Opera / A Macerata gli inganni di “Butterfly” e “Traviata”
Roma, 27 lug (Velino) - Il tema dell’inganno è al centro sia di “Madama Butterfly” che della “Traviata”, le due opere in scena allo Sferisterio Opera Festival di Macerata rispettivamente sino al 7 e all’8 agosto. Nella prima la giovane quindicenne giapponese viene ingannata da un gaglioffo, il tenente Pinkerton. Nella seconda, Violetta inganna, a fin di bene, Alfredo per liberarlo da una relazione ritenuta socialmente sconveniente. “Madama Butterfly” viene sottotitolata “tragedia giapponese in tre atti” di Luigi Illica e Giuseppe Giocosa basata sull’elegante racconto di John Luther Long, letto, però, attraverso gli occhiali del drammone nazional-popolare di David Belasco. Essere considerata una “tragedia”, per di più “giapponese” ed essere eseguita “in tre atti”, è una iattura che perseguita l’opera di Giacomo Puccini, da quando, dopo il tonfo alla prima rappresentazione alla Scala nel febbraio 1904, cominciò, riveduta e corretta, il cammino trionfale nell’edizione presentata a Brescia, molto vicina all’assestamento definitivo nel 1907.
In effetti, nella concezione modernissima di Puccini, molto più innovativa di quanto compreso da Belasco, Illica e Giacosa, nonché da tanti interpreti pure dei giorni nostri, “Butterfly” è, dal punto di vista drammaturgico e musicale, composta da due parti molto distinte. La prima da commedia borghese, molto poco “giapponese”, anzi, cugina delle commedie borghesi di inizio Novecento; la seconda da dramma in cui dimensioni intimistiche acquistano valenza universale, tramite una progressiva scoperta della verità, in delicato equilibrio, quindi, tra Pirandello e Sofocle. Dal contrasto, soprattutto musicale, tra la prima e la seconda parte, nasce la bellezza e la modernità di un’opera spesso invecchiata, negli allestimenti, dall’orientaleggiare “art nouveau” di maniera e dall’intervallo salottiero dopo il coro a bocche chiuse, magnifico nesso tra i due quadri della seconda parte. Sotto molti aspetti, “Butterfly” è sorella di “Jenufa” di Léos Janaceck. Tre settimane prima, nel gennaio 1904, quest’ultima vedeva la luce in un teatrino allestito per l’occasione nella piccolo Brno ed avrebbe dovuto attendere dodici anni prima di essere conosciuta come uno dei capolavori assoluti del Novecento.
Il merito principale dell’esecuzione gustata allo Sferisterio va al direttore Daniele Callegari e al regista Pier Luigi Pizzi. Il primo scava sia nelle notazioni orchestrali da commedia borghese della prima parte, sia in quelle di dramma, al tempo stesso intimista ed universale, della seconda. L’abile scrittura di Puccini, spezzettata (altro accostamento con “Jenufa”) e densa di citazioni orientali e americane, ma al tempo stesso fluida in un flusso orchestrale ininterrotto, viene esaltata a tutto tondo, mantenendo sempre un grande equilibrio con le voci. Altro punto vincente dell’esecuzione è l’avere ripreso il bell’allestimento scenico e l’efficace regia di Pizzi. Siamo in un Giappone visionario alla Lotti, dove vengono utilizzate tutte le opportunità offerte dall’enorme palcoscenico dello Sferisterio, un boccascena di 130 metri. Nell’impianto fisso e nell’astuto gioco di luci e di lanterna magica, la commedia della prima parte e il dramma della seconda si giustappongono perfettamente. In terzo luogo, le voci, importantissime in “Butterfly”, opera che, a pieno titolo, appartiene all’”età d’oro” del teatro in musica.
Raffella Angeletti è una Butterfly di grande classe. Non è la fragile eroina dell’iconografia di maniera, ma una regina che trionfa sia vocalmente (magnifici i legato e la fraseggiatura) sia scenicamente: un vero e proprio gigante rispetto al piccolo mondo dei suoi familiari, del “ricco Yamadori”, del mezzano Goro, del buon burocrate Sharpless e del meschino Pinkerton. Quasi alla sua altezza, senza però raggiungerla, sono solo lo “zio Bonzo” e il ricordo del padre suicida per ordine del Mikado. Il Pinkerton di Massimiliano Pisapia (dimagrito e tale da essere credibile come ufficiale della marina militare Usa all’inizio del Novecento) è un tenore generoso. Ben calibrato lo Sharpless di Claudio Sgura. Una Suzuki affettuosa ed intelligente è Annunziata Vestri. Buoni tutti i numerosi caratteristi e il coro.
Per quanto riguarda la “Traviata”, il regista Massimo Gasparon, pur seguendo scrupolosamente le “indicazioni sceniche” di Verdi, situa la vicende d’amore e morte della cortigiana di lusso Violetta e del giovanotto di provincia Alfredo, in un’epoca che ricorda più Balzac, Baudelaire e Proust che Dumas figlio: si avverte quasi il clima de "La Recherche". In un lungo flashback, nessun dettaglio è banale. Fa discutere, nonostante alcuni errori (troppi movimenti e rumori di scena nel primo e terzo atto), ma è piaciuta al pubblico che alla “prima” l‘ha salutata con ovazioni. Il direttore Michele Mariotti svela un nuovo volto di Verdi nella overture e nella sinfonia, dove accentua il flusso sinfonico accelerando i tempi nei momenti di maggior tensione e dilatandoli liricamente negli altri. Buona qualità, ma non eccezionale, la direzione musicale nel resto dell’opera.
L’allestimento richiede che i due protagonisti sappiano cimentarsi con la scrittura vocale di un Verdi al pieno della maturità, che siano giovani e avvenenti e che siano in grado di recitare con efficacia. Mariella Devia ha 61 anni, ma è ancora una Violetta sensuale nel primo atto, dove affronta coloratura e superacuti senza la minima incertezza, e sempre più dolente nei due successivi. Strappa applausi a scena aperta. Alejandro Roy (Alfredo) ha 32 anni e non ha difficoltà nel calarsi nel ragazzo ingenuo che viene iniziato, progressivamente, al sesso, all’amore, alla compassione e alla tolleranza. Gabriele Viviani (30 anni) ha il ruolo di suo padre, Giorgio. Vocalmente rigoroso e generoso, pur truccato appare troppo giovane per la parte.
(Hans Sachs) 27 lug 2009 09:56
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