Roma, 31 lug (Velino) - Sarà l’opera da camera a salvare il teatro in musica? Ce lo si è chiesti più volte, anche in base alle esperienze straniere, specialmente tedesche, britanniche e francesi. E ce lo si domanda ancora una volta, dopo che allo Sferisterio Opera Festival 2009 di Macerata c’è stata la prima esecuzione assoluta dell’opera da camera in tre atti “Le Malentendu“ composta da Matteo D'Amico che ne ha curato anche il libretto in lingua originale. Purtroppo sono solo tre le repliche (compresa una “generale” aperta), mentre lavori analoghi in Germania restano un mese al Magazine della Staatsoper unter Den Linden. L'opera è tratta dal dramma omonimo di Albert Camus “Le Malentendu (Il malinteso)“, andato in scena per la prima volta al Théatre des Mathurins di Parigi nel giugno 1944. Un testo in cui lo scrittore e drammaturgo francese ricorre all’essenzialità strutturale della tragedia greca: quattro personaggi in tutto - più una figura muta cui è riservata solo la battuta finale - chiusi nello spazio angusto di un unico luogo, il soggiorno e la camera di una locanda, in una piccola città della Boemia, nell’arco breve di poco più d'una giornata.
L’intimità e l’interiorità della vicenda, che si consuma tutta in poche ore, tra le mura disadorne di un piccolo albergo di una sperduta provincia europea, richiedono un organico quanto mai ristretto e, per così dire, in “bianco e nero”: cinque archi, una fisarmonica e un clarinetto. Quello che creano è come un velo di ghiaccio sopra il quale scorre il canto che quasi sempre è autentico “messaggero” della parola. Le cristalline battute dei personaggi di Camus sono lasciate fluire nel modo più piano possibile. Battute lucide, taglienti, asciutte, che sembrano però non permettere ai personaggi di comunicare veramente. I momenti di accensione lirica, che di continuo si fanno largo, sono come brevi esplosioni, tensioni estreme per riuscire almeno a dire ciò che non si riesce a comunicare.
L’opera utilizza il testo di Camus, appropriatamente sfoltito per rendere possibile la messa in musica per una durata complessiva di un’ora e mezza (il canone seguito da Jànaceck). L’organico orchestrale è volutamente molto leggero: il Quartetto Bernini, formazione specializzata nel repertorio contemporaneo (Marco Serino, Yoko Ichihara violini; Gianluca Saggini, viola; Valeriano Teodoro, violoncello), insieme a Massimo Ceccarelli al contrabbasso, Roberto Petrocchi al clarinetto e Dario Flammini alla fisarmonica. Ha diretto Guillaume Tourniaire. La regia è di Saverio Marconi. Le scene sono di Gabriele Moreschi, il disegno luci di Valerio Tiberi. Protagonisti Elena Zilio (La Mère), Sofia Soloviy (Martha), Mark Milhofer (Jan), Davinia Rodriguez (Maria), Marco Iacomelli (Le Vieux Domestique).
“Le Malentendu“ è una tragedia greca contemporanea, così la intese Camus e così la legge Marconi. I personaggi sono una Madre stanca che si lascia trascinare dagli eventi. Una Figlia che non è riuscita a ottenere quello che voleva, una di quelle tragiche figure che danno la colpa dei propri insuccessi a qualcun altro. Ci sono anche un Figliol Prodigo e la Moglie, e poi c'è un Vecchio. La musica di D'Amico ha nella fisarmonica l’elemento centrale: il nesso tra gli archi e il clarinetto. E’ la voce della desolazione, anche se richiama i balli popolari , mentre il clarinetto basso è un’ombra inquietante e gli archi avvolgono lo svolgersi dell’azione. Una partitura molto raffinata, sottolinea acutamente Mauro Mariani in un suo saggio, a cui si accompagna una scrittura vocale che dal declamato si scioglie in ariosi e duetti. In breve: con pochi mezzi, uno spettacolo di livello. Bravi tutti i cantanti ed eccezionale Elena Zilio. Speriamo che venga ripreso la prossima stagione in circuiti teatrali ed accademie musicali…
(Hans Sachs) 31 lug 2009 15:08
venerdì 31 luglio 2009
IL RISCATTO DEL SUD NELLE MANI DELLE DONNE Il Tempo 31 luglio
Le donne sono, al tempo stesso, l’ancora di salvezza e la leva per lo sviluppo del Mezzogiorno. E’ sul genere femminile che occorre puntare per fare sì che il Sud e le Isole riducano i divari che li separano dal resto del Paese. Lo intuiva circa un quarto di secolo fa il “Piano per il Lavoro”, presentato dal Ministro dell’epoca Gianni De Michelis ma in gran misura redatto dall’attuale Ministro della Funzione Pubblica e dell’Innovazione Renato Brunetta. Il “Piano” documentò come il futuro dell’Italia sarebbe in gran misura dipeso dall’aumento del tasso di attività e del livello d’istruzione delle donne del Mezzogiorno – la principale risorsa del Paese poco utilizzata. L’economista americano Charles Kindleberger ci aveva insegnato che il nostro “miracolo economico” era dovuto al capitale umano reso improduttivo a ragione della seconda guerra mondiale. Il capitale umano delle donne del Mezzogiorno è la determinante su cui fare affidamento.
In questo primo scorcio di XXI secolo, la questione meridionale ha caratteristiche differenti da quelle di cento anni fa. Si staglia in un contesto di invecchiamento della struttura demografica e produttiva del Paese; è aggravata da una recessione dell’economia mondiale che ha colpito gravemente l’export. Viene accentuata da un fenomeno migratorio che , in base ai più recenti dati Svimez, riguarda i lavoratori di genere maschile tra i 25 ed i 29 anni e con una buona percentuale di laureati più che quelli di genere femminile. Nel contempo, aumenta la partecipazione delle studentesse nelle università. In prospettiva, in Italia come in molti Paesi Ocse (si veda OECD “Higher Education in 2030) il numero delle laureate supererà quello dei laureati: nella media italiana , le studentesse universitarie passano dal 45% al 60% tra il 1985 ed il 2005; nel Mezzogiorno il fenomeno sarà probabilmente ancora più accentuato a ragione della prevalenza di giovani maschi laureati nell’emigrazione verso il Centro-Nord o l’estero. Nei quattro anni in cui ho insegnato ad un master in management pubblico a Palermo, le studentesse (in gran parte laureate in ingegneria o simili) erano mediamente più brillanti degli studenti (di norma provenienti da giurisprudenza ed affini) ed hanno, con poche eccezioni, avuto maggiori soddisfazioni di carriera.
Cosa fare? In primo luogo, eliminare le barriere culturali secondo cui l’80% del lavoro domestico e della cura dei figli è affidato alle donne (rispetto al 60% negli Usa): senza parità d’opportunità in questo campo anche gli uomini si condannano ad uno sviluppo con il freno a mano tirato. In secondo luogo, incoraggiare la formazione femminile sin dalla scuola elementare specialmente nella matematica e nelle scienze, seguendo le indicazioni della recente analisi PISA (Programme for International Student Assessment - un programma relativo ai livelli effettivi degli studenti di vari Paesi). In terzo luogo, promuovere schemi per ridurre i tempi di attesa tra termine degli studi ed inizio del lavoro.
In questo primo scorcio di XXI secolo, la questione meridionale ha caratteristiche differenti da quelle di cento anni fa. Si staglia in un contesto di invecchiamento della struttura demografica e produttiva del Paese; è aggravata da una recessione dell’economia mondiale che ha colpito gravemente l’export. Viene accentuata da un fenomeno migratorio che , in base ai più recenti dati Svimez, riguarda i lavoratori di genere maschile tra i 25 ed i 29 anni e con una buona percentuale di laureati più che quelli di genere femminile. Nel contempo, aumenta la partecipazione delle studentesse nelle università. In prospettiva, in Italia come in molti Paesi Ocse (si veda OECD “Higher Education in 2030) il numero delle laureate supererà quello dei laureati: nella media italiana , le studentesse universitarie passano dal 45% al 60% tra il 1985 ed il 2005; nel Mezzogiorno il fenomeno sarà probabilmente ancora più accentuato a ragione della prevalenza di giovani maschi laureati nell’emigrazione verso il Centro-Nord o l’estero. Nei quattro anni in cui ho insegnato ad un master in management pubblico a Palermo, le studentesse (in gran parte laureate in ingegneria o simili) erano mediamente più brillanti degli studenti (di norma provenienti da giurisprudenza ed affini) ed hanno, con poche eccezioni, avuto maggiori soddisfazioni di carriera.
Cosa fare? In primo luogo, eliminare le barriere culturali secondo cui l’80% del lavoro domestico e della cura dei figli è affidato alle donne (rispetto al 60% negli Usa): senza parità d’opportunità in questo campo anche gli uomini si condannano ad uno sviluppo con il freno a mano tirato. In secondo luogo, incoraggiare la formazione femminile sin dalla scuola elementare specialmente nella matematica e nelle scienze, seguendo le indicazioni della recente analisi PISA (Programme for International Student Assessment - un programma relativo ai livelli effettivi degli studenti di vari Paesi). In terzo luogo, promuovere schemi per ridurre i tempi di attesa tra termine degli studi ed inizio del lavoro.
mercoledì 29 luglio 2009
POLITICHE CULTURALI: LA GRANDE MUSICA NON CHIEDE SOLDI ALLO STATO in Charta Minuta luglio-agosto
Il 2009 è l’anno di Haydn, di cui il 31 maggio è stata la ricorrenza del secondo centenario dalla morte. Così come il 2008 è stato l’anno di Puccini (150 anni dalla nascita) ed il 2006 l’anno di Mozart (250 anni dalla nascita). E’ anche l’anno di Haendel, di cui ricorre il 250simo centenario dalla morte. Tuttavia le celebrazione in memoria di Haydn sono più diffuse di quelle per Haendel sia in quanto il primo fu l’inventore della struttura della sinfonia quale seguita sino a fine Ottocento sia per il costo, spesso proibitivo, che comporta la messa in scena od anche solo l’esecuzione delle opere e degli oratori del secondo. Il culmine delle celebrazioni (al di là dei meriti dei suoi 20 lavori per il teatro, Haydn è considerato “il padre della sinfonia”-ne lasciò 104 e, soprattutto, ne formalizzò – come si è detto - la struttura) sarà un evento organizzato dal Ministero austriaco della cultura: il 31 maggio , in 20 capitali è stato eseguito uno dei suoi maggiori oratori – “La Creazione” – con collegamenti in mondovisione.
Nelle capitali dove c’è più di un’orchestra sinfonica, la competizione è stata vivace. Per l’Italia è stata scelta una formazione relativamente poco conosciuta, nel nostro Paese, al di fuori della capitale: l’Orchestra Sinfonica-Fondazione Roma (Os-Fr). E’ un’orchestra giovane (circa sette anni di vita). E’ un’orchestra di giovani (due terzi dei 90 orchestrali ha meno di trent’anni). E’ un’orchestra i cui concerti (domenica pomeriggio e lunedì sera nell’Auditorium di Via della Conciliazione- circa 1200 posti) sono affollati principalmente da un pubblico giovane. Infine, ha un aspetto speciale: è forse l’unica orchestra sinfonica italiana interamente privata che non riceve un euro di sovvenzione dalle pubbliche amministrazioni statali, regionali, provinciali e comunali- una vera e propria eccezione nel panorama non solo italiano ma dell’intera Europa continentale - ma vive grazie all’elargizione di un contributo di una fondazione (anch’essa privata)e la biglietteria.
Al fine di portare la grande musica dal vivo ai giovani (e di permetterne di fruirne anche ai pensionati), l’Os-Fr ha una politica di prezzi bassi: per 30 concerti, l’abbonamento intero è € 280; per gli studenti è € 90 e per chi ha più di 65 anni € 160. Per i singoli concerti, il biglietto è € 18, quello ridotto (per studenti ed anziani) € 10.
Gli inizi Quando è iniziata la loro avventura, molti li hanno snobbati. Pensare di fare nascere un’orchestra sinfonica puramente privata, in grado di reggersi sulle proprie gambe, partendo con un gruppo di giovani appena usciti dai conservatori, era considerato poco “politically correct”. Anche perché “i ragazzi” (così li chiamavano) ed il loro animatore, il direttore d’orchestra Francesco La Vecchia non andavano a bussare alla porta di Pantalone, nelle sue varie vesti e guise (Stato, Regione, Provincia, Comune) ma pensavano di farcela con il contributo di privati e con gli incassi. Hanno trovato un mecenate, la Fondazione Roma, che oggi, visti i risultati, stanzia quasi 5 milioni d’euro l’anno per l’intrapresa ( a titolo di raffronto il bilancio dell’Accademia di Santa Cecilia supera i 25 milioni d’euro l’anno, di cui due terzi pubblici). Hanno iniziato nel novembre 2002 , realizzando le prime stagioni al Teatro Argentina ed al Teatro Sistina. Hanno, poi, rimesso a nuovo l’auditorium di Via della Conciliazione, inizialmente concepito per le udienze papali del Giubileo del 1950 e diventato, in seguito, per circa mezzo secolo sede dei concerti sinfonici dell’Accademia di Santa Cecilia (ora trasferitasi al Parco della Musica). L’auditorium di Via della Conciliazione (1200 posti) è stato migliorato sia nell’aspetto sia nell’acustica. Da novembre a giugno, i “ragazzi” vi suonano le domeniche pomeriggio alle 17,30 ed i lunedì sera alle 20,30; la sala strabocca di giovani (ed anche d’anziani) a ragione in gran misura della politica di prezzi: per 30 concerti, l’abbonamento intero è € 280 (poco più di un posto in platea o palco per una sola serata alla Scala), ma per gli studenti è € 90 e per chi ha più di 65 anni € 160. Per i singoli concerti, il biglietto intero è € 18, quello ridotto (per studenti ed anziani) € 10. La vera innovazione è il programma: accanto a cicli (nel 2009 sette concerti sono dedicati ad Haydn), nello stesso concerto la sinfonica tradizionale , e più conosciuta, del Settecento e dell’Ottocento viene declinata con musica del Novecento “storico”, con la contemporaneità ed anche con composizioni commissionate, a compositori giovani, dall’Os-Fr. La stagione in corso, ad esempio, è stata inaugurata dalla secondo esecuzione assoluta in Italia (la prima fu negli Anni 70 alla Scala) di “Come una ola de fuerza y luz” di Luigi Nono, grande lavoro per soprano, pianoforte, orchestra e nastro elettronico. Nello stesso concerto, si ascolta Busoni con Schubert, Stravinskij con Bruckner, Casella con Brahms, Ciacovskil con Malipiero, Liszt con Shostakovich, Mahler con Dukas . In tal modo, si accontenta il pubblico sia tradizionale sia aperto all’innovazione. Una ventata d’aria nuova che mancava nella capitale da quando è stata chiusa la formazione romana dell’orchestra sinfonica della Rai e che ha innescato competizione nel mercato della musica. I costi di produzione sono tenuti bassi da un organico amministrativo all’osso (una decina di dipendenti).
