Le vicende in corso in Iran hanno implicazioni profonde sul mercato internazionale dell’auto e, quindi, sulla strategia in corso di rimodulazione al Lingotto.
E’ un elemento di cui poco si è trattato in Italia ma – speriamo– ben noto sia al Lingotto sia a Detroit. L’Iran ha l’industria automobilistica più importanti dell’Asia centrale ed il potenziale di espanderla e diventare uno dei “major players” nel mercato mondiale in grado di penetrare, alla grande, non solo nei mercati ancora chiamati “emergenti” ma anche in Europa orientale. Anche a ragione di partnership in atto con imprese francesi (Renault e Citroën), tedesche (Mercedes), giapponesi (Mazda e Nissan) e coreane (Daewo e Kia). L’industria iraniana dell’auto è iniziata negli Anni 50 e 60 con la creazione d’impianti Ford e Gm e con il supporto della britannica Hillman Hunter alla nascente Paykan (“freccia” in persiano), a cui si sono aggiunti più tardi la Mercedes e la Mazda (per la produzione di camion e bus non di automobili). In seguito alla rivoluzione del 1979, le aziende americane si sono ritirate ma sono state prontamente soppiantate da imprese francesi e coreane, nonché da una maggiore presenza dei giapponesi. Adesso, il settore è organizzato in tre grandi gruppi a partecipazione statale (la Kohdro, la Pars Khodro e la Saipa); gli azionisti francesi, coreani, giapponesi, e tedeschi pare convivano bene con i soci (statali) iraniani. Accanto a queste grandi aziende, nell’ambito del programma (pur limitato) di liberalizzazioni, sono nati piccoli produttori con auto caratterizzate da specifiche unicamente iraniane come la Anna e la Samad. In totale, nonostante le tensioni interne, oggi l’Iran produce 1,1 milioni di vetture l’anno (i due terzi della Chrysler), ed è il decimo produttore su scala mondiale. Uno studio econometrico di Javad Abedini e Nilocas Péridy, nell’ultimo fascicolo di The World Economy, basato su un raffronto con 40 Paesi esportatori (di auto) e 34 importatori, conclude che il potenziale d’export dell’Iran è vari multipli del valore attuale; suggerisce che la politica industriale del Paese guardi sempre più al mercato internazionale non solo alla Russia, alla Cina ed all’India ma anche ai “più piccoli vicini” (Turchia, Pakistan, Asia centrale).L’analisi di Abedini e Péridy (scritta diversi mesi prima delle elezioni) ipotizza che nell’arco di pochi anni, le pressioni della popolazione per un migliore tenore di vita porteranno ad un’accelerazione del programma attuale (una produzione di 2 milioni di auto nel 2015) ed un sempre maggiore accento sull’export.
Fantaeconomia coniugata con fantapolitica? Non proprio: è, invece, un percorso analogo a quello seguito da molti Paesi a reddito pro-capite intermedio (secondo le definizioni della Banca Mondiale)- dalla stessa Italia negli Anni 50 e 60.
Quali le implicazioni per Marchionne? Trovare un concorrente in più, agguerrito e di stazza simile alla Fiat, proprio nei mercati dove conta di crescere. Una spina in più nel maglione-talismano.
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