martedì 14 luglio 2009

AVVIAMO IL MOTORE DELLE RIFORME PARTENDO DA QUELLE SOCIALI Ffwebmnagazine 14 luglio

Dopo il maxi-vertice internazionale che dato prova della capacità dell’Italia e del suo Governo, è necessario iniziare una fase di riforme: E’ punto su cui concordano osservatori e commentatori politici delle parti più differenti: da un lato, essenziale cogliere il momento di grande fiducia nell’Italia; da un altro, è indispensabile porre le premesse per un rilancio di lungo periodo.
Un testo di culto della sinistra riformista – “Come fare passare le riforme” di Albert Hirschmann (scritto negli Anni 60 ma pubblicato in italiano da Il Mulino nel 1990)- sostiene che le riforme necessitano anni di vacche grasse in quanto i riformatori devono disporre di risorse con cui compensare le categorie danneggiate (anche quando il danno altro non è che una perdita di privilegi). La bassa crescita economica dell’Italia e le severe restrizioni finanziarie sono state addotte (dai Governi dell’epoca) dalla primavera 1996 a quella 2001 e dalla primavera 2006 a quella-2008 come ragioni per posporre riforme o fare marcia indietro su alcune di quelle varate in precedenza (il caso più evidente è la previdenza). Con la crisi finanziaria e la recessione ancora in corso siamo in una situazione analoga?
Non necessariamente. Già nel 1991, in un libro a quattro mani Giuseppe Scanni (G. Pennisi e G. Scanni “Debito, crisi, sviluppo”, Marsilio) venne dimostrato che in numerosi Paesi la crisi del debito estero dell’ultima fase degli Anni 80 è stata la molla per riforme, spesso coraggiose , quasi sempre predisposte da anni; documentammo anche che tali riforme avevano successo se “socialmente compatibili”. Pochi mesi dopo, tra il settembre 1992 ed il marzo 1993, a fronte di una crisi tale da comportare il deprezzamento del 30% della lira, il Governo Amato attuò un programma di riforme drastiche (previdenza, mercato del lavoro, pubblico impiego). Analogamente, nella primavera 1995, quando la lira traballava e si temeva per l’ingresso dell’Italia nell’euro, il Governo Dini riuscì a fare salpare la riforma della previdenza in cantiere sin dal 1978 (“Commissione Castellino). Ancora, le riforme del mercato del lavoro, degli incentivi industriali, del bilancio dello stato e l’inizio di quelle della scuola ed università sono state varate negli “anni difficili” che hanno fatto seguito all’11 settembre 2001.
Per Governo e Parlamento, quindi, la crisi finanziaria ed economica dovrebbero – come affermava una vecchia pubblicità- mettere un turbo del motore delle riforme, specialmente di quelle “socialmente compatibili”. In primo luogo, tornare allo spirito iniziale del riassetto della previdenza, utilizzando eventuali risparmi per ammortizzatori sociali per i più deboli. In secondo luogo, attuare a pieno la modernizzazione della Pa per renderla più efficiente e più efficace. In terzo luogo, rivedere, una volta per tutte, contabilità speciali e fuori bilancio (spesso fonte di privilegi corporativi) e, se del caso, chiuderle. In quarto luogo, rompere con il “contratto unico” le barriere tra i precari e gli altri.
Più specificatamente si può attuare un programma di riforme basato sul sociale se si opera simultaneamente su due fronti a) la normativa sul lavoro e b) la normativa sulla previdenza. Il complesso di norme che vanno sotto il nome di “legge Biagi” hanno rotto molti tabù e meglio codificato varie fattispecie; hanno, però, volenti o nolenti, contribuito alla balcanizzazione del mercato del lavoro italiano. Occorre andare verso un contratto unico con ( se necessario) periodi di prova più lunghe e tutele indennitorie in caso di licenziamento. Riforme di questa natura sono state proposte in Francia a fine 2006 in un saggio d’Etienne Wasmer dell’Observatoire Français de Conjonctures Economique. Sarkozy le ha già attuate. Le hanno fatte proprie alcuni economisti e giuristi italiani. Dovrebbero essere alla base di una proposta di legge a cui sta lavorando Pietro Ichino: mi auguro che sia bipartisan e che abbia un iter accelerato. Il Governo ha un’occasione importante di dare leadership in questo campo
Può farlo, prendendo il grimaldello offertogli da Renato Brunetta. Al di là degli aspetti legali (ottemperare ad una sentenza della Corte di Giustizia europea), la proposta di uniformare l’età di pensionamento delle lavoratrici di genere femminile a quella dei lavoratori di genere maschile non ha grande un impatto immediato. I dati indicano che in Italia l’età effettiva di pensionamento è in pratica già molto simile per i lavorati di genere femminile e per quelli di genere maschile. Inoltre, la transizione verso il sistema di calcolo contributivo per le spettanze e la crescente consapevolezza che l’indicizzazione copre soltanto parte dell’aumento del costo della vita inducono le donne a restare nel mercato del lavoro molto di più di quanto non lo faccia l’età legale per la pensione di vecchiaia. Le donne italiane non entrano nell’impiego perché a casa fanno il 73% del lavoro domestico (compresa la cura dei figli) rispetto al 62% delle americane (il resto è affidato ai mariti). La proposta di Brunetta, in effetti, fornisce al Governo ed al Parlamento un grimaldello per aprire la scatola delle riforme previdenziali proprio quando l’impongono tre determinanti: a) le riforme iniziate nel 1995 sono incompiute e specialmente perché prevedono una transizione molto lunga (18 anni , e circa 30 anni per le pensioni di reversibilità, mentre in altri Paesi, ad esempio in Svezia, processi analoghi sono state effettuati in tre anni); b) la “riforma Damiano”, dal nome del Ministro del Governo Prodi, ha aumentato i costi del sistema ; c) la crisi finanziaria mondiale ed il rallentamento dell’economia reale ci impongono di migliorare gli ammortizzatori sociali.
Aprendo la scatola per adeguare l’età legale per le pensioni di vecchiaia per le donne, si ha l’opportunità di scorciare la durata della transizione (da meccanismo “retributivo” a meccanismo “contributivo” per il calcolo delle spettanze) e rivedere i “coefficienti di trasformazione”) per convertire in assegni annuali i montanti di contributi contabilizzati. Altrimenti non si rimette l’Italia a lavorare e non si da sollievo a chi perde il lavoro.

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