Negli anni, è cambiato il nome ; da Orchestra Giovanile Italiana nelle prime stagioni ad Orchestra Sinfonica-Fondazione Roma (Os-Fr)nell’ultima. L’autorevolezza si è imposta anche in Italia quando c’è stata una sempre più accentuata consacrazione internazionale. Da un canto direttori stranieri di livello (come Gunter Neuhold, Lior Shamdal, Amos Talmon) hanno spesso guidato i “ragazzi di via della Conciliazione”. Da un altro, orchestre straniere importanti come i Berliner Sinfoniker sono state ospiti dell’Os-Fr . Da un altro ancora, l’orchestra è stata invitata ad esibirsi all’estero - a San Pietroburgo, a Bruxelles, a Madrid (in un concerto presso l’Auditorio Nacional de la Musica a Madrid alla presenza della Regina), in Brasile , ad Atene, e Londra (nella sede della Royal Philharmonic Orchestra), ed alla Großer Saal della Philharmonie a Berlino, tempio della musica sinfonica mondiale, dove ha trionfato nell’ottobre 2007.
In tournée con l’Os.Fr. Chi ricorda “Notte e Nebbia”, un documentario di 32 minuti con cui nel lontano 1955 l’allora giovane Alain Resnais aprì la “nouvelle vague” del cinema francese? Era per i nove decimi in bianco e nero, costruito su materiali d’archivio ed imperniato su tre date: 1933 (avvento del nazismo), 1942 (inizio del sistematico genocidio degli ebrei), 1945 (chiusura dell’ultimo lager). Per circa un decimo a colori girato in Polonia durante la preparazione del film. Statiche le immagini in bianco e nero. Inquadrature dinamiche quelle a colori. L'alternanza di bianco e nero e di colore, ed il differente uso della macchina da presa, contrapponeva passato e presente; mentre le immagini si facevano più drammatiche, la musica di commento diventava più dolce. Renais- aveva mutuato il titolo da una parola d’ordine Nacht und Nebel (appunto: notte e nebbia), che avrebbe dovuto significare come della Shoa non sarebbe dovuta restare traccia.
Il breve film di Renais mi è tornato più volte , accompagnando, lo scorso febbraio, l’Os.Fr in tournée in Germania e Polonia. Non solamente perché la tournée ha comportato un concerto a Cracovia e una visita (da parte di tutta l’orchestra) ai campi di sconcertamento di Auschwitz e di Birkenau. Ma anche in senso metaforico: la musica colta italiana sta per essere avvolta da un manto di notte e nebbia che può essere rotto facendo leva su orchestre giovani e private, avvezze a lavorare non nel mercato dei sempre più esigui contributi pubblici ma in quello, molto più vasto, in cui l’apporto delle pubbliche amministrazioni è ingrediente di un disegno che fa leva sul mecenatismo, sulla biglietteria, sul confronto internazionale.
L’Os.Fr è stata invitata alla Philarmonie di Berlino (forse la più autorevole sala di concerti nel mondo, certamente la più prestigiosa in Europa) tra le prime formazioni di una serie di concerti per i 20anni dalla caduta del muro. Francesco La Vecchia ha diretto un concerto ispirato all’amicizia tra Germania ed Italia: nella prima parte, oltre alla notissima sinfonia de “I Vespri Siciliani” di Giuseppe Verdi, tre lavori di Giuseppe Martucci (colore orientale, notturno, tarantella), compositore su cui si è voluto calare una fitta coltre d’oblio; nella seconda parte il poema sinfonico di Richard Strauss (di cui ricorrono 60 anni dalla morte) “Aus Italien”(“All’ Italia). La sala, circa 1800 posti, era gremita. C’è stata una vera e propria “standing ovation”: tutti in piedi come in uno stadio (usanza niente affatto tedesca) a domandare bis. Quindi, l’Os-Fr ha eseguito pure l’”intermezzo” di “Cavalleria Rusticana” di Pietro Mascagni e la parte finale della sinfonia del “Guglielmo Tell” di Giacchino Rossini. I lavori di Martucci e di Strauss sono poemi sinfonici nello stile degli ultimi anni del XIX secolo; quelli di Verdi e Rossini sono inni alla libertà particolarmente adatti alla ricorrenza.
Il successo di Berlino si è ripetuto a Cracovia. Il concerto è stato aperto dal “Carnevale Romano” di Hector Berlioz con il quale il compositore francese (che aveva studiato a Roma) intese salvare, nel 1844, almeno parte dell’opera “Benvenuto Cellini” che non trovava teatri disposti a rappresentarla. Dopo i tre brevi ma affascinanti poemi sinfonici di Martucci e la sinfonia de “I Vespri Siciliani” di Verdi, è stato suonato il grandioso, e difficilissimo, poema sinfonico “I Pini di Roma” d’Ottorino Respighi. Il lavoro di Respighi, relativamente poco noto a Cracovia, è quello che forse più ha colpito il pubblico polacco. E’ una partitura molto complessa, che richiede un organico molto vasto (e strumentisti in grado d’essere ciascuno un solista). Respighi prende l’avvio dai giochi di bambini a Villa Borghese, per poi evocare i pini che coprono con la loro ombra le catacombe e quelli al vento del Gianicolo e per finire con una marcia solenne di consoli, aristocratici e soldati della Roma antica filtrata attraverso i sentimenti di chi, nel 1924, passeggia sulla Via Appia. L’esecuzione ha scosso un pubblico avveduto: a Cracovia c’è un’intesa vita musicale: un teatro d’opera di repertorio (la cui architettura ricorda il Palais Garnier di Parigi) ed una sala di concerti in stile neoclassico (costruita all’inizio del XX secolo e restaurata ne 1980) a pochi passi dal Palazzo Arcivescovile dove ha vissuto per decenni Karol Wojtila.
Terza e ultima tappa Ludwigshaven, un centro industriale ai confini tra la Renania-Palatinato ed il Baden-Wuttemberg. Sede di una delle più antiche industrie chimiche, la BASF, ha un auditorium, costruito all’inizio del secolo scorso; in stile neoclassico, per mille spettatori. In passato, vi hanno diretto, tra gli altri, Richard Strass e Bruno Walter. Ora è al centro di un consorzio o associazione di sale da concerto (a Linburghof, Heidelberg, Mannhein, Landau, Speier, Bensheim) che offre una vasta gamma di musica (non solo sinfonica, ma anche cameristica, recital, lirica in versione da concerto ed anche operette e jazz) per soddisfare i gusti di varie categorie. Emergono due considerazioni: a) la collaborazione tra pubblico e privato; e b) la cooperazione-competizione che s’innesca tra le varie componenti del consorzio. La stagione comporta una cinquantina di concerti; è stata aperta da Gustav Dudamel ed eseguita dalla Sinfonica Venezuelana. La Mahler Chamber Orchestra è stata scelta come “orchestra di beneficenza” (i proventi dei concerti vanno in attività caritatevoli). L’Os.Fr è l’”orchestra ospite” della stagione (che si estende sino a fine maggio). Il programma presentato dall’Os.Fr a Ludwisghafen, è leggermente differente da quelli offerti a Berlino e Cracovia: include il raramente eseguito “Concerto gregoriano per violino ed orchestra” di Ottorino Respighi. Solista uno dei violinisti più apprezzati a livello internazionale, il russo Serghej Krylov – ascoltato tra l’altro all’auditorium Paganini di Parma. Il pubblico è stato entusiasta: ovazioni e richieste di bis sia a Krylov che a La Vecchia.
Le prossime tappe sono una tournée in Austria che vedrà l’Orchestra con un concerto presso il Musikverein a Vienna, mentre nel 2010 sarà la volta di una lunga tournée negli Stati Uniti. La stagione prosegue a Roma con un programma interessante i cui dettagli si possono leggere su www.orchestrasinfonicadiroma.it
Implicazioni di politica per la cultura Dalla cronaca di un viaggio appassionante con circa 100 giovani entusiasti ed il loro direttore, tiriamo le somme in termini di politica culturale, riprendendo da quel riferimento alla notte ed alla nebbia in cui sembrano stare la arti dal vivo in generale e la musica in particolare. Striscioni di protesta sulla ormai imminente “morte della cultura” si leggono in quasi tutti i teatri. Tre delle 14 fondazioni lirico-sinfoniche sono commissariate, altre due sul punto di esserlo. Franco Zeffirelli ha proposto di chiudere i teatri per un anno. La notte non potrebbe essere più scura e la nebbia più fitta. L’esperienza ed il successo dalla Os.Fr mostrano che c’è uno sprazzo di luce da cui emergono indicazioni precise:
a) Una maggiore collaborazione tra pubblico e privato. Il Ministro dei Beni e della Attività Culturali Bondi ha predisposto una revisione della normativa sugli sgravi fiscali per le donazioni alle attività culturali. Occorre pensare ad un sistema di “matching grants” (nella terminologia americana) di “patronage” (alla francese) oppure di “angels” (secondo il lessico britannico): il contributo pubblico affianca quello privato in misura ad esso equivalente. I Festival di Aix-en-Provence e Glyndebourne si finanziano, ad esempio, per un terzo grazie al mecenatismo, per un terzo grazie al supporto pubblico, e per un terzo grazie alla biglietteria, le tournée e la vendita di spettacoli.
b) Risolvere il nodo dei “residui passivi” (somme non spese) che da quattro lustri travaglia il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali – quale che sia l’orientamento politico della maggioranza e l’appartenenza del Ministro pro-tempore in carica . Nodo quindi connaturato alla incapacità amministrativa di riallocare tempestivamente spese tra settori dove ci sono esigenze e capacità di spesa a settori dove pur se ci sono esigenze non si riesce a spendere.
c) una più intensa cooperazione tra istituzioni al fine d’effettuare sinergie e proporre una gamma più vasta di offerta agli spettatori e un incoraggiamento speciale per le formazioni di giovani e per quelle che si dirigono ad un pubblico giovane.
Occorre, soprattutto, prendere esempio infine da Piero Bargellini, sindaco di Firenze, quando nel novembre 1966, agli Uffizi con il fango sino alle ginocchia disse a voce alta: “Non è tempo di piagnistei”. Con i piagnistei, la nebbia diventa più fitta.
BOX
I problemi ed i nodi di politica culturale sono particolarmente acuti nel comparto della lirica, un’espressione d’arte tipicamente italiana e che in Italia ha fiorito anche commercialmente nel Seicento e nell’Ottocento e che rischia di sparire da noi mentre è in grande espansione all’estero, specialmente in Estremo Oriente . A fronte del commissariamento di tre fondazioni liriche su 13 (e dell’imminente commissariamento di una quarta), di manifestazioni e di scioperi in tutti i teatri, le soluzioni diventano più urgenti. Esse non possono non tenere conto del “morbo di Baumol” (dal nome dell’economista, William Baumol, che negli Anni 60 ha scritto un fondamentale trattato sul settore): in un mondo di rapido progresso tecnologico, senza supporto pubblico (tramite sovvenzioni o sgravi tributari adeguati alle elargizioni filantropiche) la lirica muore (i teatri tedeschi hanno sovvenzioni che coprono mediamente il 90% dei costi e sono sempre pieni grazie ad un “sottostante” diffuso, popolare ed attivo). Per l’Italia, dove 400 anni fa è nato il teatro in musica, ciò vuol dire una perdita pesante di patrimonio nazionale. Le soluzioni possibili sono le seguenti:
• Una revisione drastica della normativa sulle fondazione che comporti un ripensamento del loro status giuridico ed una riduzione del loro numero (eliminandone un paio o per eccessiva contiguità territoriale con altre o perché hanno masse artistiche- orchestra, coro- qualitativamente al di sotto della media di buoni teatri europei).
• Imporre per legge una gestione delle fondazioni restanti basata sul binomio cooperazione-competitizione. Cooperazione vuole dire dare vita ad un cartellone nazionale con forti risparmi negli allestimenti e nei cachet degli artisti ed evitare che ciascuna fondazione miri a stagioni simili a mini-festival autoreferenziali. Competizione vuole dire premiare le fondazioni che, in base ai risultati di biglietteria e le valutazioni tecniche di una commissione internazionale, sappiano coniugare consuntivi in pareggio ed alta qualità.
• Trasferire, nell’ambito del federalismo, alle Regioni “i teatri di tradizione”, i l”lirici sperimentali”, le “scuola d’opera” e simili. Gli eletti regionali decideranno se dare priorità al patrimonio lirico nazionale od alle fiere del carciofo gigante. Ed i loro elettori li giudicheranno.
Nelle capitali dove c’è più di un’orchestra sinfonica, la competizione è stata vivace. Per l’Italia è stata scelta una formazione relativamente poco conosciuta, nel nostro Paese, al di fuori della capitale: l’Orchestra Sinfonica-Fondazione Roma (Os-Fr). E’ un’orchestra giovane (circa sette anni di vita). E’ un’orchestra di giovani (due terzi dei 90 orchestrali ha meno di trent’anni). E’ un’orchestra i cui concerti (domenica pomeriggio e lunedì sera nell’Auditorium di Via della Conciliazione- circa 1200 posti) sono affollati principalmente da un pubblico giovane. Infine, ha un aspetto speciale: è forse l’unica orchestra sinfonica italiana interamente privata che non riceve un euro di sovvenzione dalle pubbliche amministrazioni statali, regionali, provinciali e comunali- una vera e propria eccezione nel panorama non solo italiano ma dell’intera Europa continentale - ma vive grazie all’elargizione di un contributo di una fondazione (anch’essa privata)e la biglietteria.
Al fine di portare la grande musica dal vivo ai giovani (e di permetterne di fruirne anche ai pensionati), l’Os-Fr ha una politica di prezzi bassi: per 30 concerti, l’abbonamento intero è € 280; per gli studenti è € 90 e per chi ha più di 65 anni € 160. Per i singoli concerti, il biglietto è € 18, quello ridotto (per studenti ed anziani) € 10.
