venerdì 17 luglio 2009

WAGNER E IL RING DEL SECOLO XXI

Nel 2013, viene celebrato il secondo centenario dalla nascita di Verdi e di Wagner. Di quello verdiano – per cui il Regio di Parma sta predisponendo un’edizione integrale in DvD- ci occuperemo in autunno quando in Emilia sarà in corso il festival dedicato al cigno di Busseto. Di quello wagneriano , è bene, invece, cominciare ad interessarsi da adesso. Pulluleranno i progetti di nuove edizioni del Ring, la saga di quattro opere con oltre 30 solisti ed un organico orchestrale smisurato, a cui l’autore ha lavorato per circa 40 anni, è riuscito a far edificare un teatro apposito dove si sarebbe dovuta rappresentare un’unica volta (distruggendo, successivamente, la stessa struttura fisica per cui era stata creata). Dopo tre decenni, il Metropolitan mette in pensione un’edizione ormai storica approntata negli Anni ‘70 e rinverdita negli anni 90 (è cambiata la regia, non le straordinarie scene di Gunther Scheider-Siemssen). La Scala ha annunciato un nuovo Ring. Altri teatri, in tutto il mondo (anche a Manaus nel centro della foresta dell’Amazzonia) hanno in cantiere nuovi Ring.

Produrre il “Ring” è un’intrapresa terrificante: pare che la messa in scena della saga abbia portato negli Anni ‘90 al dissesto il Teatro “Massimo Bellini” di Catania e negli Anni ‘80 a quella del “Regio” di Torino. Tentativi, o meglio conati, di una rappresentazione scenica a Roma sono stati tentati più volte dal 1961, senza mai avere un esito : ne sono state date due edizioni in forma di concerto. L’impresa è una di quelle di fronte alla quale sovrintendenti e direttori artistici non restano insensibili: ad esempio, si sono cimentati di recente, per la prima volta con il “Ring” il “São Carlos” di Lisbona e il Mariinsky di San Pietroburgo, a Seattle è stato costruito un teatro apposito dove da 30 anni ogni estate il ciclo delle quattro opere viene rappresentato, all’English National Opera lo si canta in inglese arcaico per dare al pubblico britannico fremiti analoghi a quelli che ha il pubblico tedesco.

Questa estate terminano tre “Ring” di rilievo artistico prodotti negli ultimi anni rispettivamente il primo dal Maggio Musicale Fiorentino e dal Palau de la Reina Sofia di Valencia, il secondo dal Teatro La Fenice di Venezia e dal Teatro dell’Opera di Colonia e il terzo dai Festival di Aix-en-Provence e di Salisburgo. Sono le prime edizioni di spessore prodotte questo secolo. Forniscono indicazioni importanti per il futuro.

