In Italia ci sono 3,5 milioni di immigrati regolari (la metà donne) e circa 800.000 clandestini. Nelle nostre scuole studiano oltre 600.000 figli di immigrati. Il disegno di legge di legge delega varato dal Governo. Più significativo di queste cifre è il dato che nel 1957 , anno in cui è stato firmato il Trattato di Roma ed è nata quella che oggi è l’Unione Europea (Ue), 400.000 italiani, uomini e donne, hanno lasciato la Patria alla ricerca di un futuro migliore , sovente alla volta dell’Australia o nel Canada perché gli Usa applicavano una politica rigorosa di controllo dei flussi e le “quote” per gli italiani erano molto modeste (a ragione della cattiva reputazione di qualche gruppo di “mele marce” – si riveda il dramma di Arthur Miller “Uno sguardo del ponte” che è di quel periodo od uno dei film che ne sono stati tratti. E’ un fenomeno, quindi, che, a differenza di quanto avvenuto in Stati dotati di vasti imperi coloniali (come Francia e Gran Bretagna) si è diffuso un lasso di tempo molto rapido, incidendo sulle strutture ed il corpo stesso nella società italiana. Un esempio personale: nel 1980, concludendo un anno di congedo sabbatico a Bologna dal mio servizio presso la Banca mondiale, avevo scritto una monografia sul tema; non trovai nessuno editore pronto a pubblicarlo (neanche Il Mulino con cui avevo pubblicato libri che avevano avuto un buon riscontro, ed, alla fine, il lavoro venne pubblicato in inglese da una casa tedesca di Amburgo. Il fenomeno è destinato a crescere: le stime dei demografi affermano che se non accogliamo almeno 50.000 nuovi immigrati l’anno, alla fine del secolo la popolazione della Penisola sarà dimezzata (da 57 a 27-28 milioni di abitanti).
Come tutti i fenomeni diffusisi rapidamente, è complesso e di non facile soluzione. Le critiche alla nuova normativa sulla sicurezza sono in gran parte dovute ad un informazione errata e presentata in modo distorto. In primo luogo, non riguarda gli immigrati, regolari o meno, ma tutti coloro che delinquono su territorio italiano (spesso nostri concittadini). In secondo luogo, il reato di “clandestinità” è centrale alla normativa di quasi tutti i Paesi europei e del Nord America: in Russia ed in Cina riguarda anche i cittadini che si trasferiscono da Repubblica a Repubblica della Federazione o da Provincia a Provincia della Repubblica Popolare. Il ricordato “Uno sguardo dal ponte” è incentrato interamente sul reato di “clandestinità”.
Nell’ambito di una politica per affrontare un fenomeno così complesso come l’immigrazione, la prevenzione del crimine (che spesso danneggia principalmente gli immigranti sotto l’aspetto non solo del torto subito ma anche del danno reputazionale alla categoria) è unicamente un tassello. Molto più importante è come favorire l’integrazione, l’acquisizione di usi e costumi accettati nella società italiana.
Pochi ricordano che nella primavera estate 2007, l’allora Governo di centro sinistra presentò un disegno di legge delega in materia, il cui iter parlamentare è stato affossato dalla stessa esile maggioranza su cui si reggeva l’Esecutivo. Da un lato, il ddl prevedeva misure per agevolare le cittadinanza agli immigrati legalmente residenti in Italia per almeno cinque anni senza interruzione, nonché ai loro figli (specialmente se nati su territorio italiano); da un altro, promuoveva l’immigrazione regolare e la concessione di permessi di soggiorno a chi lavora e contribuisce al fisco; da un altro ancora, rendere più severe le sanzioni (ancora maggiori di quelle appena approvate dal Parlamento) nei confronti dei clandestini e di chi li sfrutta.
In primo luogo, il disegno di legge delega, ormai decaduto, era complesso e macchinoso. Prevedeva un vasto numero di decreti delegati espropriando il Parlamento delle sue prerogative. Mettersi su un percorso complicato (come quello previsto dal testo del ddl) cozza con la semplificazione in atto in generale nell’Ue (quali il sistema a punti, adottato da molti Stati Ue e che Danimarca e Gran Bretagna stanno introducendo, per incoraggiare flussi qualificati, trasparenti ed effettivamente richiesti). Sarebbe stato preferibile fare perno (come sta facendo il Governo in carica) sulla normativa europea che dal 2004 (quando l’immigrazione fu il tema centrale del Consiglio dei Capi di Stato e di Governo dell’Ue ) si sta producendo, senza creare nuovi carrozzoni (quale quelli previsti dal ddl in questione) In secondo luogo, proprio le misure in materia di formazione per “l’effettiva integrazione linguistica e sociale” apparivano strabiche. Nell’attuale settennato di programmazione dei Fondi strutturali 2007-2013 , l’integrazione sociale è considerata prioritaria; le risorse, quindi, non fanno difetto. Si potrebbe pensare di formare nelle medesime strutture sia gli stranieri che vogliono acquisire l’integrazione “linguistica e sociale” per restare in Italia sia i quadri ed i dirigenti dei Paesi in via di sviluppo che vengono da noi per formazione manageriale e tecnica: si otterrebbero importanti sinergie . Per anni, questa funzione è stata svolta dalla Scuola superiore delle pubblica amministrazione (Sspa) nelle proprie sedi al Sud. Il ddl prevedeva che i corsi per l’”effettiva integrazione” sarebbero stati a imprese con fini commerciali, spesso emanazione di gruppi particolaristici. La tangentopoli della formazione nel primo scorcio degli Anni 90 ha mostrato che ciò ha dato luogo a forme di capolarato, che potrebbero essere agevolate dall’autosponsorizzazione prevista dal ddl della sinistra (e tale, come già sollevato da esperti del settore, da poter diventare preda di cartelli criminali). .