Gli inizi Quando è iniziata la loro avventura, molti li hanno snobbati. Pensare di fare nascere un’orchestra sinfonica puramente privata, in grado di reggersi sulle proprie gambe, partendo con un gruppo di giovani appena usciti dai conservatori, era considerato poco “politically correct”. Anche perché “i ragazzi” (così li chiamavano) ed il loro animatore, il direttore d’orchestra Francesco La Vecchia non andavano a bussare alla porta di Pantalone, nelle sue varie vesti e guise (Stato, Regione, Provincia, Comune) ma pensavano di farcela con il contributo di privati e con gli incassi. Hanno trovato un mecenate, la Fondazione Roma, che oggi, visti i risultati, stanzia quasi 5 milioni d’euro l’anno per l’intrapresa ( a titolo di raffronto il bilancio dell’Accademia di Santa Cecilia supera i 25 milioni d’euro l’anno, di cui due terzi pubblici). Hanno iniziato nel novembre 2002 , realizzando le prime stagioni al Teatro Argentina ed al Teatro Sistina. Hanno, poi, rimesso a nuovo l’auditorium di Via della Conciliazione, inizialmente concepito per le udienze papali del Giubileo del 1950 e diventato, in seguito, per circa mezzo secolo sede dei concerti sinfonici dell’Accademia di Santa Cecilia (ora trasferitasi al Parco della Musica). L’auditorium di Via della Conciliazione (1200 posti) è stato migliorato sia nell’aspetto sia nell’acustica. Da novembre a giugno, i “ragazzi” vi suonano le domeniche pomeriggio alle 17,30 ed i lunedì sera alle 20,30; la sala strabocca di giovani (ed anche d’anziani) a ragione in gran misura della politica di prezzi: per 30 concerti, l’abbonamento intero è € 280 (poco più di un posto in platea o palco per una sola serata alla Scala), ma per gli studenti è € 90 e per chi ha più di 65 anni € 160. Per i singoli concerti, il biglietto intero è € 18, quello ridotto (per studenti ed anziani) € 10. La vera innovazione è il programma: accanto a cicli (nel 2009 sette concerti sono dedicati ad Haydn), nello stesso concerto la sinfonica tradizionale , e più conosciuta, del Settecento e dell’Ottocento viene declinata con musica del Novecento “storico”, con la contemporaneità ed anche con composizioni commissionate, a compositori giovani, dall’Os-Fr. La stagione in corso, ad esempio, è stata inaugurata dalla secondo esecuzione assoluta in Italia (la prima fu negli Anni 70 alla Scala) di “Come una ola de fuerza y luz” di Luigi Nono, grande lavoro per soprano, pianoforte, orchestra e nastro elettronico. Nello stesso concerto, si ascolta Busoni con Schubert, Stravinskij con Bruckner, Casella con Brahms, Ciacovskil con Malipiero, Liszt con Shostakovich, Mahler con Dukas . In tal modo, si accontenta il pubblico sia tradizionale sia aperto all’innovazione. Una ventata d’aria nuova che mancava nella capitale da quando è stata chiusa la formazione romana dell’orchestra sinfonica della Rai e che ha innescato competizione nel mercato della musica. I costi di produzione sono tenuti bassi da un organico amministrativo all’osso (una decina di dipendenti).
Negli anni, è cambiato il nome ; da Orchestra Giovanile Italiana nelle prime stagioni ad Orchestra Sinfonica-Fondazione Roma (Os-Fr)nell’ultima. L’autorevolezza si è imposta anche in Italia quando c’è stata una sempre più accentuata consacrazione internazionale. Da un canto direttori stranieri di livello (come Gunter Neuhold, Lior Shamdal, Amos Talmon) hanno spesso guidato i “ragazzi di via della Conciliazione”. Da un altro, orchestre straniere importanti come i Berliner Sinfoniker sono state ospiti dell’Os-Fr . Da un altro ancora, l’orchestra è stata invitata ad esibirsi all’estero - a San Pietroburgo, a Bruxelles, a Madrid (in un concerto presso l’Auditorio Nacional de la Musica a Madrid alla presenza della Regina), in Brasile , ad Atene, e Londra (nella sede della Royal Philharmonic Orchestra), ed alla Großer Saal della Philharmonie a Berlino, tempio della musica sinfonica mondiale, dove ha trionfato nell’ottobre 2007.
In tournée con l’Os.Fr. Chi ricorda “Notte e Nebbia”, un documentario di 32 minuti con cui nel lontano 1955 l’allora giovane Alain Resnais aprì la “nouvelle vague” del cinema francese? Era per i nove decimi in bianco e nero, costruito su materiali d’archivio ed imperniato su tre date: 1933 (avvento del nazismo), 1942 (inizio del sistematico genocidio degli ebrei), 1945 (chiusura dell’ultimo lager). Per circa un decimo a colori girato in Polonia durante la preparazione del film. Statiche le immagini in bianco e nero. Inquadrature dinamiche quelle a colori. L'alternanza di bianco e nero e di colore, ed il differente uso della macchina da presa, contrapponeva passato e presente; mentre le immagini si facevano più drammatiche, la musica di commento diventava più dolce. Renais- aveva mutuato il titolo da una parola d’ordine Nacht und Nebel (appunto: notte e nebbia), che avrebbe dovuto significare come della Shoa non sarebbe dovuta restare traccia.
Il breve film di Renais mi è tornato più volte , accompagnando, lo scorso febbraio, l’Os.Fr in tournée in Germania e Polonia. Non solamente perché la tournée ha comportato un concerto a Cracovia e una visita (da parte di tutta l’orchestra) ai campi di sconcertamento di Auschwitz e di Birkenau. Ma anche in senso metaforico: la musica colta italiana sta per essere avvolta da un manto di notte e nebbia che può essere rotto facendo leva su orchestre giovani e private, avvezze a lavorare non nel mercato dei sempre più esigui contributi pubblici ma in quello, molto più vasto, in cui l’apporto delle pubbliche amministrazioni è ingrediente di un disegno che fa leva sul mecenatismo, sulla biglietteria, sul confronto internazionale.
L’Os.Fr è stata invitata alla Philarmonie di Berlino (forse la più autorevole sala di concerti nel mondo, certamente la più prestigiosa in Europa) tra le prime formazioni di una serie di concerti per i 20anni dalla caduta del muro. Francesco La Vecchia ha diretto un concerto ispirato all’amicizia tra Germania ed Italia: nella prima parte, oltre alla notissima sinfonia de “I Vespri Siciliani” di Giuseppe Verdi, tre lavori di Giuseppe Martucci (colore orientale, notturno, tarantella), compositore su cui si è voluto calare una fitta coltre d’oblio; nella seconda parte il poema sinfonico di Richard Strauss (di cui ricorrono 60 anni dalla morte) “Aus Italien”(“All’ Italia). La sala, circa 1800 posti, era gremita. C’è stata una vera e propria “standing ovation”: tutti in piedi come in uno stadio (usanza niente affatto tedesca) a domandare bis. Quindi, l’Os-Fr ha eseguito pure l’”intermezzo” di “Cavalleria Rusticana” di Pietro Mascagni e la parte finale della sinfonia del “Guglielmo Tell” di Giacchino Rossini. I lavori di Martucci e di Strauss sono poemi sinfonici nello stile degli ultimi anni del XIX secolo; quelli di Verdi e Rossini sono inni alla libertà particolarmente adatti alla ricorrenza.
Il successo di Berlino si è ripetuto a Cracovia. Il concerto è stato aperto dal “Carnevale Romano” di Hector Berlioz con il quale il compositore francese (che aveva studiato a Roma) intese salvare, nel 1844, almeno parte dell’opera “Benvenuto Cellini” che non trovava teatri disposti a rappresentarla. Dopo i tre brevi ma affascinanti poemi sinfonici di Martucci e la sinfonia de “I Vespri Siciliani” di Verdi, è stato suonato il grandioso, e difficilissimo, poema sinfonico “I Pini di Roma” d’Ottorino Respighi. Il lavoro di Respighi, relativamente poco noto a Cracovia, è quello che forse più ha colpito il pubblico polacco. E’ una partitura molto complessa, che richiede un organico molto vasto (e strumentisti in grado d’essere ciascuno un solista). Respighi prende l’avvio dai giochi di bambini a Villa Borghese, per poi evocare i pini che coprono con la loro ombra le catacombe e quelli al vento del Gianicolo e per finire con una marcia solenne di consoli, aristocratici e soldati della Roma antica filtrata attraverso i sentimenti di chi, nel 1924, passeggia sulla Via Appia. L’esecuzione ha scosso un pubblico avveduto: a Cracovia c’è un’intesa vita musicale: un teatro d’opera di repertorio (la cui architettura ricorda il Palais Garnier di Parigi) ed una sala di concerti in stile neoclassico (costruita all’inizio del XX secolo e restaurata ne 1980) a pochi passi dal Palazzo Arcivescovile dove ha vissuto per decenni Karol Wojtila.
Terza e ultima tappa Ludwigshaven, un centro industriale ai confini tra la Renania-Palatinato ed il Baden-Wuttemberg. Sede di una delle più antiche industrie chimiche, la BASF, ha un auditorium, costruito all’inizio del secolo scorso; in stile neoclassico, per mille spettatori. In passato, vi hanno diretto, tra gli altri, Richard Strass e Bruno Walter. Ora è al centro di un consorzio o associazione di sale da concerto (a Linburghof, Heidelberg, Mannhein, Landau, Speier, Bensheim) che offre una vasta gamma di musica (non solo sinfonica, ma anche cameristica, recital, lirica in versione da concerto ed anche operette e jazz) per soddisfare i gusti di varie categorie. Emergono due considerazioni: a) la collaborazione tra pubblico e privato; e b) la cooperazione-competizione che s’innesca tra le varie componenti del consorzio. La stagione comporta una cinquantina di concerti; è stata aperta da Gustav Dudamel ed eseguita dalla Sinfonica Venezuelana. La Mahler Chamber Orchestra è stata scelta come “orchestra di beneficenza” (i proventi dei concerti vanno in attività caritatevoli). L’Os.Fr è l’”orchestra ospite” della stagione (che si estende sino a fine maggio). Il programma presentato dall’Os.Fr a Ludwisghafen, è leggermente differente da quelli offerti a Berlino e Cracovia: include il raramente eseguito “Concerto gregoriano per violino ed orchestra” di Ottorino Respighi. Solista uno dei violinisti più apprezzati a livello internazionale, il russo Serghej Krylov – ascoltato tra l’altro all’auditorium Paganini di Parma. Il pubblico è stato entusiasta: ovazioni e richieste di bis sia a Krylov che a La Vecchia.
Le prossime tappe sono una tournée in Austria che vedrà l’Orchestra con un concerto presso il Musikverein a Vienna, mentre nel 2010 sarà la volta di una lunga tournée negli Stati Uniti. La stagione prosegue a Roma con un programma interessante i cui dettagli si possono leggere su www.orchestrasinfonicadiroma.it
Implicazioni di politica per la cultura Dalla cronaca di un viaggio appassionante con circa 100 giovani entusiasti ed il loro direttore, tiriamo le somme in termini di politica culturale, riprendendo da quel riferimento alla notte ed alla nebbia in cui sembrano stare la arti dal vivo in generale e la musica in particolare. Striscioni di protesta sulla ormai imminente “morte della cultura” si leggono in quasi tutti i teatri. Tre delle 14 fondazioni lirico-sinfoniche sono commissariate, altre due sul punto di esserlo. Franco Zeffirelli ha proposto di chiudere i teatri per un anno. La notte non potrebbe essere più scura e la nebbia più fitta. L’esperienza ed il successo dalla Os.Fr mostrano che c’è uno sprazzo di luce da cui emergono indicazioni precise:
a) Una maggiore collaborazione tra pubblico e privato. Il Ministro dei Beni e della Attività Culturali Bondi ha predisposto una revisione della normativa sugli sgravi fiscali per le donazioni alle attività culturali. Occorre pensare ad un sistema di “matching grants” (nella terminologia americana) di “patronage” (alla francese) oppure di “angels” (secondo il lessico britannico): il contributo pubblico affianca quello privato in misura ad esso equivalente. I Festival di Aix-en-Provence e Glyndebourne si finanziano, ad esempio, per un terzo grazie al mecenatismo, per un terzo grazie al supporto pubblico, e per un terzo grazie alla biglietteria, le tournée e la vendita di spettacoli.
b) Risolvere il nodo dei “residui passivi” (somme non spese) che da quattro lustri travaglia il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali – quale che sia l’orientamento politico della maggioranza e l’appartenenza del Ministro pro-tempore in carica . Nodo quindi connaturato alla incapacità amministrativa di riallocare tempestivamente spese tra settori dove ci sono esigenze e capacità di spesa a settori dove pur se ci sono esigenze non si riesce a spendere.
c) una più intensa cooperazione tra istituzioni al fine d’effettuare sinergie e proporre una gamma più vasta di offerta agli spettatori e un incoraggiamento speciale per le formazioni di giovani e per quelle che si dirigono ad un pubblico giovane.
Occorre, soprattutto, prendere esempio infine da Piero Bargellini, sindaco di Firenze, quando nel novembre 1966, agli Uffizi con il fango sino alle ginocchia disse a voce alta: “Non è tempo di piagnistei”. Con i piagnistei, la nebbia diventa più fitta.
BOX
I problemi ed i nodi di politica culturale sono particolarmente acuti nel comparto della lirica, un’espressione d’arte tipicamente italiana e che in Italia ha fiorito anche commercialmente nel Seicento e nell’Ottocento e che rischia di sparire da noi mentre è in grande espansione all’estero, specialmente in Estremo Oriente . A fronte del commissariamento di tre fondazioni liriche su 13 (e dell’imminente commissariamento di una quarta), di manifestazioni e di scioperi in tutti i teatri, le soluzioni diventano più urgenti. Esse non possono non tenere conto del “morbo di Baumol” (dal nome dell’economista, William Baumol, che negli Anni 60 ha scritto un fondamentale trattato sul settore): in un mondo di rapido progresso tecnologico, senza supporto pubblico (tramite sovvenzioni o sgravi tributari adeguati alle elargizioni filantropiche) la lirica muore (i teatri tedeschi hanno sovvenzioni che coprono mediamente il 90% dei costi e sono sempre pieni grazie ad un “sottostante” diffuso, popolare ed attivo). Per l’Italia, dove 400 anni fa è nato il teatro in musica, ciò vuol dire una perdita pesante di patrimonio nazionale. Le soluzioni possibili sono le seguenti:
• Una revisione drastica della normativa sulle fondazione che comporti un ripensamento del loro status giuridico ed una riduzione del loro numero (eliminandone un paio o per eccessiva contiguità territoriale con altre o perché hanno masse artistiche- orchestra, coro- qualitativamente al di sotto della media di buoni teatri europei).
• Imporre per legge una gestione delle fondazioni restanti basata sul binomio cooperazione-competitizione. Cooperazione vuole dire dare vita ad un cartellone nazionale con forti risparmi negli allestimenti e nei cachet degli artisti ed evitare che ciascuna fondazione miri a stagioni simili a mini-festival autoreferenziali. Competizione vuole dire premiare le fondazioni che, in base ai risultati di biglietteria e le valutazioni tecniche di una commissione internazionale, sappiano coniugare consuntivi in pareggio ed alta qualità.
• Trasferire, nell’ambito del federalismo, alle Regioni “i teatri di tradizione”, i l”lirici sperimentali”, le “scuola d’opera” e simili. Gli eletti regionali decideranno se dare priorità al patrimonio lirico nazionale od alle fiere del carciofo gigante. Ed i loro elettori li giudicheranno.
martedì 28 luglio 2009
DON GIOVANNI, OVVERO SEXI-IMBROGLIO, Il Tempo 29 luglio
“L’inganno” è il tema fondante del Festival dello Sferisterio che si svolge a Macerata dal 23 luglio al 9 agosto ed ha la caratteristica di essere uno dei rari festival italiani che chiude da tre anni con un leggero attivo finanziario ed ha una forte partecipazione di sponsor locali e internazionali (ad esempio, la maggiore compagnia francese di servizi pubblici di elettricità e gas”. “L’inganno” va in sena dopo l’iniziazione (nel 2006), il gioco del potere (2007), la seduzione (2008) include nuovi allestimenti di tre opere molto note (“Don Giovanni” di Mozart, “Madama Bufferfly” di Puccini e “Traviata” di Verdi) e la prima mondiale di “Le Malentendu” di Matteo D’Amico, nonché un omaggio a Händel, “Il Trionfo del Tempo sul Disinganno” e una “lettura” di “Corruzione al Palazzo di Giustizia” di Ugo Betti, dramma quasi non più rappresentato in Italia ma molto presente all’estero. Dato che gli inganni nei corridoi e nelle aule dei tribunali sono di grande attualità non unicamente in Italia.
