioni che alcuni anni dopo sarebbero sfociate nella guerra di successione austriaca, nell’ascesa di Maria Teresa al trono e nella perdita della corona imperiale che da Vienna sarebbe passata a Monaco di Baviera. A leggere con cura il libretto, c’è tutto: dai riferimenti alla legge salica e alla sua abolizione, a quelli alla guerra di successione polacca e via discorrendo.
Le alternative registiche erano essenzialmente due: mostrare l’opera come percepita dai napoletani (quindi, impianto settecentesco, riferimento alle guerre di successione – semmai con un gioco di carte geografiche- , enfasi sull’abile soluzione dinastica finale – il re non più prigioniero ma custode del trono per la figlia, elemento di forte carica innovativa); oppure attualizzare il tutto alla politica italiana odierna come fece, ad esempio, Gregoretti nel 1994 con “L’elisir d’amore” di Donizetti: Prodi avrebbe potuto essere il re deposto, Veltroni e Franceschini a contendersene le spoglie, ecc... Nel primo caso, si sarebbe dovuta prendere la metafora sul serio. Nel secondo, utilizzare un bel po’ d’ironia. Un vero peccato. Nonostante una esecuzione musicale ineccepibile – ottima Marina Comparato –, i veggenti dicono che “Il prigionier superbo” rischia l’oblio per altri 300 anni o giù di lì.
(Hans Sachs) 14 set 2009 10:28
A giustificazione del regista occorre dire che il libretto è farraginoso e privo di vera efficacia drammatica: una complessa vicenda (con lieto fine), di re spodestati e incatenati, matrimoni combinati, tradimenti e via discorrendo. Brockhaus ha pensato di risolverla facendo ricorso al Teatro Bunraku delle marionette. In effetti, l’azione è rappresentata dalla meravigliose marionette del “Teatro Pirata”. Mentre, però, nel Bunraku, gli attori/cantanti sono in tute nere, invisibili (si sente solo la voce), nell’edizione jesina del “Prigionier superbo” si svolge un’azione parallela con cantanti in abiti moderni e mimi. A rendere il tutto ancora più incomprensibile, dato che ai tempi di Pergolesi molti ruoli maschili venivano affidati a castrati (prassi che, grazie al Cielo, non si usa più), mentre oggi sono assegnati a soprano o mezzo soprano, le cantanti che impersonano giovani e focosi principi indossano abiti lunghi e decolté invece che pantaloni. Difficile capire, per quasi tutto lo spettacolo, chi impersoni un uomo e chi una donna, ingenerando caos e inducendo parte del pubblico a girare la manovella per lasciare il teatro o addormentarsi sulle note di Pergolesi. Non mancano momenti efficaci, ad esempio l’inizio del terzo atto. Il cast internazionale è magistrale. L’orchestra è di valore. La concertazione buona e trasparente. Ma una volta buttata la chiave della comprensione lo spettacolo non regge.
Sarebbe stato molto più semplice se ci si fosse chiesto, con grande umiltà, perché i napoletani andarono ad ascoltare e vedere la messa in musica di una vicenda così complicata, in una Norvegia del tutto improbabile. Nel 1733, data del debutto al Teatro San Bartolomeo, l’intreccio aveva un forte significato politico e sociale: era una metafora delle tensioni in corso in Europa e nella Napoli governata dai Borboni d’Austria. Tensioni che alcuni anni dopo sarebbero sfociate nella guerra di successione austriaca, nell’ascesa di Maria Teresa al trono e nella perdita della corona imperiale che da Vienna sarebbe passata a Monaco di Baviera. A leggere con cura il libretto, c’è tutto: dai riferimenti alla legge salica e alla sua abolizione, a quelli alla guerra di successione polacca e via discorrendo.
Le alternative registiche erano essenzialmente due: mostrare l’opera come percepita dai napoletani (quindi, impianto settecentesco, riferimento alle guerre di successione – semmai con un gioco di carte geografiche- , enfasi sull’abile soluzione dinastica finale – il re non più prigioniero ma custode del trono per la figlia, elemento di forte carica innovativa); oppure attualizzare il tutto alla politica italiana odierna come fece, ad esempio, Gregoretti nel 1994 con “L’elisir d’amore” di Donizetti: Prodi avrebbe potuto essere il re deposto, Veltroni e Franceschini a contendersene le spoglie, ecc... Nel primo caso, si sarebbe dovuta prendere la metafora sul serio. Nel secondo, utilizzare un bel po’ d’ironia. Un vero peccato. Nonostante una esecuzione musicale ineccepibile – ottima Marina Comparato –, i veggenti dicono che “Il prigionier superbo” rischia l’oblio per altri 300 anni o giù di lì.
(Hans Sachs) 14 set 2009 10:28
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