Sugli ultimi provvedimenti in materia previdenziale si staglia l’ombra di Wassenaar. E’ il nome di una cittadina (20.000 abitanti) dei Paesi Bassi dove nel 1982 venne siglato quello che, per decenni, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) ha considerato come il capostipite dei “patti sociali”. A Wassenaar, il Governo e le parti sociali pensavano di risolvere il nodo della spesa previdenziale senza aumentare i contributi (ciò avrebbe pregiudicato la competitività) e senza modificare il rapporto tra ultimi stipendi e assegni previdenziali (in gergo il “tasso di copertura”), ma operando unicamente sull’età effettiva di collocamento a riposo (a ragione dell’allungamento dell’aspettativa di vita). Il computer dimostrò che l’età d’equilibrio (mantenendo invariati contributi e “tasso di copertura”) sarebbe stata ben 81 anni: allora, l’Olanda cambio drasticamente il sistema (una pensione di base a carico della fiscalità generale e un numero limitato di fondi pensione sufficientemente robusti da resistere a intemperie finanziarie).
Le misure per parificare l’età della pensione tra uomini e donne e per collegare gradualmente, dal 2015, l’età per il pensionamento all’aspettativa media di vita sono un passo essenziale, ma non sufficiente. La prima elimina una discriminazione nei confronti delle donne innescata da ragioni socio-culturali: secondo uno studio Ocse, le donne italiane non entrano nell’impiego o lo lasciano in età fertile perché a casa fanno il 73% del lavoro domestico (compresa la cura dei figli) rispetto al 62% delle americane (il resto è affidato ai mariti). Allineare l’età della pensione di donne e uomini può essere un ingrediente (non certo il fondamentale) per ridurre queste barriere. Agganciando l’età della pensione all’aspettativa di vita, si favorisce un invecchiamento “attivo”, componente importante della produttività complessiva del Paese. La formula scelta è tanto graduale che sarà necessario rimetterci mano: tra oggi ed il 2035 l’età effettiva di pensionamento varierebbe da 61 a 66 anni per i dipendenti e tra 62 e 67 per gli autonomi. Implica mediamente un “tasso di copertura” più generoso di quello previsto dalla “riforma Dini” del 1995 una volta a regime. Nel complesso, i risparmi all’erario saranno meno consistenti di alcune stime citate (frettolosamente) in questi giorni. Quando nel 1889 Bismarck definì il primo sistema previdenziale su base occupazionale, l’aspettativa di vita di un prussiano era 47 anni e l’età per fruire della pensione venne fissata a 70 anni. Nel 1908, Lloyd George mise a punto il primo sistema pensionistico universalistico (ossia per tutti i britannici): avrebbero avuto la pensione coloro che avrebbero superato il capo dei 70 anni ma l’aspettativa di vita era mediamente 51 anni. Ciò conferma che operando sulla determinante età i margini di manovra sono stretti.
Non potendo aumentare i contributi (i nostri sono i più alti al mondo), non resta che modificare il “tasso di copertura”. Ciò può essere fatto in varie maniere: stabilendo una soglia di pensione sociale per i meno abbienti a carico della fiscalità generale e ponendo “tetti” alle pensioni pubbliche oppure ancora definendo un “tasso di copertura” più basso dal giorno in cui si va a riposo ai 75 anni di età, quando aumentando le esigenze di cure ed assistenza. La gamma di modalità tecniche è vasta. Ciascuna ha vaste implicazioni finanziarie, economiche e sociali. L’argomento merita un dibattito approfondito. Non l’illusione che si sia giunti all’approdo.
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