Il “Don” ha inaugurato il Festival con la regia le scene ed i costumi di Pier Luigi Pizzi e la direzione di Riccardo Frizza, nel piccolo e delizioso teatro Lauro Rossi (dove verrà replicato sino al 30 luglio, prima di prendere il via, nella prossima stagione verso altre città italiane e forse anche straniere. Protagonisti giovani, di bello aspetto e buon talento: Ildebrando D'Arcangelo, Carmela Remigio, Myrtò Papatanasiu. Andrea Concetti, Marlin Miller, William Corrò, Manuela Bisceglie. Il bello aspetto (oltre che le buone voci) è essenziale in quanto gli inganni messi in scena da Pizzi sono in gran misura sessuali (nella cena ci si chiedeva se fossero state assoldate come consulenti alcune escort, oggi vengono chiamate così, che stanno facendo tanto chiasso in queste settimane).
In una scatola scenica fortemente prospettica, fondali pareti e soffitti a specchio rimandano l'immagine dei personaggi in varie prospettive e fanno diventare i palchi del teatro elemento essenziale della scena. In questo ambiente peccaminoso – unico elemento dell’attrezzeria è un enorme letto bianco, si consumano gli inganni e le illusioni . Il “Don” si prende gioco consapevolmente della morte, ma non può sfuggire alla dannazione . Tra questi specchi i personaggi si vestono e si svestono, come nella scena iniziale in cui il protagonista si spoglia nella sua alcova e nella scena finale in cui giovani uomini e donne in nudo integrale lo trascinano agli inferi.. In breve, erotismo di classe con uno sguardo all’evoluzione politico-sociale di un mondo in trasformazione.
Il neo la direzione musicale approssimativa di Riccardo Frizza che sin dal re minore con cui inizia la sinfonia pare fuori fase e induce i cantanti ad esagerare nel volume.
Il “Don” ha inaugurato il Festival con la regia le scene ed i costumi di Pier Luigi Pizzi e la direzione di Riccardo Frizza, nel piccolo e delizioso teatro Lauro Rossi (dove verrà replicato sino al 30 luglio, prima di prendere il via, nella prossima stagione verso altre città italiane e forse anche straniere. Protagonisti giovani, di bello aspetto e buon talento: Ildebrando D'Arcangelo, Carmela Remigio, Myrtò Papatanasiu. Andrea Concetti, Marlin Miller, William Corrò, Manuela Bisceglie. Il bello aspetto (oltre che le buone voci) è essenziale in quanto gli inganni messi in scena da Pizzi sono in gran misura sessuali (nella cena ci si chiedeva se fossero state assoldate come consulenti alcune escort, oggi vengono chiamate così, che stanno facendo tanto chiasso in queste settimane).
In una scatola scenica fortemente prospettica, fondali pareti e soffitti a specchio rimandano l'immagine dei personaggi in varie prospettive e fanno diventare i palchi del teatro elemento essenziale della scena. In questo ambiente peccaminoso – unico elemento dell’attrezzeria è un enorme letto bianco, si consumano gli inganni e le illusioni . Il “Don” si prende gioco consapevolmente della morte, ma non può sfuggire alla dannazione . Tra questi specchi i personaggi si vestono e si svestono, come nella scena iniziale in cui il protagonista si spoglia nella sua alcova e nella scena finale in cui giovani uomini e donne in nudo integrale lo trascinano agli inferi.. In breve, erotismo di classe con uno sguardo all’evoluzione politico-sociale di un mondo in trasformazione.
Il neo la direzione musicale approssimativa di Riccardo Frizza che sin dal re minore con cui inizia la sinfonia pare fuori fase e induce i cantanti ad esagerare nel volume.
L’INGANNO: SE NON E’ IL SENSO DELLA VITA NE E’ IL SALE. Il Tempo 29 Luglio
Se non è il senso stesso della vita, l’inganno ne è il sale. La parola inganno assomiglia al tedesco eingang (ingresso), se se ne esamina il concetto, si scopre che è proprio il “luogo” nel quale si è portati, introdotti, persuasi ad entrare.
Lo dicono a tutto tondo le filosofie antiche – da quella greca (“il mito della caverna” ci insegna che nasciamo ingannati e esistiamo ingannandoci a vicenda) a quelle orientali (in cui il concetto stesso di “infinito” è considerato “un inganno millenario”). Nelle filosofie moderne occidentali (si pensi al neo-contrattualismo di Rawls), lo “stato originario” di ciascuno di noi si fonda sull’inganno da cui si esce solamente con un patto ad occhi chiusi dove nessuno sa quali saranno i propri vantaggi e svantaggi ed il proprio posto nella società. In quelle moderne orientali, la “filosofia dell’azione” di Mishima significa rompere l’inganno connaturato all’esistenza umana, sottraendo (con l’inganno) la spada e commettendo suicidio rituale (Seppuko, taglio della testa e sventramento da parte dei propri allevi, pronti a suicidarsi anche loro).
L’inganno è alla base dell’arte della guerra, e, quindi, pure di quella del management moderno. Lo sottolineavano, a proposito della strategia militare, sia San Tzu che von Clausewitz e vi dedicano diversi capitoli i libri di testo di Peter Ducker , su cui si sono nutriti generazioni e generazioni di studenti di gestione aziendale e d’economia dell’impresa. A volte, proprio in questo campo, l’inganno diventa tale che tutti si imbrogliano a vicenda, scatenando una crisi finanziaria ed economica come l’attuale ; lo mostra a tutto tondo lo splendido film di Gary Gasgartuh “We All Fall Down” (“Caschiamo tutti insieme”), in Italia trovabile unicamente il DvD.
L’inganno è naturalmente alla base della politica: degli intrighi di palazzo (nell’Impero cinese ed in quello bizantino ne erano particolarmente esperti gli eunuchi, forse anche perché erano a loro negati altri piaceri ed interessi), in epoca moderna , con un occhio all’Italia, si arriva quelli considerati (a torno od a ragione) tipici di chi si riuniva (negli Anni 60 e 70) nel convento delle Suore Dorotee al Gianicolo fino al grande inganno dell’inverno 1994-1995 dove il complotto fu indirizzato ad ingannare Umberto Bossi ed ad innescare il ribaltone.
Non è necessario leggere D’Annunzio o Alberoni (per restare nell’Italia del Novecento) per essere consapevoli che non c’è amore senza inganno. Sia che si tratti di rapporto coniugale, passionale od anche meramente sessuale.
L’inganno è così diffuso e così incardinato che le religioni lo trattano con tolleranza . Philla Daverio sottolinea che -non è mai riuscito a diventare vizio capitale come la sua sorella maggiore, l'invidia. Anzi, l'invidia non è vizio ma peccato, cioè non pulsione alla trasgressione, che può assumere le caratteristiche di crimine (come è spesso l’inganno) bensì vera trasgressione commessa. Infatti, esiste una declinazione leggera dell'inganno che ne fa lo strumento necessario alla convivenza fra gli uomini e alla ricchezza delle nazioni. Lo conferma tutto il pensiero economico neo-istituzionale moderno, dalla teoria dei giochi, alla teoria dei costi transazione.
Il buon Peppino Verdi conclude la sua vita d’artista con la splendida “fuga” del finale del “Falstaff”: “tutto il mondo è una burla”, ossia un inganno.
Lo dicono a tutto tondo le filosofie antiche – da quella greca (“il mito della caverna” ci insegna che nasciamo ingannati e esistiamo ingannandoci a vicenda) a quelle orientali (in cui il concetto stesso di “infinito” è considerato “un inganno millenario”). Nelle filosofie moderne occidentali (si pensi al neo-contrattualismo di Rawls), lo “stato originario” di ciascuno di noi si fonda sull’inganno da cui si esce solamente con un patto ad occhi chiusi dove nessuno sa quali saranno i propri vantaggi e svantaggi ed il proprio posto nella società. In quelle moderne orientali, la “filosofia dell’azione” di Mishima significa rompere l’inganno connaturato all’esistenza umana, sottraendo (con l’inganno) la spada e commettendo suicidio rituale (Seppuko, taglio della testa e sventramento da parte dei propri allevi, pronti a suicidarsi anche loro).
L’inganno è alla base dell’arte della guerra, e, quindi, pure di quella del management moderno. Lo sottolineavano, a proposito della strategia militare, sia San Tzu che von Clausewitz e vi dedicano diversi capitoli i libri di testo di Peter Ducker , su cui si sono nutriti generazioni e generazioni di studenti di gestione aziendale e d’economia dell’impresa. A volte, proprio in questo campo, l’inganno diventa tale che tutti si imbrogliano a vicenda, scatenando una crisi finanziaria ed economica come l’attuale ; lo mostra a tutto tondo lo splendido film di Gary Gasgartuh “We All Fall Down” (“Caschiamo tutti insieme”), in Italia trovabile unicamente il DvD.
L’inganno è naturalmente alla base della politica: degli intrighi di palazzo (nell’Impero cinese ed in quello bizantino ne erano particolarmente esperti gli eunuchi, forse anche perché erano a loro negati altri piaceri ed interessi), in epoca moderna , con un occhio all’Italia, si arriva quelli considerati (a torno od a ragione) tipici di chi si riuniva (negli Anni 60 e 70) nel convento delle Suore Dorotee al Gianicolo fino al grande inganno dell’inverno 1994-1995 dove il complotto fu indirizzato ad ingannare Umberto Bossi ed ad innescare il ribaltone.
Non è necessario leggere D’Annunzio o Alberoni (per restare nell’Italia del Novecento) per essere consapevoli che non c’è amore senza inganno. Sia che si tratti di rapporto coniugale, passionale od anche meramente sessuale.
L’inganno è così diffuso e così incardinato che le religioni lo trattano con tolleranza . Philla Daverio sottolinea che -non è mai riuscito a diventare vizio capitale come la sua sorella maggiore, l'invidia. Anzi, l'invidia non è vizio ma peccato, cioè non pulsione alla trasgressione, che può assumere le caratteristiche di crimine (come è spesso l’inganno) bensì vera trasgressione commessa. Infatti, esiste una declinazione leggera dell'inganno che ne fa lo strumento necessario alla convivenza fra gli uomini e alla ricchezza delle nazioni. Lo conferma tutto il pensiero economico neo-istituzionale moderno, dalla teoria dei giochi, alla teoria dei costi transazione.
Il buon Peppino Verdi conclude la sua vita d’artista con la splendida “fuga” del finale del “Falstaff”: “tutto il mondo è una burla”, ossia un inganno.
lunedì 27 luglio 2009
UN OMICIDIO MUSICALE SOTTO L’OMBRELLONE Il Tempo 25 luglio
Che lettura consigliare a chi in estate vuole rilassarsi? Ovviamente il vecchio libro giallo, con un intrigo forte e complicato, un bel po’ di “thrilling” e la catarsi finale. Ma se siamo alle prese con un lettore colto, di quelli che passano le vacanze da un festival all’altro, con uno sciame di amici, festivalieri pure loro? Non certo l’ennesima vicenda romanzata sulla morte di Mozart o sul “suicidio” su comando di Tchaikovsky a ragione delle sue tendenze gay che lo avevano portato a corrompere il figlio giovinetto di alto aristocratico di San Pietroburgo. Su questi fattacci, si sa già un po’ tutto. E soprattutto si conosce la fine.
Davvero appassionante, invece, “Le parrucche di Hoffmann- un omicidio a Berlino” di Alessandro Zignani (Zecchini Editore pp. 156 € 15) Ernst Theodor Amadeus Hoffmann non è conosciuto al grande pubblico italiano tanto quanto Mozart o Tchaikovsky, ma Beethoven lo considerava il suo maestro. Dopo una carriera da oscuro funzionario provinciale nella burocrazia russa, un vero e proprio salto: diventa, al tempo stesso, un alto giudice di corte d’assise, un poeta e romanziere famoso (tra i primi autori del romanticismo di grido), ed un musicista apprezzato (la sua opera più nota “Undine” si è vista in forma scenica alcuni anni fa alla Filarmonica romana). Muore nel 1822, a soli 46 anni , dopo essere stato per lustri travagliato da malattie veneree- figlio di pastore luterano, era, sin dalla giovinezza, un grande frequentatore di bordelli.
Il giallo non riguarda la morte di Hoffmann ma l’ultimo processo penale in cui è chiamato a giudicare: un garzone di bottega ha sgozzando la convivente , uccidendo pure il figlio che lei portava in grembo. Era o non era capace di intendere e volere? E soprattutto perché lo ha fatto? In breve una situazione analoga a quella del film “La parola ai giurati” di Sidney Lumet tratto dal dramma di Reginal Rose. Hoffmann, a poco a poco, entra in simbiosi con l’assassino; mentre i periti lo dichiarano affetto d’infermità mentale, il giudice-scrittore-musicista scopre un messo tra il garzone e la “sua” che il ragazzo ha visto ed ascoltato in teatro. Non sveliamo la fine: è degna di Hitchcock .
Davvero appassionante, invece, “Le parrucche di Hoffmann- un omicidio
Il giallo non riguarda la morte di Hoffmann ma l’ultimo processo penale in cui è chiamato a giudicare: un garzone di bottega ha sgozzando la convivente , uccidendo pure il figlio che lei portava in grembo. Era o non era capace di intendere e volere? E soprattutto perché lo ha fatto? In breve una situazione analoga a quella del film “La parola ai giurati” di Sidney Lumet tratto dal dramma di Reginal Rose. Hoffmann, a poco a poco, entra in simbiosi con l’assassino; mentre i periti lo dichiarano affetto d’infermità mentale, il giudice-scrittore-musicista scopre un messo tra il garzone e la “sua”
ROMA CAPITALE DIGITALE UNA CARTA PER IL SUD Il Tempo 27 luglio
C’è una linea rossa tra la posizione tenuta da Il Tempo da circa due lustri sul futuro di Roma ed il dibattito in corso nel Paese sullo sviluppo del Mezzogiorno. E’ una linea rossa così sottile che non è quasi apparsa nelle discussioni di queste settimane. Eppure è così forte che dalle misure specifiche per dare ad essa contenuto dipende l’avvenire sia di Roma sia delle aree del Mezzogiorno. E’ una linea di cui alcuni esponenti politici hanno consapevolezza da tempo: ricordo, ad esempio, conversazioni avute circa cinque anni fa con l’attuale Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio incaricato di questi temi il quale, all’epoca, svolgeva funzioni analoghe a Via Venti Settembre ed ha conoscenze professionali specifiche del comparto.
