CLT - Lirica, il “Don Giovanni” dell’inganno tra zeloti ed erodiani
Roma, 24 lug (Velino) - A cavallo tra l’ultimo lustro del XX secolo e il primo del XXI, “Don Giovanni” di Lorenzo Da Ponte e Wolfgang A. Mozart, ha soppiantato “Carmen” di Georges Bizet in quanto opera più rappresentata al mondo. Le classifiche non tengono conto delle due rappresentazioni quotidiane offerte a Praga (dove ha avuto la prima il 29 ottobre 1787) in un teatro di marionette con la musica registrata. Con “Don Giovanni” è appena iniziato a Macerata il Festival dello Sferisterio che andrà avanti fino al 9 agosto, con tema unificante “L’inganno” in tutte le sue sfaccettature. L’allestimento, scarno ed essenziale, andrà probabilmente in altri teatri italiani e stranieri la prossima stagione. Il successo del “Don Giovanni”, nella versione del mito drammatizzata e musicata da Da Ponte e da Mozart, dipende dal fatto che il lavoro, nonostante abbia sulle spalle circa 225 anni sulle spalle, rispecchia meglio di altri la tensione tra “zeloti” (ancorati al passato e alle sue regole sia scritte sia implicite) ed “erodiani” (rivolti, invece, verso la modernizzazione). Uno schema del genere è stato suggerito, alcuni anni fa, in un breve saggio, chissà se mai pubblicato, da Antonio Cognata, attuale sovrintendente del Teatro Massimo di Palermo e da Pasquale Lucio Scandizzo dell’università di Roma - Tor Vergata. Lo studio di Cognata e Scandizzo analizza i comportamenti di Don Giovanni e del Commendatore in termini di paradigmi in base alla teoria dei giochi (il “dilemma del prigioniero”) e inquadra il protagonista e il suo deuteragonista in un contesto di analisi economica per giungere a generalizzazioni sui “falchi” e sulle “colombe” come categorie economico-sociali di fronte al cambiamento. Altro punto è l’ineluttabilità che, in una fase di transizione (quasi da die verwandlung della tradizione tedesca), ci sia un agente economico disponibile a fare il “falco” sino alle estreme conseguenze – ossia farsi uccidere - per facilitare l’affermarsi delle nuove regole. Il Don Giovanni e il Commendatore, i “falchi”, devono giungere alla duplice morte (e caduta agli inferi) per fare avanzare la modernizzazione frenata dalle “colombe” di cui Don Ottavio sarebbe lo stereotipo. Tuttavia, mentre “falchi” e “colombe” differiscono in materia di tempi e modi per affrontare il cambiamento, andrebbe presa in considerazione anche un’altra ipotesi: che gli “zeloti” il cambiamento non lo vogliano affatto e che gli “erodiani” siano pronti a recepire habits and rules altrui pur di favorire il cambiamento. Ci sono, dunque, differenze sostanziali tra i due schemi.
La distinzione tra “zeloti” ed “erodiani” viene dai Vangeli ed è stata utilizzata da Luciano Pellicani in analisi sociologiche stimolanti. Non funziona per tutte le interpretazioni del mito di Don Giovanni. Non per quelle di Tirso da Molina o di José Zorilla, due “moralisti” bigotti i quali mettevano a nudo “la malvagità punita” del “burlador”. Non per quella di Molière, “immoralista”, invece, per eccellenza. Forse neppure per quella di Da Ponte, se privata della musica di Mozart. Nella vita privata era un abate “immoralista ben temperato” e sempre in bolletta che versificò una “contaminatio” delle più note versioni precedenti, quando buttò giù in poche settimane il testo per Mozart con intenzioni vagamente didascaliche. Vecchio e malato, ma tornato a Santa Romana Chiesa e ai Sacramenti, scelse il “Don Giovanni” e non il suo vero capolavoro scenico l’“immoralissimo” “Così fa tutte”) da rappresentare a New York dove era approdato. Lo schema esplicativo degli “zeloti” e degli “erodiani” è, però, appropriato per interpretazioni più recenti del mito del Don Giovanni, da quella di Kierkegaard a quelle elaborate nel periodo tra le due guerre mondiali all’insegna del verwandlung per eccellenza.