Tuttavia, non mancano idee buone in materia di normativa sull’integrazione degli immigrati regolari . Vale la pena riallacciarsi ad alcune idee lanciate circa cinque anni fa dall’allora leader di Alleanza Nazionale ed oggi Presidente della Camera, Gianfranco Fini.
Uno studio, pubblicato nel 2004, da Ans Zwerver, del gruppo socialista dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, redatto prima della proposta formulata dal Vice Presidente del Consiglio italiano Gianfranco Fini e da una socio-economista non certo contiguo ad Alleanza Nazionale, ne forniva alcuni elementi concettuali del lavoro. Nella parte centrale del lavoro (che riguarda una vasta gamma di argomenti), la Zwerver analizza, in modo tassonomico, i tre stadi dell’integrazione per gli immigranti – iniziazione (al Paese in cui si immigra), diritti elettorali alle elezioni amministrative locali, naturalizzazione e cittadinanza. L’esame comparato non riguarda solo i 15 Stati membri dell’Unione Europea (Ue) ma i 44 allora aderenti al Consiglio d’Europa. Ottica più vasta di quella, di solito, trattata nei dibattiti italiani.
Prima considerazione. In materia di “iniziazione”, i Governi italiani – sia i pentapartiti sia i “tecnici” sia le sinistra – hanno fatto poco o nulla rispetto al vero e proprio rigoglio di iniziative e di esperienze nel resto d’Europa; restano agli atti una legge (mai attuata) che porta il nome dell’allora Ministro del Lavoro Carlo Donat Cattin (si era nel 1990) e molte attività, in parte sovvenzionate dalla mano pubblica, per iniziative di associazioni “no profit”, per lo più di matrice cattolica. Il sinedrio del centro sinistra stia attento prima di strillare troppo: la Zwerver gli dà un bel zero sia in condotta sia in profitto.
Andiamo al secondo stadio. L’Italia è uno dei pochi Paesi, su 44 (gli altri sono la Danimarca, la Finlandia, l’Olanda, la Norvegia e la Svezia) che hanno ratificato la Convenzione internazionale sull’elettorato attivo e passivo degli immigrati alle amministrative. Dobbiamo esserne fieri. L’elettorato degli immigrati alle amministrative è anche norma in Irlanda, Lituania, Portogallo, Spagna e Regno Unito in base a leggi nazionali che prevedono dispositivi molto differenti in materia di requisiti: ad esempio, in Irlanda bastano sei mesi di residenza legale , mentre in altri ci vogliono cinque-sei anni. Ad un esame comparato, la proposta allora presentata da Gianfranco Fini si presenta come “mediana” : raccoglie gli elementi principali delle leggi in vigore in una dozzina circa di Paesi europei. Si distacca da molte, però, perché include requisiti di censo – aspetto innovativo ma insolito, da esaminare con cura in Parlamento.
Il terzo stadio è quello della cittadinanza. In Europa ci sono tradizioni giuridiche molto differenti: in molti Paesi domina la “jus loci” (in base al quale si è cittadini del luogo dove si nasce), in altrettanti lo “jus sanguini” (in base al quale la cittadinanza si eredità dai genitori). Un metro comune è il numero di anni di residenza legale richiesto per accedere, di norma (escludendo casi come il matrimonio), alla cittadinanza: in Austria, Grecia, Italia, Lussemburgo, Portogallo, Spagna e Slovenia ci vogliono dieci anni; otto in Germania ed Ungheria; sette in Danimarca; cinque in Finlandia, Francia, Irlanda, Paesi Bassi, Svezia, Regno Unito, Romania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia. In tutte le legislazioni, si richiede la conoscenza della lingua, delle istituzioni e della storia del Paese di cui si intende diventare cittadini – veri e propri esami - nonché, in molte normative, il giuramento sulla Costituzione. Quindi, la proposta in materia di naturalizzazione ha formulata della Lega Nord circa cinque anni fa e ripresa di recente una solida basa comparata.
In base ai fatti, quindi, queste idee e proposte meritano di essere riprese per dare un pilastro alla politica per l’immigrazione.
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