In breve, come ribadito di recente, dal Presidente dell’unione degli industriali e delle imprese di Roma, Attilio Regina, il futuro della città e del suo hinterland consiste nel diventare il motore della digitalizzazione del Paese: ha le risorse umane (le università, i centri di ricerca), il capitale sociale (la rete ormai estesasi tra università, centri di ricerca, dicasteri ed aziende), ma necessità di un patto tra produttori a cui nessuno può sottrarsi (neanche la Cgil) se non vuole diventare freno alla ripresa dalla recessione ed allo sviluppo di lungo periodo. Il Tempo sostiene tesi analoghe non in base ad intuizioni ma in linea con lo studio condotto dalla Fondazione Ugo Bordoni (Fub) sul digitale terrestre in Italia nel 2002-2003, le cui conclusioni essenziali sono state pubblicate in un libro (“Valutazione in Azione”, F. Angeli) pubblicato nel 2005. Tale linea è stata sostenuta a pieno dal “Rapporto Marzano” sul futuro della capitale della primavera 2009. Ed era centrale al Pico (programma per l’innovazione , competitività e sviluppo) prodotto nel 2005 dal Dipartimento delle Politiche Comunitarie.
Riassumere le analisi di questi lavori e ripeterne gli argomenti equivarrebbe alla scoperta dall’acqua calda. I due elementi nuovi sono il “patto tra produttori” e la riaffermazione dei nessi con lo sviluppo del Sud. Il “patto” è diventato indispensabile per sciogliere i troppi nodi (spesso meramente amministrativi quali i conflitti di competenze tra amministrazioni dello Stato, Regioni e Comune) rimasti in sospeso e dare un impulso effettivo ed efficace a fare diventare Roma capitale digitale dell’Italia ed, in una prospettiva di più lungo periodo, del Mediterraneo. I nessi con lo sviluppo del Sud sono documentati non solamente dalla matrice di contabilità sociale dell’Italia (quale rilevata dall’Istat e quale approfondita dalla Fub) ma anche e soprattutto dalla rete di rapporti con le università ed i centri di ricerca meridionali (specialmente delle Isole). Ho avuto esperienze di insegnamento a Palermo ed organizzato corsi su questi temi alla sede di Acireale della Scuola superiore della pubblica amministrazione (Sspa) e sono stato testimone dello crescita di una generazione di ingenieri-economisti (di prevalenza di genere femminile) particolarmente versato in queste materie. E’ la carta su cui giocare per lo sviluppo di tutto il Paese.
In breve, come ribadito di recente, dal Presidente dell’unione degli industriali e delle imprese di Roma, Attilio Regina, il futuro della città e del suo hinterland consiste nel diventare il motore della digitalizzazione del Paese: ha le risorse umane (le università, i centri di ricerca), il capitale sociale (la rete ormai estesasi tra università, centri di ricerca, dicasteri ed aziende), ma necessità di un patto tra produttori a cui nessuno può sottrarsi (neanche la Cgil) se non vuole diventare freno alla ripresa dalla recessione ed allo sviluppo di lungo periodo. Il Tempo sostiene tesi analoghe non in base ad intuizioni ma in linea con lo studio condotto dalla Fondazione Ugo Bordoni (Fub) sul digitale terrestre in Italia nel 2002-2003, le cui conclusioni essenziali sono state pubblicate in un libro (“Valutazione in Azione”, F. Angeli) pubblicato nel 2005. Tale linea è stata sostenuta a pieno dal “Rapporto Marzano” sul futuro della capitale della primavera 2009. Ed era centrale al Pico (programma per l’innovazione , competitività e sviluppo) prodotto nel 2005 dal Dipartimento delle Politiche Comunitarie.
Riassumere le analisi di questi lavori e ripeterne gli argomenti equivarrebbe alla scoperta dall’acqua calda. I due elementi nuovi sono il “patto tra produttori” e la riaffermazione dei nessi con lo sviluppo del Sud. Il “patto” è diventato indispensabile per sciogliere i troppi nodi (spesso meramente amministrativi quali i conflitti di competenze tra amministrazioni dello Stato, Regioni e Comune) rimasti in sospeso e dare un impulso effettivo ed efficace a fare diventare Roma capitale digitale dell’Italia ed, in una prospettiva di più lungo periodo, del Mediterraneo. I nessi con lo sviluppo del Sud sono documentati non solamente dalla matrice di contabilità sociale dell’Italia (quale rilevata dall’Istat e quale approfondita dalla Fub) ma anche e soprattutto dalla rete di rapporti con le università ed i centri di ricerca meridionali (specialmente delle Isole). Ho avuto esperienze di insegnamento a Palermo ed organizzato corsi su questi temi alla sede di Acireale della Scuola superiore della pubblica amministrazione (Sspa) e sono stato testimone dello crescita di una generazione di ingenieri-economisti (di prevalenza di genere femminile) particolarmente versato in queste materie. E’ la carta su cui giocare per lo sviluppo di tutto il Paese.
Opera / A Macerata gli inganni di “Butterfly” e “Traviata”, Il Velino 27 luglio
Opera / A Macerata gli inganni di “Butterfly” e “Traviata”
Roma, 27 lug (Velino) - Il tema dell’inganno è al centro sia di “Madama Butterfly” che della “Traviata”, le due opere in scena allo Sferisterio Opera Festival di Macerata rispettivamente sino al 7 e all’8 agosto. Nella prima la giovane quindicenne giapponese viene ingannata da un gaglioffo, il tenente Pinkerton. Nella seconda, Violetta inganna, a fin di bene, Alfredo per liberarlo da una relazione ritenuta socialmente sconveniente. “Madama Butterfly” viene sottotitolata “tragedia giapponese in tre atti” di Luigi Illica e Giuseppe Giocosa basata sull’elegante racconto di John Luther Long, letto, però, attraverso gli occhiali del drammone nazional-popolare di David Belasco. Essere considerata una “tragedia”, per di più “giapponese” ed essere eseguita “in tre atti”, è una iattura che perseguita l’opera di Giacomo Puccini, da quando, dopo il tonfo alla prima rappresentazione alla Scala nel febbraio 1904, cominciò, riveduta e corretta, il cammino trionfale nell’edizione presentata a Brescia, molto vicina all’assestamento definitivo nel 1907.
In effetti, nella concezione modernissima di Puccini, molto più innovativa di quanto compreso da Belasco, Illica e Giacosa, nonché da tanti interpreti pure dei giorni nostri, “Butterfly” è, dal punto di vista drammaturgico e musicale, composta da due parti molto distinte. La prima da commedia borghese, molto poco “giapponese”, anzi, cugina delle commedie borghesi di inizio Novecento; la seconda da dramma in cui dimensioni intimistiche acquistano valenza universale, tramite una progressiva scoperta della verità, in delicato equilibrio, quindi, tra Pirandello e Sofocle. Dal contrasto, soprattutto musicale, tra la prima e la seconda parte, nasce la bellezza e la modernità di un’opera spesso invecchiata, negli allestimenti, dall’orientaleggiare “art nouveau” di maniera e dall’intervallo salottiero dopo il coro a bocche chiuse, magnifico nesso tra i due quadri della seconda parte. Sotto molti aspetti, “Butterfly” è sorella di “Jenufa” di Léos Janaceck. Tre settimane prima, nel gennaio 1904, quest’ultima vedeva la luce in un teatrino allestito per l’occasione nella piccolo Brno ed avrebbe dovuto attendere dodici anni prima di essere conosciuta come uno dei capolavori assoluti del Novecento.
Il merito principale dell’esecuzione gustata allo Sferisterio va al direttore Daniele Callegari e al regista Pier Luigi Pizzi. Il primo scava sia nelle notazioni orchestrali da commedia borghese della prima parte, sia in quelle di dramma, al tempo stesso intimista ed universale, della seconda. L’abile scrittura di Puccini, spezzettata (altro accostamento con “Jenufa”) e densa di citazioni orientali e americane, ma al tempo stesso fluida in un flusso orchestrale ininterrotto, viene esaltata a tutto tondo, mantenendo sempre un grande equilibrio con le voci. Altro punto vincente dell’esecuzione è l’avere ripreso il bell’allestimento scenico e l’efficace regia di Pizzi. Siamo in un Giappone visionario alla Lotti, dove vengono utilizzate tutte le opportunità offerte dall’enorme palcoscenico dello Sferisterio, un boccascena di 130 metri. Nell’impianto fisso e nell’astuto gioco di luci e di lanterna magica, la commedia della prima parte e il dramma della seconda si giustappongono perfettamente. In terzo luogo, le voci, importantissime in “Butterfly”, opera che, a pieno titolo, appartiene all’”età d’oro” del teatro in musica.
Raffella Angeletti è una Butterfly di grande classe. Non è la fragile eroina dell’iconografia di maniera, ma una regina che trionfa sia vocalmente (magnifici i legato e la fraseggiatura) sia scenicamente: un vero e proprio gigante rispetto al piccolo mondo dei suoi familiari, del “ricco Yamadori”, del mezzano Goro, del buon burocrate Sharpless e del meschino Pinkerton. Quasi alla sua altezza, senza però raggiungerla, sono solo lo “zio Bonzo” e il ricordo del padre suicida per ordine del Mikado. Il Pinkerton di Massimiliano Pisapia (dimagrito e tale da essere credibile come ufficiale della marina militare Usa all’inizio del Novecento) è un tenore generoso. Ben calibrato lo Sharpless di Claudio Sgura. Una Suzuki affettuosa ed intelligente è Annunziata Vestri. Buoni tutti i numerosi caratteristi e il coro.
Per quanto riguarda la “Traviata”, il regista Massimo Gasparon, pur seguendo scrupolosamente le “indicazioni sceniche” di Verdi, situa la vicende d’amore e morte della cortigiana di lusso Violetta e del giovanotto di provincia Alfredo, in un’epoca che ricorda più Balzac, Baudelaire e Proust che Dumas figlio: si avverte quasi il clima de "La Recherche". In un lungo flashback, nessun dettaglio è banale. Fa discutere, nonostante alcuni errori (troppi movimenti e rumori di scena nel primo e terzo atto), ma è piaciuta al pubblico che alla “prima” l‘ha salutata con ovazioni. Il direttore Michele Mariotti svela un nuovo volto di Verdi nella overture e nella sinfonia, dove accentua il flusso sinfonico accelerando i tempi nei momenti di maggior tensione e dilatandoli liricamente negli altri. Buona qualità, ma non eccezionale, la direzione musicale nel resto dell’opera.
L’allestimento richiede che i due protagonisti sappiano cimentarsi con la scrittura vocale di un Verdi al pieno della maturità, che siano giovani e avvenenti e che siano in grado di recitare con efficacia. Mariella Devia ha 61 anni, ma è ancora una Violetta sensuale nel primo atto, dove affronta coloratura e superacuti senza la minima incertezza, e sempre più dolente nei due successivi. Strappa applausi a scena aperta. Alejandro Roy (Alfredo) ha 32 anni e non ha difficoltà nel calarsi nel ragazzo ingenuo che viene iniziato, progressivamente, al sesso, all’amore, alla compassione e alla tolleranza. Gabriele Viviani (30 anni) ha il ruolo di suo padre, Giorgio. Vocalmente rigoroso e generoso, pur truccato appare troppo giovane per la parte.
(Hans Sachs) 27 lug 2009 09:56
Roma, 27 lug (Velino) - Il tema dell’inganno è al centro sia di “Madama Butterfly” che della “Traviata”, le due opere in scena allo Sferisterio Opera Festival di Macerata rispettivamente sino al 7 e all’8 agosto. Nella prima la giovane quindicenne giapponese viene ingannata da un gaglioffo, il tenente Pinkerton. Nella seconda, Violetta inganna, a fin di bene, Alfredo per liberarlo da una relazione ritenuta socialmente sconveniente. “Madama Butterfly” viene sottotitolata “tragedia giapponese in tre atti” di Luigi Illica e Giuseppe Giocosa basata sull’elegante racconto di John Luther Long, letto, però, attraverso gli occhiali del drammone nazional-popolare di David Belasco. Essere considerata una “tragedia”, per di più “giapponese” ed essere eseguita “in tre atti”, è una iattura che perseguita l’opera di Giacomo Puccini, da quando, dopo il tonfo alla prima rappresentazione alla Scala nel febbraio 1904, cominciò, riveduta e corretta, il cammino trionfale nell’edizione presentata a Brescia, molto vicina all’assestamento definitivo nel 1907.
In effetti, nella concezione modernissima di Puccini, molto più innovativa di quanto compreso da Belasco, Illica e Giacosa, nonché da tanti interpreti pure dei giorni nostri, “Butterfly” è, dal punto di vista drammaturgico e musicale, composta da due parti molto distinte. La prima da commedia borghese, molto poco “giapponese”, anzi, cugina delle commedie borghesi di inizio Novecento; la seconda da dramma in cui dimensioni intimistiche acquistano valenza universale, tramite una progressiva scoperta della verità, in delicato equilibrio, quindi, tra Pirandello e Sofocle. Dal contrasto, soprattutto musicale, tra la prima e la seconda parte, nasce la bellezza e la modernità di un’opera spesso invecchiata, negli allestimenti, dall’orientaleggiare “art nouveau” di maniera e dall’intervallo salottiero dopo il coro a bocche chiuse, magnifico nesso tra i due quadri della seconda parte. Sotto molti aspetti, “Butterfly” è sorella di “Jenufa” di Léos Janaceck. Tre settimane prima, nel gennaio 1904, quest’ultima vedeva la luce in un teatrino allestito per l’occasione nella piccolo Brno ed avrebbe dovuto attendere dodici anni prima di essere conosciuta come uno dei capolavori assoluti del Novecento.
Il merito principale dell’esecuzione gustata allo Sferisterio va al direttore Daniele Callegari e al regista Pier Luigi Pizzi. Il primo scava sia nelle notazioni orchestrali da commedia borghese della prima parte, sia in quelle di dramma, al tempo stesso intimista ed universale, della seconda. L’abile scrittura di Puccini, spezzettata (altro accostamento con “Jenufa”) e densa di citazioni orientali e americane, ma al tempo stesso fluida in un flusso orchestrale ininterrotto, viene esaltata a tutto tondo, mantenendo sempre un grande equilibrio con le voci. Altro punto vincente dell’esecuzione è l’avere ripreso il bell’allestimento scenico e l’efficace regia di Pizzi. Siamo in un Giappone visionario alla Lotti, dove vengono utilizzate tutte le opportunità offerte dall’enorme palcoscenico dello Sferisterio, un boccascena di 130 metri. Nell’impianto fisso e nell’astuto gioco di luci e di lanterna magica, la commedia della prima parte e il dramma della seconda si giustappongono perfettamente. In terzo luogo, le voci, importantissime in “Butterfly”, opera che, a pieno titolo, appartiene all’”età d’oro” del teatro in musica.