Dato a Da Ponte quel che è di Da Ponte, cerchiamo di vedere come gli aspetti più strettamente mozartiani possono essere esaminati con la “cassetta degli attrezzi” dell’analisi economica. “Don Giovanni” ha specificità musicali che lo rendono molto più pregnante del libretto (immaginiamone cosa ne avrebbero fatto un Piccini, un Paisiello o un Salieri…). In primo luogo, sin dalla ouverture avvertiamo che siamo di fronte a qualcosa che è ben diverso da un’“opera buffa” o da un “dramma giocoso”: dalle prime misure si avverte il fuoco dell’inferno in “fa” (che, tre ore più tardi, concluderà l’opera); il quadro è cosmico. In secondo luogo, il trattamento musicale del protagonista non ne fa né una caricatura del libertino quale tracciata da Tirso de Molina e José Zorrilla, né un proto-illuminista molieriano. La note di Mozart, avvolgono Don Giovanni in quel clima luciferino che ritroveremo, ad esempio, alcuni lustri più tardi nell’“opera nazionale” tedesca per sottolineare il carattere demoniaco di Kaspar del “Der Freischütz” oppure, un secolo più tardi, della Nutrice de “Die Frau ohne schatten”. È luciferino lo stesso brindisi alla libertà del “finale primo”, giustapposto, simmetricamente, alla scena, pure essa luciferina, con il Commendatore nel “finale secondo”. In maniera luciferina, né Don Giovanni né il Commendatore hanno una cavatina (aria di ingresso nelle convenzioni operistiche dell’epoca) o cabalette e legati. (segue)
Proprio questo aspetto luciferino fa sì che l’interazione “economica” tra Don Giovanni e il Commendatore non sia assimilabile a quella di due giocatori di pari livello (soprattutto sotto il profilo delle informazioni) in un “dilemma del prigioniero”. È, invece, analoga a quello del primo rispetto al secondo giocatore in un “gioco ad ultimatum”: viene, perciò, caratterizzata da dissonanze e da anticipazioni cromatiche. Don Giovanni vuole tornare all’inferno da dove è arrivato, come ci viene detto dalle prime note dell’ouverture. Il Commendatore è uno strumento per compiere questa marcia, più efficace dei tentativi di seduzione tutti “in bianco”, come esplicitato dai “diminuendi” che chiudono ciascuno di loro. Pure il Commendatore appartiene, come il Don, al mondo musicale della futura opera nazionale tedesca, (si pensi a “Die Vampyr” di Manscher che l’autunno scorso è stato messo in scena, per la prima volta in Italia, a Bologna) con ottave che tendono verso bassi mai sperimentati prima di allora. Anch’egli è segnato dal destino sin dal “do” con cui appare in scena, costretto al “gioco a ultimatum” fin dall’inizio dell’opera. Inoltre, il “gioco a ultimatum” viene ripetuto con inversione dei ruoli (il Commendatore in quello del primo giocatore e il Don in quello del secondo), nella sequenza finale dell’opera. La “teoria dei giochi” aiuta a comprendere il contesto istituzionale-musicale in cui operano Don Giovanni e il Commendatore: un contesto proteso verso quella che sarebbe diventata l’opera tedesca sino ai suoi sviluppi nel XX secolo. È la tensione verso il nuovo degli “erodiani” che sovente soccombono proprio per eccesso di modernizzazione.