Iniziaziamo dal “Ring” di Venezia e Colonia. Il regista canadese Robert Carsen (le scene e i costumi sono di Patrick Kinmonth) opta per un’interpretazione storico-politica, analoga per molti aspetti a quelle che si sono viste in Germania, Gran Bretagna, negli Usa e anche in Italia negli Anni ‘70 e ’80. L’Italia può rivendicare la primogenitura. La Scala iniziò, nel 1974, un “Ring” ambientato nell’epoca della prima industrializzazione (scene e costumi Pierluigi Pizzi, regia Luca Ronconi); vennero realizzati unicamente il prologo e la prima opera (“Die Walkirie”) e il progetto venne interrotto per dissapori con Wolfgang Sawallisch, maestro concertatore e direttore d’orchestra. Venne ripreso, poi, nel 1979-82 a Firenze con la bacchetta allora altamente drammatica di Zubin Mehta. Purtroppo di questa bellissima edizione – il “Ring”, tra l’altro, era quasi interamente rappresentato in interni borghesi di tardo ottocento - sono state distrutte le scene. Vi è un bel cofanetto DvD del “Ring” del centenario della prima esecuzione integrale a Bayreuth: nel 1976 Patrice Chéreau e Pierre Boulez sorpresero il mondo con una lettura simile a quella di Pizzi-Ronconi-Mehta, ma, da un lato, con accenni favolistici e, dall’altro, con tempi più serrati. Prima del DvD, questa produzione Chéreau-Boulez ha fatto il giro del mondo grazie a una fortunata trasposizione televisiva ospitata pure in sale cinematografiche. Da “Ring” ambientati in epoca wagneriana d’industrializzazione, a quelli in epoca guglielmina e nazista il passo è breve. I “Ring” in cui o i nibelunghi o i ghibicunghi erano nazisti, mentre Sigfrido e Brunilde erano socialisti tesi verso il futuro, hanno pullulato soprattutto in Germania orientale, Polonia e Ungheria ma anche in edizioni nel mondo occidentale. Carsen e Kinmonth ritornano a questo filone. Ma i tempi sono cambiati. Nella Reggia , sventolano vessilli rosso fuoco . Il Palazzo è macero e corrotto . Il “Crepuscolo degli Dei” è pure la fine di un regime totalitario-comunista. Nell’ultima scena, l’incendio del Palazzo reale, il crollo di quello degli Dei, lo straripamento del Reno che “lava” e purifica la terra, pare indicare anche l’abbattimento del muro di Berlino. Altri aspetti confermano questa lettura tedesco-orientale: i costumi anni ‘50 nella festa nuziale nel secondo atto, le vesti povere delle norme, di Sigfrido e di Valchiria, la soffitta piena di mobili anni ‘30 e ‘40 in cui operano le norme, il fiume trasformato in discarica. Come in altre regie di Carsen, c’è anche una buona dose di sesso.
Completamente differente la chiave di lettura del Ring di Firenze e Valencia L’allestimento de la Fura dels Baus è un esempio di teatro totale in cui, non solo grazie ai sovratitoli si comprende ogni parola, ma musica e dramma sono coniugati con alta tecnologia (da proiezioni anche tridimensionali su dieci enormi schermi ad effetti speciali da film hollywoodiano), con acrobazie, con movimenti coreografici. Tecnologia, acrobazie e movimenti coreografici non solo rispettano la complessa partitura ma sono studiati in modo da esaltarla e da meglio far intendere i complicati intrecci tematici. Per sei ore (intervalli compresi) lo stupore degli spettatori non ha soluzioni di continuità. Lo spettacolo (che sarebbe potuto scivolare nel cattivo gusto) coglie e mantiene un delicato equilibrio tra fantascienza e poesia, dando rilievo ai momenti intimistici ma volta le spalle a letture politico-sociologiche
Prima di trattare del Ring di Aix e Salisburgo , è utile ricordare che sino all’inizio degli Anni 60), le messe in scene del Ring si basavano su ricostruzioni (spesso piuttosto buffe) in cartapesta della Germania mitologica quale vista con il cannocchiale di intellettuali tedeschi della fine del XIX secolo: tipiche a Bayreuth dal debutto nel 1876 alla fine della seconda guerra mondiale), ne vidi una a Roma da ragazzo. Successivamente si sono privilegiato letture simbolico-astratte sul tipo di quelle di Wieland Wagner, con le scene di Adolphe Appia fatte quasi esclusivamente di luci (tornate a volte di moda negli Anni 90).
A Aix e Salisburgo, Stéphane Braunschweig (regia e sceene), con la collaborazione di Thibault Vancraenenbroek (costumi) e luci (Mario Hwelett) e Sir Simon Rattle alla guida dei Berliner Philarmoniker non forniscono né una lettura “politica” né una filosofica né una fantasmagorica. Gli archetipi mitologici di Wagner sono, uomini e donne (pur se Dei), alle prese con le loro passioni. La scena è composta di tre pareti grigie ed una scalinata . L’attrezzeria è fatta di tre sedie, una poltrona in pelle, due letti ed alcuni tronchi astratti d’albero; le proiezioni ci offrono la profondità delle acque del Reno e l’incendio , con straripamento finale. Le luci fanno il resto tramite un abile gioco di colori. Sul palcoscenico non solo non ci sono foreste, palazzi reali e fiumi di cartapesta, costumi proto-tedeschi o nazisti o stalinisti tedesco-orientali, ma uomini e donne in abiti moderni come i nostri. Ci vuole un grande lavoro di recitazione per rendere , in un quadro così spoglio (quasi minimalista), l’intrigo di tradimenti ed amori che portano alla fine non solo degli Dei ma anche di un’intera classe dirigente terrena tale da tenere l’attenzione tesa per circa 6 ore. Un vero capolavoro di recitazione da parte di cantanti-attori selezionati con cura ed addestrati per mesi in questo Ring di cui un editore franco-tedesco-giapponese si è già assicurato i diritti televisivi e di riproduzione in DvD. Altra caratteristica è l’aspetto musicale. Nel golfo mistico c’è una formazione sinfonica che, di rado, entra nel comparto del teatro in musica: i Berliner Philarmoniker, guidati da Sir Simon Rattle (il loro Maestro stabile).Il Ring diventa una smisurata sinfonia sull’umanità alla ricerca di un nuovo , e migliore, futuro. Una meraviglia di colore, di sfumature, di virtuosismo in cui il sinfonismo continuo di Wagner evoca suoni intimi di cameristica. Dal suono chiaro e leggero, quasi etereo, si scivola, dolcemente, alle tonalità nere, tragiche. Indimenticabile il Sì bemolle con cui si chiude il ciclo- mai lo avevo sentito tanto pregno di speranza per un’umanità migliore. Un dettaglio: ci sono sei arpe al centro dell’orchestra, come prescritto dalla partitura, non due sistemate in un a palco di proscenio , come si usa di frequente.
Quale strada scegliere dipende da gusti personali e da risorse, finanziarie e artistiche, disponibile. Il vostro “chroniqueur” preferisce quella umana, troppo umana di Aix- Salisburgo. Ma il dibattito è aperto.

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