Raffella Angeletti è una Butterfly di grande classe. Non è la fragile eroina dell’iconografia di maniera, ma una regina che trionfa sia vocalmente (magnifici i legato e la fraseggiatura) sia scenicamente: un vero e proprio gigante rispetto al piccolo mondo dei suoi familiari, del “ricco Yamadori”, del mezzano Goro, del buon burocrate Sharpless e del meschino Pinkerton. Quasi alla sua altezza, senza però raggiungerla, sono solo lo “zio Bonzo” e il ricordo del padre suicida per ordine del Mikado. Il Pinkerton di Massimiliano Pisapia (dimagrito e tale da essere credibile come ufficiale della marina militare Usa all’inizio del Novecento) è un tenore generoso. Ben calibrato lo Sharpless di Claudio Sgura. Una Suzuki affettuosa ed intelligente è Annunziata Vestri. Buoni tutti i numerosi caratteristi e il coro.
Per quanto riguarda la “Traviata”, il regista Massimo Gasparon, pur seguendo scrupolosamente le “indicazioni sceniche” di Verdi, situa la vicende d’amore e morte della cortigiana di lusso Violetta e del giovanotto di provincia Alfredo, in un’epoca che ricorda più Balzac, Baudelaire e Proust che Dumas figlio: si avverte quasi il clima de "La Recherche". In un lungo flashback, nessun dettaglio è banale. Fa discutere, nonostante alcuni errori (troppi movimenti e rumori di scena nel primo e terzo atto), ma è piaciuta al pubblico che alla “prima” l‘ha salutata con ovazioni. Il direttore Michele Mariotti svela un nuovo volto di Verdi nella overture e nella sinfonia, dove accentua il flusso sinfonico accelerando i tempi nei momenti di maggior tensione e dilatandoli liricamente negli altri. Buona qualità, ma non eccezionale, la direzione musicale nel resto dell’opera.
L’allestimento richiede che i due protagonisti sappiano cimentarsi con la scrittura vocale di un Verdi al pieno della maturità, che siano giovani e avvenenti e che siano in grado di recitare con efficacia. Mariella Devia ha 61 anni, ma è ancora una Violetta sensuale nel primo atto, dove affronta coloratura e superacuti senza la minima incertezza, e sempre più dolente nei due successivi. Strappa applausi a scena aperta. Alejandro Roy (Alfredo) ha 32 anni e non ha difficoltà nel calarsi nel ragazzo ingenuo che viene iniziato, progressivamente, al sesso, all’amore, alla compassione e alla tolleranza. Gabriele Viviani (30 anni) ha il ruolo di suo padre, Giorgio. Vocalmente rigoroso e generoso, pur truccato appare troppo giovane per la parte.
(Hans Sachs) 27 lug 2009 09:56
sabato 25 luglio 2009
Lirica, Il "Don Giovanni" dell'ingano tra zeloti e erodiani
CLT - Lirica, il “Don Giovanni” dell’inganno tra zeloti ed erodiani
Roma, 24 lug (Velino) - A cavallo tra l’ultimo lustro del XX secolo e il primo del XXI, “Don Giovanni” di Lorenzo Da Ponte e Wolfgang A. Mozart, ha soppiantato “Carmen” di Georges Bizet in quanto opera più rappresentata al mondo. Le classifiche non tengono conto delle due rappresentazioni quotidiane offerte a Praga (dove ha avuto la prima il 29 ottobre 1787) in un teatro di marionette con la musica registrata. Con “Don Giovanni” è appena iniziato a Macerata il Festival dello Sferisterio che andrà avanti fino al 9 agosto, con tema unificante “L’inganno” in tutte le sue sfaccettature. L’allestimento, scarno ed essenziale, andrà probabilmente in altri teatri italiani e stranieri la prossima stagione. Il successo del “Don Giovanni”, nella versione del mito drammatizzata e musicata da Da Ponte e da Mozart, dipende dal fatto che il lavoro, nonostante abbia sulle spalle circa 225 anni sulle spalle, rispecchia meglio di altri la tensione tra “zeloti” (ancorati al passato e alle sue regole sia scritte sia implicite) ed “erodiani” (rivolti, invece, verso la modernizzazione). Uno schema del genere è stato suggerito, alcuni anni fa, in un breve saggio, chissà se mai pubblicato, da Antonio Cognata, attuale sovrintendente del Teatro Massimo di Palermo e da Pasquale Lucio Scandizzo dell’università di Roma - Tor Vergata. Lo studio di Cognata e Scandizzo analizza i comportamenti di Don Giovanni e del Commendatore in termini di paradigmi in base alla teoria dei giochi (il “dilemma del prigioniero”) e inquadra il protagonista e il suo deuteragonista in un contesto di analisi economica per giungere a generalizzazioni sui “falchi” e sulle “colombe” come categorie economico-sociali di fronte al cambiamento. Altro punto è l’ineluttabilità che, in una fase di transizione (quasi da die verwandlung della tradizione tedesca), ci sia un agente economico disponibile a fare il “falco” sino alle estreme conseguenze – ossia farsi uccidere - per facilitare l’affermarsi delle nuove regole. Il Don Giovanni e il Commendatore, i “falchi”, devono giungere alla duplice morte (e caduta agli inferi) per fare avanzare la modernizzazione frenata dalle “colombe” di cui Don Ottavio sarebbe lo stereotipo. Tuttavia, mentre “falchi” e “colombe” differiscono in materia di tempi e modi per affrontare il cambiamento, andrebbe presa in considerazione anche un’altra ipotesi: che gli “zeloti” il cambiamento non lo vogliano affatto e che gli “erodiani” siano pronti a recepire habits and rules altrui pur di favorire il cambiamento. Ci sono, dunque, differenze sostanziali tra i due schemi.
La distinzione tra “zeloti” ed “erodiani” viene dai Vangeli ed è stata utilizzata da Luciano Pellicani in analisi sociologiche stimolanti. Non funziona per tutte le interpretazioni del mito di Don Giovanni. Non per quelle di Tirso da Molina o di José Zorilla, due “moralisti” bigotti i quali mettevano a nudo “la malvagità punita” del “burlador”. Non per quella di Molière, “immoralista”, invece, per eccellenza. Forse neppure per quella di Da Ponte, se privata della musica di Mozart. Nella vita privata era un abate “immoralista ben temperato” e sempre in bolletta che versificò una “contaminatio” delle più note versioni precedenti, quando buttò giù in poche settimane il testo per Mozart con intenzioni vagamente didascaliche. Vecchio e malato, ma tornato a Santa Romana Chiesa e ai Sacramenti, scelse il “Don Giovanni” e non il suo vero capolavoro scenico l’“immoralissimo” “Così fa tutte”) da rappresentare a New York dove era approdato. Lo schema esplicativo degli “zeloti” e degli “erodiani” è, però, appropriato per interpretazioni più recenti del mito del Don Giovanni, da quella di Kierkegaard a quelle elaborate nel periodo tra le due guerre mondiali all’insegna del verwandlung per eccellenza.
Dato a Da Ponte quel che è di Da Ponte, cerchiamo di vedere come gli aspetti più strettamente mozartiani possono essere esaminati con la “cassetta degli attrezzi” dell’analisi economica. “Don Giovanni” ha specificità musicali che lo rendono molto più pregnante del libretto (immaginiamone cosa ne avrebbero fatto un Piccini, un Paisiello o un Salieri…). In primo luogo, sin dalla ouverture avvertiamo che siamo di fronte a qualcosa che è ben diverso da un’“opera buffa” o da un “dramma giocoso”: dalle prime misure si avverte il fuoco dell’inferno in “fa” (che, tre ore più tardi, concluderà l’opera); il quadro è cosmico. In secondo luogo, il trattamento musicale del protagonista non ne fa né una caricatura del libertino quale tracciata da Tirso de Molina e José Zorrilla, né un proto-illuminista molieriano. La note di Mozart, avvolgono Don Giovanni in quel clima luciferino che ritroveremo, ad esempio, alcuni lustri più tardi nell’“opera nazionale” tedesca per sottolineare il carattere demoniaco di Kaspar del “Der Freischütz” oppure, un secolo più tardi, della Nutrice de “Die Frau ohne schatten”. È luciferino lo stesso brindisi alla libertà del “finale primo”, giustapposto, simmetricamente, alla scena, pure essa luciferina, con il Commendatore nel “finale secondo”. In maniera luciferina, né Don Giovanni né il Commendatore hanno una cavatina (aria di ingresso nelle convenzioni operistiche dell’epoca) o cabalette e legati. (segue)
Proprio questo aspetto luciferino fa sì che l’interazione “economica” tra Don Giovanni e il Commendatore non sia assimilabile a quella di due giocatori di pari livello (soprattutto sotto il profilo delle informazioni) in un “dilemma del prigioniero”. È, invece, analoga a quello del primo rispetto al secondo giocatore in un “gioco ad ultimatum”: viene, perciò, caratterizzata da dissonanze e da anticipazioni cromatiche. Don Giovanni vuole tornare all’inferno da dove è arrivato, come ci viene detto dalle prime note dell’ouverture. Il Commendatore è uno strumento per compiere questa marcia, più efficace dei tentativi di seduzione tutti “in bianco”, come esplicitato dai “diminuendi” che chiudono ciascuno di loro. Pure il Commendatore appartiene, come il Don, al mondo musicale della futura opera nazionale tedesca, (si pensi a “Die Vampyr” di Manscher che l’autunno scorso è stato messo in scena, per la prima volta in Italia, a Bologna) con ottave che tendono verso bassi mai sperimentati prima di allora. Anch’egli è segnato dal destino sin dal “do” con cui appare in scena, costretto al “gioco a ultimatum” fin dall’inizio dell’opera. Inoltre, il “gioco a ultimatum” viene ripetuto con inversione dei ruoli (il Commendatore in quello del primo giocatore e il Don in quello del secondo), nella sequenza finale dell’opera. La “teoria dei giochi” aiuta a comprendere il contesto istituzionale-musicale in cui operano Don Giovanni e il Commendatore: un contesto proteso verso quella che sarebbe diventata l’opera tedesca sino ai suoi sviluppi nel XX secolo. È la tensione verso il nuovo degli “erodiani” che sovente soccombono proprio per eccesso di modernizzazione.
È un contesto molto differente da quello in cui vivono gli altri personaggi dell’opera: il mondo musicale dell’opera “all’italiana” fatto di cavatine, arie, cabalette, duetti, terzetti e concertati. Regole ben definite che assicurano certezze, informazioni simmetriche e costi di transazione relativamente bassi, e in cui il pay-off, pur se limitato, conviene a tutti, da “utilitarismo delle regole” un po’ casareccio e pacioccone. Si guardi, in particolare, a Don Ottavio, un baritonorino lirico, caricatura dei tenori - Mozart come più tardi Strauss non li ha mai amati - di “Idomeneo”, di “Così fan tutte” e dello stesso “Die Entführung”. Musicalmente, i due mondi, restano paralleli, distinti e distanti: si incontrano solo nel lungo finale primo. Non c’è evoluzione, con l’“olocausto” di uno dei “falchi”, per schiudere una società di “colombe”. Con grande raffinatezza, sono due mondi in “re”: re minore quello luciferino, ma modernizzatore, del Don e del Commendatore; re maggiore quello perbenista di Don Ottavio e del resto della brigata (Leporello, Donna Anna, Donna Elvira, Masetto, Zerlina e compagnia cantante).
D’altronde, Mozart non avverte il verwandlung socio-politico, quindi economico, in atto negli anni in cui componeva “Don Giovanni”. Gliene viene offerta l’occasione almeno in due libretti – “Le nozze di Figaro” e “La clemenza di Tito”, ma si rifiuta di coglierla. Tramuta il primo in una commedia umana e il secondo in inno alla quality of mercy. È consapevole del verwandlung in preparazione nel teatro lirico e lo rappresenta in pieno nel “Don Giovanni”, tenendo separati i due mondi. C’è un’analogia con il capolavoro estremo di Richard Wagner, “Parsifal”, altra opera tesa verso l’innovazione, verso la stessa dodecafonia, ma intrisa dei ricordi pure della polifonia di Palestrina: il mondo rigorosamente diatonico del Graal contrapposto a quello rigorosamente cromatico del Castello di Klingsor con Kundry in funzione di collegamento e di cerniera tra i due.
Cosa c’è di questo impianto nel lavoro che ha debuttato a Macerata? La regia è di Pier Luigi Pizzi, che proprio con “Don Giovanni”, circa 30 anni fa cominciò la propria carriera di regista, aggiungendola a quella di scenografo, costumista e attore che avevano contrassegnato la prima fase della sua vita professionale. In una scatola scenica fortemente prospettica, fondali pareti e soffitti a specchio rimandano l'immagine dei personaggi e si consumano gli inganni e le illusioni dei protagonisti. Il Don si prende gioco consapevolmente della morte, ma non può sfuggire alla dannazione. Tra questi specchi i personaggi si vestono e si svestono, come nella scena iniziale in cui il protagonista (Ildebrando D’Arcangelo) si spoglia nella sua alcova. In breve, a una lettura superficiale, la regia sembra ispirata a erotismo, seppur di classe, in quanto l’attrezzeria ha un unico elemento: un grande letto sotto le cui lenzuola tutti, in certe scene anche il Don e Leporello, finiscono. A una lettura più approfondita, la regia non pone l’accento sui solo aspetti sessuali o principalmente su di essi, ma il sottostante è impregnato dal “gioco” a ultimatum fra “falchi” e “colombe” in un contesto socio-politico di verwandlung. Ciò spiega anche i nudi nella scena finale e la forte carica trasgressiva di molti momenti: il Don si contrappone agli habits and rules e per questo soccombe. Ma pure gli habits and rules saranno costretti a cambiare.
A questa interpretazione corrispondono i cantanti-attori, tutti con le physique du role e tutti anche abili ginnasti, date le capriole a cui li costringe Pizzi: Ildebrando D'Arcangelo (un “Don” quasi più combattente che seduttore), Carmela Remigio (una Donna Elvira appassionate e delusa), Myrtò Papatanasiu (una Donna Anna agguerrita), Andrea Concetti (un Leporello ambiguo), Marlin Miller (un ottimo Don Ottavio molto maschio, non il solito tenore cappone), William Corrò (un Masetto iperingannato), Manuela Risceglie (una Zerlina molto moquette). Purtroppo, la direzione musicale di Riccardo Frizza lascia molto a desiderare, con tempi approssimativi sin dalla magnifica sinfonia, e priva di disciplina nei confronti dei cantati a volte portati a strillare. È un punto su cui riflettere in vista della tournée dello spettacolo.