È un contesto molto differente da quello in cui vivono gli altri personaggi dell’opera: il mondo musicale dell’opera “all’italiana” fatto di cavatine, arie, cabalette, duetti, terzetti e concertati. Regole ben definite che assicurano certezze, informazioni simmetriche e costi di transazione relativamente bassi, e in cui il pay-off, pur se limitato, conviene a tutti, da “utilitarismo delle regole” un po’ casareccio e pacioccone. Si guardi, in particolare, a Don Ottavio, un baritonorino lirico, caricatura dei tenori - Mozart come più tardi Strauss non li ha mai amati - di “Idomeneo”, di “Così fan tutte” e dello stesso “Die Entführung”. Musicalmente, i due mondi, restano paralleli, distinti e distanti: si incontrano solo nel lungo finale primo. Non c’è evoluzione, con l’“olocausto” di uno dei “falchi”, per schiudere una società di “colombe”. Con grande raffinatezza, sono due mondi in “re”: re minore quello luciferino, ma modernizzatore, del Don e del Commendatore; re maggiore quello perbenista di Don Ottavio e del resto della brigata (Leporello, Donna Anna, Donna Elvira, Masetto, Zerlina e compagnia cantante).
D’altronde, Mozart non avverte il verwandlung socio-politico, quindi economico, in atto negli anni in cui componeva “Don Giovanni”. Gliene viene offerta l’occasione almeno in due libretti – “Le nozze di Figaro” e “La clemenza di Tito”, ma si rifiuta di coglierla. Tramuta il primo in una commedia umana e il secondo in inno alla quality of mercy. È consapevole del verwandlung in preparazione nel teatro lirico e lo rappresenta in pieno nel “Don Giovanni”, tenendo separati i due mondi. C’è un’analogia con il capolavoro estremo di Richard Wagner, “Parsifal”, altra opera tesa verso l’innovazione, verso la stessa dodecafonia, ma intrisa dei ricordi pure della polifonia di Palestrina: il mondo rigorosamente diatonico del Graal contrapposto a quello rigorosamente cromatico del Castello di Klingsor con Kundry in funzione di collegamento e di cerniera tra i due.
Cosa c’è di questo impianto nel lavoro che ha debuttato a Macerata? La regia è di Pier Luigi Pizzi, che proprio con “Don Giovanni”, circa 30 anni fa cominciò la propria carriera di regista, aggiungendola a quella di scenografo, costumista e attore che avevano contrassegnato la prima fase della sua vita professionale. In una scatola scenica fortemente prospettica, fondali pareti e soffitti a specchio rimandano l'immagine dei personaggi e si consumano gli inganni e le illusioni dei protagonisti. Il Don si prende gioco consapevolmente della morte, ma non può sfuggire alla dannazione. Tra questi specchi i personaggi si vestono e si svestono, come nella scena iniziale in cui il protagonista (Ildebrando D’Arcangelo) si spoglia nella sua alcova. In breve, a una lettura superficiale, la regia sembra ispirata a erotismo, seppur di classe, in quanto l’attrezzeria ha un unico elemento: un grande letto sotto le cui lenzuola tutti, in certe scene anche il Don e Leporello, finiscono. A una lettura più approfondita, la regia non pone l’accento sui solo aspetti sessuali o principalmente su di essi, ma il sottostante è impregnato dal “gioco” a ultimatum fra “falchi” e “colombe” in un contesto socio-politico di verwandlung. Ciò spiega anche i nudi nella scena finale e la forte carica trasgressiva di molti momenti: il Don si contrappone agli habits and rules e per questo soccombe. Ma pure gli habits and rules saranno costretti a cambiare.
A questa interpretazione corrispondono i cantanti-attori, tutti con le physique du role e tutti anche abili ginnasti, date le capriole a cui li costringe Pizzi: Ildebrando D'Arcangelo (un “Don” quasi più combattente che seduttore), Carmela Remigio (una Donna Elvira appassionate e delusa), Myrtò Papatanasiu (una Donna Anna agguerrita), Andrea Concetti (un Leporello ambiguo), Marlin Miller (un ottimo Don Ottavio molto maschio, non il solito tenore cappone), William Corrò (un Masetto iperingannato), Manuela Risceglie (una Zerlina molto moquette). Purtroppo, la direzione musicale di Riccardo Frizza lascia molto a desiderare, con tempi approssimativi sin dalla magnifica sinfonia, e priva di disciplina nei confronti dei cantati a volte portati a strillare. È un punto su cui riflettere in vista della tournée dello spettacolo.
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