Roma, 24 lug (Velino) - A cavallo tra l’ultimo lustro del XX secolo e il primo del XXI, “Don Giovanni” di Lorenzo Da Ponte e Wolfgang A. Mozart, ha soppiantato “Carmen” di Georges Bizet in quanto opera più rappresentata al mondo. Le classifiche non tengono conto delle due rappresentazioni quotidiane offerte a Praga (dove ha avuto la prima il 29 ottobre 1787) in un teatro di marionette con la musica registrata. Con “Don Giovanni” è appena iniziato a Macerata il Festival dello Sferisterio che andrà avanti fino al 9 agosto, con tema unificante “L’inganno” in tutte le sue sfaccettature. L’allestimento, scarno ed essenziale, andrà probabilmente in altri teatri italiani e stranieri la prossima stagione. Il successo del “Don Giovanni”, nella versione del mito drammatizzata e musicata da Da Ponte e da Mozart, dipende dal fatto che il lavoro, nonostante abbia sulle spalle circa 225 anni sulle spalle, rispecchia meglio di altri la tensione tra “zeloti” (ancorati al passato e alle sue regole sia scritte sia implicite) ed “erodiani” (rivolti, invece, verso la modernizzazione). Uno schema del genere è stato suggerito, alcuni anni fa, in un breve saggio, chissà se mai pubblicato, da Antonio Cognata, attuale sovrintendente del Teatro Massimo di Palermo e da Pasquale Lucio Scandizzo dell’università di Roma - Tor Vergata. Lo studio di Cognata e Scandizzo analizza i comportamenti di Don Giovanni e del Commendatore in termini di paradigmi in base alla teoria dei giochi (il “dilemma del prigioniero”) e inquadra il protagonista e il suo deuteragonista in un contesto di analisi economica per giungere a generalizzazioni sui “falchi” e sulle “colombe” come categorie economico-sociali di fronte al cambiamento. Altro punto è l’ineluttabilità che, in una fase di transizione (quasi da die verwandlung della tradizione tedesca), ci sia un agente economico disponibile a fare il “falco” sino alle estreme conseguenze – ossia farsi uccidere - per facilitare l’affermarsi delle nuove regole. Il Don Giovanni e il Commendatore, i “falchi”, devono giungere alla duplice morte (e caduta agli inferi) per fare avanzare la modernizzazione frenata dalle “colombe” di cui Don Ottavio sarebbe lo stereotipo. Tuttavia, mentre “falchi” e “colombe” differiscono in materia di tempi e modi per affrontare il cambiamento, andrebbe presa in considerazione anche un’altra ipotesi: che gli “zeloti” il cambiamento non lo vogliano affatto e che gli “erodiani” siano pronti a recepire habits and rules altrui pur di favorire il cambiamento. Ci sono, dunque, differenze sostanziali tra i due schemi.
La distinzione tra “zeloti” ed “erodiani” viene dai Vangeli ed è stata utilizzata da Luciano Pellicani in analisi sociologiche stimolanti. Non funziona per tutte le interpretazioni del mito di Don Giovanni. Non per quelle di Tirso da Molina o di José Zorilla, due “moralisti” bigotti i quali mettevano a nudo “la malvagità punita” del “burlador”. Non per quella di Molière, “immoralista”, invece, per eccellenza. Forse neppure per quella di Da Ponte, se privata della musica di Mozart. Nella vita privata era un abate “immoralista ben temperato” e sempre in bolletta che versificò una “contaminatio” delle più note versioni precedenti, quando buttò giù in poche settimane il testo per Mozart con intenzioni vagamente didascaliche. Vecchio e malato, ma tornato a Santa Romana Chiesa e ai Sacramenti, scelse il “Don Giovanni” e non il suo vero capolavoro scenico l’“immoralissimo” “Così fa tutte”) da rappresentare a New York dove era approdato. Lo schema esplicativo degli “zeloti” e degli “erodiani” è, però, appropriato per interpretazioni più recenti del mito del Don Giovanni, da quella di Kierkegaard a quelle elaborate nel periodo tra le due guerre mondiali all’insegna del verwandlung per eccellenza.
Dato a Da Ponte quel che è di Da Ponte, cerchiamo di vedere come gli aspetti più strettamente mozartiani possono essere esaminati con la “cassetta degli attrezzi” dell’analisi economica. “Don Giovanni” ha specificità musicali che lo rendono molto più pregnante del libretto (immaginiamone cosa ne avrebbero fatto un Piccini, un Paisiello o un Salieri…). In primo luogo, sin dalla ouverture avvertiamo che siamo di fronte a qualcosa che è ben diverso da un’“opera buffa” o da un “dramma giocoso”: dalle prime misure si avverte il fuoco dell’inferno in “fa” (che, tre ore più tardi, concluderà l’opera); il quadro è cosmico. In secondo luogo, il trattamento musicale del protagonista non ne fa né una caricatura del libertino quale tracciata da Tirso de Molina e José Zorrilla, né un proto-illuminista molieriano. La note di Mozart, avvolgono Don Giovanni in quel clima luciferino che ritroveremo, ad esempio, alcuni lustri più tardi nell’“opera nazionale” tedesca per sottolineare il carattere demoniaco di Kaspar del “Der Freischütz” oppure, un secolo più tardi, della Nutrice de “Die Frau ohne schatten”. È luciferino lo stesso brindisi alla libertà del “finale primo”, giustapposto, simmetricamente, alla scena, pure essa luciferina, con il Commendatore nel “finale secondo”. In maniera luciferina, né Don Giovanni né il Commendatore hanno una cavatina (aria di ingresso nelle convenzioni operistiche dell’epoca) o cabalette e legati. (segue)
Proprio questo aspetto luciferino fa sì che l’interazione “economica” tra Don Giovanni e il Commendatore non sia assimilabile a quella di due giocatori di pari livello (soprattutto sotto il profilo delle informazioni) in un “dilemma del prigioniero”. È, invece, analoga a quello del primo rispetto al secondo giocatore in un “gioco ad ultimatum”: viene, perciò, caratterizzata da dissonanze e da anticipazioni cromatiche. Don Giovanni vuole tornare all’inferno da dove è arrivato, come ci viene detto dalle prime note dell’ouverture. Il Commendatore è uno strumento per compiere questa marcia, più efficace dei tentativi di seduzione tutti “in bianco”, come esplicitato dai “diminuendi” che chiudono ciascuno di loro. Pure il Commendatore appartiene, come il Don, al mondo musicale della futura opera nazionale tedesca, (si pensi a “Die Vampyr” di Manscher che l’autunno scorso è stato messo in scena, per la prima volta in Italia, a Bologna) con ottave che tendono verso bassi mai sperimentati prima di allora. Anch’egli è segnato dal destino sin dal “do” con cui appare in scena, costretto al “gioco a ultimatum” fin dall’inizio dell’opera. Inoltre, il “gioco a ultimatum” viene ripetuto con inversione dei ruoli (il Commendatore in quello del primo giocatore e il Don in quello del secondo), nella sequenza finale dell’opera. La “teoria dei giochi” aiuta a comprendere il contesto istituzionale-musicale in cui operano Don Giovanni e il Commendatore: un contesto proteso verso quella che sarebbe diventata l’opera tedesca sino ai suoi sviluppi nel XX secolo. È la tensione verso il nuovo degli “erodiani” che sovente soccombono proprio per eccesso di modernizzazione.
È un contesto molto differente da quello in cui vivono gli altri personaggi dell’opera: il mondo musicale dell’opera “all’italiana” fatto di cavatine, arie, cabalette, duetti, terzetti e concertati. Regole ben definite che assicurano certezze, informazioni simmetriche e costi di transazione relativamente bassi, e in cui il pay-off, pur se limitato, conviene a tutti, da “utilitarismo delle regole” un po’ casareccio e pacioccone. Si guardi, in particolare, a Don Ottavio, un baritonorino lirico, caricatura dei tenori - Mozart come più tardi Strauss non li ha mai amati - di “Idomeneo”, di “Così fan tutte” e dello stesso “Die Entführung”. Musicalmente, i due mondi, restano paralleli, distinti e distanti: si incontrano solo nel lungo finale primo. Non c’è evoluzione, con l’“olocausto” di uno dei “falchi”, per schiudere una società di “colombe”. Con grande raffinatezza, sono due mondi in “re”: re minore quello luciferino, ma modernizzatore, del Don e del Commendatore; re maggiore quello perbenista di Don Ottavio e del resto della brigata (Leporello, Donna Anna, Donna Elvira, Masetto, Zerlina e compagnia cantante).
D’altronde, Mozart non avverte il verwandlung socio-politico, quindi economico, in atto negli anni in cui componeva “Don Giovanni”. Gliene viene offerta l’occasione almeno in due libretti – “Le nozze di Figaro” e “La clemenza di Tito”, ma si rifiuta di coglierla. Tramuta il primo in una commedia umana e il secondo in inno alla quality of mercy. È consapevole del verwandlung in preparazione nel teatro lirico e lo rappresenta in pieno nel “Don Giovanni”, tenendo separati i due mondi. C’è un’analogia con il capolavoro estremo di Richard Wagner, “Parsifal”, altra opera tesa verso l’innovazione, verso la stessa dodecafonia, ma intrisa dei ricordi pure della polifonia di Palestrina: il mondo rigorosamente diatonico del Graal contrapposto a quello rigorosamente cromatico del Castello di Klingsor con Kundry in funzione di collegamento e di cerniera tra i due.
Cosa c’è di questo impianto nel lavoro che ha debuttato a Macerata? La regia è di Pier Luigi Pizzi, che proprio con “Don Giovanni”, circa 30 anni fa cominciò la propria carriera di regista, aggiungendola a quella di scenografo, costumista e attore che avevano contrassegnato la prima fase della sua vita professionale. In una scatola scenica fortemente prospettica, fondali pareti e soffitti a specchio rimandano l'immagine dei personaggi e si consumano gli inganni e le illusioni dei protagonisti. Il Don si prende gioco consapevolmente della morte, ma non può sfuggire alla dannazione. Tra questi specchi i personaggi si vestono e si svestono, come nella scena iniziale in cui il protagonista (Ildebrando D’Arcangelo) si spoglia nella sua alcova. In breve, a una lettura superficiale, la regia sembra ispirata a erotismo, seppur di classe, in quanto l’attrezzeria ha un unico elemento: un grande letto sotto le cui lenzuola tutti, in certe scene anche il Don e Leporello, finiscono. A una lettura più approfondita, la regia non pone l’accento sui solo aspetti sessuali o principalmente su di essi, ma il sottostante è impregnato dal “gioco” a ultimatum fra “falchi” e “colombe” in un contesto socio-politico di verwandlung. Ciò spiega anche i nudi nella scena finale e la forte carica trasgressiva di molti momenti: il Don si contrappone agli habits and rules e per questo soccombe. Ma pure gli habits and rules saranno costretti a cambiare.
A questa interpretazione corrispondono i cantanti-attori, tutti con le physique du role e tutti anche abili ginnasti, date le capriole a cui li costringe Pizzi: Ildebrando D'Arcangelo (un “Don” quasi più combattente che seduttore), Carmela Remigio (una Donna Elvira appassionate e delusa), Myrtò Papatanasiu (una Donna Anna agguerrita), Andrea Concetti (un Leporello ambiguo), Marlin Miller (un ottimo Don Ottavio molto maschio, non il solito tenore cappone), William Corrò (un Masetto iperingannato), Manuela Risceglie (una Zerlina molto moquette). Purtroppo, la direzione musicale di Riccardo Frizza lascia molto a desiderare, con tempi approssimativi sin dalla magnifica sinfonia, e priva di disciplina nei confronti dei cantati a volte portati a strillare. È un punto su cui riflettere in vista della tournée dello spettacolo.
giovedì 23 luglio 2009
IL MAXI-DUOPOLIO NON E’ POI COSI’ LONTANO Il Tempo 23 luglio
IL MAXI-DUOPOLIO NON E’ POI COSI’ LONTANO
Il riassetto della finanza internazionale per il mondo del “dopo-crisi” sta prendendo forma più rapidamente del previsto e prima ancora che al prossimo G20 in programma a Pittsburgh si facciano concreti passi avanti verso i nuovi global standard delineati poche settimane fa nel Lecce Framework (dal nome della città dove si è tenuta la riunione dei Ministri Economici e Finanziari dei maggiori Paesi industrializzati) ed al supervertice de L’Aquila.
Unicamente pochi addetti ai lavori si sono accorti del significato delle relazioni sull’andamento nel secondo trimestre 2009 presentate dalle maggiori finanziarie americane a metà luglio. Il quadro che ne risulta è che la Wall Street del “dopo-crisi” è dominata da due finanziarie: Goldman Sachs e JP Morgan, le sole i cui conti indicano utili non solamente elevati nel trimestre ma nel medio e lungo periodo. Occorre valutare con cura le trimestrali pubblicate il 17 luglio da Bank of America e Citigroup: sono molto positive, a ragione, però, non di determinanti strutturali, ma di alcuni movimenti valutari e sopratutto di operazioni una tantum (la vendita della China Costruction Company da parte della Bank of America e da un paio di colpi andati a buon segno dalla Smith-Barney, ora poco più di una divisione della Citigroup). Sono aspetti tecnici poco notati in Italia dalla stessa stampa specializzata, ma densi di significato politico.
Al di la dei dati di bilancio, il quadro che ne emerge è una Wall Street dominata da un maxi duopolio finanziario, a ragione del fallimento di Lehman Brothers, della ritirata di Morgan Stanley e della fine virtuale di Merrill Lynch e di altre finanziarie di peso sino a due anni fa. Lo sottolinea con acume il Premio Nobel Paul Krugman in un suo “blog” datato 19 luglio in cui sostiene che questa evoluzione “è buona” per Goldman Sachs e per JP Morgan ma “è cattiva” per gli Usa.
E per l’Europa e per l’Italia cosa vuol dire? Il duopolio finanziario nella maggiore piazza mondiale – dopo il drastico ridimensionamento di quella di Londra e le lacrime in cui versa quella di Tokio- sembra molto lontano. Ma ha effetti ed implicazioni molto vicini. I principali sono i seguenti: a) la teoria della politica economica “positiva” (ossia di come vengono prese le decisioni di politica economica) insegna i nuovi “global standard” avranno bisogno della benedizione del duopolio prima ancora che dei Governi; b) gli intrecci internazionali tra banche e finanziarie dimostrano (si leggano gli atti della sessione dedicata al tema all’ultimo congresso scientifico dell’American Economic Association) che il duopolio detta regole ai nostri istituti (è una determinante del “soffocamento” delle piccole e medie imprese a cui pochi giornalisti economici, pur prestandogli attenzione, dedicano inchieste); c) in barba alla pubblicistica su un’economia internazionale sempre più “multipolare”, il duopolio a Wall Street contiene il rischio che gli spazi si restringano. Per tutti.
L’Italia, da sola, può fare molto poco. A ragione del ruolo che ha nel G8-G20, ha, però, più degli altri Paesi il diritto-dovere di porre il problema. E d’indicare soluzioni.
Il riassetto della finanza internazionale per il mondo del “dopo-crisi” sta prendendo forma più rapidamente del previsto e prima ancora che al prossimo G20 in programma a Pittsburgh si facciano concreti passi avanti verso i nuovi global standard delineati poche settimane fa nel Lecce Framework (dal nome della città dove si è tenuta la riunione dei Ministri Economici e Finanziari dei maggiori Paesi industrializzati) ed al supervertice de L’Aquila.
Unicamente pochi addetti ai lavori si sono accorti del significato delle relazioni sull’andamento nel secondo trimestre 2009 presentate dalle maggiori finanziarie americane a metà luglio. Il quadro che ne risulta è che la Wall Street del “dopo-crisi” è dominata da due finanziarie: Goldman Sachs e JP Morgan, le sole i cui conti indicano utili non solamente elevati nel trimestre ma nel medio e lungo periodo. Occorre valutare con cura le trimestrali pubblicate il 17 luglio da Bank of America e Citigroup: sono molto positive, a ragione, però, non di determinanti strutturali, ma di alcuni movimenti valutari e sopratutto di operazioni una tantum (la vendita della China Costruction Company da parte della Bank of America e da un paio di colpi andati a buon segno dalla Smith-Barney, ora poco più di una divisione della Citigroup). Sono aspetti tecnici poco notati in Italia dalla stessa stampa specializzata, ma densi di significato politico.
Al di la dei dati di bilancio, il quadro che ne emerge è una Wall Street dominata da un maxi duopolio finanziario, a ragione del fallimento di Lehman Brothers, della ritirata di Morgan Stanley e della fine virtuale di Merrill Lynch e di altre finanziarie di peso sino a due anni fa. Lo sottolinea con acume il Premio Nobel Paul Krugman in un suo “blog” datato 19 luglio in cui sostiene che questa evoluzione “è buona” per Goldman Sachs e per JP Morgan ma “è cattiva” per gli Usa.
E per l’Europa e per l’Italia cosa vuol dire? Il duopolio finanziario nella maggiore piazza mondiale – dopo il drastico ridimensionamento di quella di Londra e le lacrime in cui versa quella di Tokio- sembra molto lontano. Ma ha effetti ed implicazioni molto vicini. I principali sono i seguenti: a) la teoria della politica economica “positiva” (ossia di come vengono prese le decisioni di politica economica) insegna i nuovi “global standard” avranno bisogno della benedizione del duopolio prima ancora che dei Governi; b) gli intrecci internazionali tra banche e finanziarie dimostrano (si leggano gli atti della sessione dedicata al tema all’ultimo congresso scientifico dell’American Economic Association) che il duopolio detta regole ai nostri istituti (è una determinante del “soffocamento” delle piccole e medie imprese a cui pochi giornalisti economici, pur prestandogli attenzione, dedicano inchieste); c) in barba alla pubblicistica su un’economia internazionale sempre più “multipolare”, il duopolio a Wall Street contiene il rischio che gli spazi si restringano. Per tutti.
L’Italia, da sola, può fare molto poco. A ragione del ruolo che ha nel G8-G20, ha, però, più degli altri Paesi il diritto-dovere di porre il problema. E d’indicare soluzioni.
martedì 21 luglio 2009
Tosca at the Baths of Caracalla, Rome Opera Today July 21
21 Jul 2009
Tosca at the Baths of Caracalla, Rome
Tosca is the quintessential Roman opera, with a plot located in three infamous landmarks of Rome, its 1900 premiere in Rome was bound to be enormously successful.
Giacomo Puccini: Tosca
Floria Tosca: Micaela Carosi (14, 16, 21, 4, 6) / Virginia Todisco (15, 17, 22, 30); Cavaradosi: Fabio Armiliato (14, 16, 21, 4, 6) / Valter Borin (15, 17, 22, 30); Scarpia Giorgio Surian (14, 16, 21, 4, 6) / Giovanni Meoni (15, 17, 22, 30); Sagrestano: Roberto Abbondanza (14, 16, 17, 21, 30) / Carlo Di Cristoforo (15, 22, 4, 6); Angelotti: Alessandro Svab; Spoletta: Mario Bolognesi; Sciarrone: Alessandro Battiato (14, 15, 16, 17, 21) / Antonio Taschini (22, 4) / Riccardo Cortellacci (30, 6); Carceriere: Angelo Nardinocchi (14, 15, 16, 17, 21, 22, 30) / Riccardo Coltellacci (4) / Antonio Taschini (6); Pastorello: Marta Pacifici. Coro di Voci Bianche di Roma dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia e del Teatro dell'Opera. Orchestra e Coro del Teatro Dell’opera. Nuovo allestimento. Maestro concertatore e Direttore: Paolo Olmi. Maestro del Coro: Andrea Giorgi. Regia: Franco Ripa di Meana. Scene: Edoardo Sanchi. Costumi: Silvia Aymonino. Luci: Agostino Angelini.
Above: Scene from Tosca
All photos courtesy of Teatro dell'Opera di Roma
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In 2008 the Teatro dell’Opera staged thirteen performances of Franco Zeffirelli’s new elaborate staging. In the past twenty years, the Teatro dell’Opera touted productions nearly every other season of Tosca designed by distinguished directors such as Mauro Bolognini and Guiliano Montaldo. The last five seasons of the small “Piccolo Lirico” alone has launched 300 performances of Tosca.
This new adaptation of Tosca is performed in the open theater of the Baths of Caracalla, a magnificent monument. Heritage restrictions do not allow performances within the colossal ruins. Productions, therefore, are staged on a platform in front. Consequently, this limits set changes between the three acts and necessitates minimal changes in props and costumes.
Eduardo Sanchi surrounds the stage with a black-and-white aerial view of modern Rome’s city center. Red circles mark the main locations of the opera: Sant’Andrea della Valle Church, Castel Sant’Angelo and a very red Tiber crossing the stage. This dramatic set serves as the perfect vehicle for the new concept of Tosca. This is not the “blood and guts” drama, as the late Paul Hume wrote when he was the music editor for the Washington Post.
There are plenty of blood and guts, of course, as well as passion and erotic impulses. Yet the focal point of the opera is a new and different one. The staging has the city center crowded with inquisitive priests and clerics throughout the performance, where the oppressively ubiquitous clergy, to paraphrase Anais Nin, are like a vast lead roof which covers the world. Cavaradossi is tortured by the cassock-wearing Scarpia, here a bishop who desperately craves sadistic sex, although it seems that he might be enjoying some young Swiss guard as well as Tosca. There is also one final surprise—Tosca does not jump off the Castel Sant’Angelo’s tower into the river. Instead she drowns in the red Tiber embracing Cavaradossi’s body.
Director Franco Ripa di Meana has a literary basis for these changes. An exchange of letters among Puccini, Illica, Giacosa, and Sardou have been unearthed, revealing an intent of changing the end with a mad scene, Tosca killing Scarpia in a state of madness and then killing herself. Yet Sardou was adamant about the ending, though he had only an approximate idea of Rome, and no knowledge that the Tiber did not flow under Castel Sant’Angelo. In short, the production is strongly anti-clerical, a bit weird, but brilliant!
A funny accident took place on the opening night (July 14th) at the beginning of the third act—a live sheep bleated onstage, serving as counterpoint to the shepherd’s day break song, and a moment of unwanted comic relief in an otherwise tense blood-and-guts, passion-and-sex musical drama.
The usual disclaimer of the difficulties of performing outdoors must be made. And it is to be added that across the street a major political demonstration had been organized. Luckily, they were quite good mannered and did not make excessive noise. The audience could sense that the conductor, Paolo Olmi, was very professional and the orchestra was well familiar with the score.
The star of the evening was Fabio Armiliato singing Cavaradossi for the 134th time. His clear timbre, sensual legato, perfect phrasing, physique and skillful acting made him perfect for the role. Michaela Carosi performed Tosca well with a big voice. But diction was poor and, moreover, her second and third act costuming (early 20th century aristocratic gowns) did not suit her well. Giorgio Surian was an effective Scarpia. Roberto Abbondanza deserves special recognition for his interpretation of the Sacrestan, whose comic qualities mask his role as a willing abettor of Scarpia’s machinations.
Giuseppe Pennisi
Tosca at the Baths of Caracalla, Rome
Tosca is the quintessential Roman opera, with a plot located in three infamous landmarks of Rome, its 1900 premiere in Rome was bound to be enormously successful.
Giacomo Puccini: Tosca
Floria Tosca: Micaela Carosi (14, 16, 21, 4, 6) / Virginia Todisco (15, 17, 22, 30); Cavaradosi: Fabio Armiliato (14, 16, 21, 4, 6) / Valter Borin (15, 17, 22, 30); Scarpia Giorgio Surian (14, 16, 21, 4, 6) / Giovanni Meoni (15, 17, 22, 30); Sagrestano: Roberto Abbondanza (14, 16, 17, 21, 30) / Carlo Di Cristoforo (15, 22, 4, 6); Angelotti: Alessandro Svab; Spoletta: Mario Bolognesi; Sciarrone: Alessandro Battiato (14, 15, 16, 17, 21) / Antonio Taschini (22, 4) / Riccardo Cortellacci (30, 6); Carceriere: Angelo Nardinocchi (14, 15, 16, 17, 21, 22, 30) / Riccardo Coltellacci (4) / Antonio Taschini (6); Pastorello: Marta Pacifici. Coro di Voci Bianche di Roma dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia e del Teatro dell'Opera. Orchestra e Coro del Teatro Dell’opera. Nuovo allestimento. Maestro concertatore e Direttore: Paolo Olmi. Maestro del Coro: Andrea Giorgi. Regia: Franco Ripa di Meana. Scene: Edoardo Sanchi. Costumi: Silvia Aymonino. Luci: Agostino Angelini.
Above: Scene from Tosca
All photos courtesy of Teatro dell'Opera di Roma
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In 2008 the Teatro dell’Opera staged thirteen performances of Franco Zeffirelli’s new elaborate staging. In the past twenty years, the Teatro dell’Opera touted productions nearly every other season of Tosca designed by distinguished directors such as Mauro Bolognini and Guiliano Montaldo. The last five seasons of the small “Piccolo Lirico” alone has launched 300 performances of Tosca.
This new adaptation of Tosca is performed in the open theater of the Baths of Caracalla, a magnificent monument. Heritage restrictions do not allow performances within the colossal ruins. Productions, therefore, are staged on a platform in front. Consequently, this limits set changes between the three acts and necessitates minimal changes in props and costumes.
Eduardo Sanchi surrounds the stage with a black-and-white aerial view of modern Rome’s city center. Red circles mark the main locations of the opera: Sant’Andrea della Valle Church, Castel Sant’Angelo and a very red Tiber crossing the stage. This dramatic set serves as the perfect vehicle for the new concept of Tosca. This is not the “blood and guts” drama, as the late Paul Hume wrote when he was the music editor for the Washington Post.
There are plenty of blood and guts, of course, as well as passion and erotic impulses. Yet the focal point of the opera is a new and different one. The staging has the city center crowded with inquisitive priests and clerics throughout the performance, where the oppressively ubiquitous clergy, to paraphrase Anais Nin, are like a vast lead roof which covers the world. Cavaradossi is tortured by the cassock-wearing Scarpia, here a bishop who desperately craves sadistic sex, although it seems that he might be enjoying some young Swiss guard as well as Tosca. There is also one final surprise—Tosca does not jump off the Castel Sant’Angelo’s tower into the river. Instead she drowns in the red Tiber embracing Cavaradossi’s body.
Director Franco Ripa di Meana has a literary basis for these changes. An exchange of letters among Puccini, Illica, Giacosa, and Sardou have been unearthed, revealing an intent of changing the end with a mad scene, Tosca killing Scarpia in a state of madness and then killing herself. Yet Sardou was adamant about the ending, though he had only an approximate idea of Rome, and no knowledge that the Tiber did not flow under Castel Sant’Angelo. In short, the production is strongly anti-clerical, a bit weird, but brilliant!
A funny accident took place on the opening night (July 14th) at the beginning of the third act—a live sheep bleated onstage, serving as counterpoint to the shepherd’s day break song, and a moment of unwanted comic relief in an otherwise tense blood-and-guts, passion-and-sex musical drama.
The usual disclaimer of the difficulties of performing outdoors must be made. And it is to be added that across the street a major political demonstration had been organized. Luckily, they were quite good mannered and did not make excessive noise. The audience could sense that the conductor, Paolo Olmi, was very professional and the orchestra was well familiar with the score.
The star of the evening was Fabio Armiliato singing Cavaradossi for the 134th time. His clear timbre, sensual legato, perfect phrasing, physique and skillful acting made him perfect for the role. Michaela Carosi performed Tosca well with a big voice. But diction was poor and, moreover, her second and third act costuming (early 20th century aristocratic gowns) did not suit her well. Giorgio Surian was an effective Scarpia. Roberto Abbondanza deserves special recognition for his interpretation of the Sacrestan, whose comic qualities mask his role as a willing abettor of Scarpia’s machinations.
Giuseppe Pennisi
IL RICORSO DELLA PA ALLE CONSULENZE E’ FRUTTO DEI CONCORSI BLOCCATI Il Tempo 21 luglio
Troppo o troppo poche le circa 300.000 consulenze registrate nella pubblica amministrazione nel 2008? Nella cifra aggregata c’è di tutto un po’- incarichi di una settimana per pochi euro e laute collaborazioni che si protraggono anche per lustri. Parte dei “consulenti” possono essere stati ingaggiati per motivi particolaristici , anche di mera affinità politica, piuttosto che per esigenze specifiche che non si sarebbero potuto soddisfare unicamente facendo ricorso al personale di ruolo della pubblica amministrazione. E’ concettualmente errato sotto il profilo dell’analisi, prima ancora che ingiusto ed ingiustificato fare di tutt’erba un fascio. E’ più utile analizzare le determinanti del fenomeno al fine d’individuare antidoti che non siano come le grida di manzoniana memoria.
A mio avviso, le determinanti principali sono due : a) il blocco alle assunzioni; e b) il familismo che ha portato a vere e proprie “dinastie” all’interno di amministrazioni. Il blocco alle assunzioni dura ormai da circa tre lustri. Non ha frenato la crescita del pubblico impiego o della spesa per stipendi e salari, ma ha provocato un invecchiamento non solamente della dirigenza pubblica (oggi mediamente la più anziana in Europa) ma anche degli impiegati con compiti tecnici ed amministrativi. In tale arco di tempo, c’è stata una vera e propria rivoluzione tecnologia ed organizzativa a cui i corsi di formazione on-the-job non possono sopperire che in parte limitata. E’ stata una misura dannosa; per limitarne i danni si è fatto ricorso alle consulenze. Lo svecchiamento della dirigenza , previsto da una misura proposta dal Ministro della Funzione Pubblica e dell’Innovazione, è un passo essenziale, anche se non necessariamente risolutivo, per prendere di petto il problema. Deve essere , però, accompagnato dal ritorno ad assumere. Con regole nuove.
Svecchiare la dirigenza e tornare ad assumere, tuttavia, richiede una modifica di concorsi. Prassi corporative, baste su cooptazione e favori reciproci hanno comportato a ciò che, riferendosi all’Italia, la rivista scientifica “Public Choice” ha chiamato, in uno dei suoi ultimi fascicoli “International transfer of public sector jobs: a shred of evidence of nepotism”- “trasferimento intergenerazionale di impiego nel settore pubblico- un forte indizio di nepotismo” :” in Italia meridionale chi ha il padre nel settore pubblico ha, se poco qualificato, una probabilità del 44% di trovare un’occupazione nella medesima occupazione del genitore”. Il “trasferimento intergenerazionale” del posto non è necessariamente il modo migliore perché si abbiamo competenze specifiche aggiornate. Basta scorrere gli elenchi di telefono delle amministrazioni (sia delle nobili “carriere speciali” sia dei dicasteri considerati meno prestigiosi sia delle Regioni, delle Province e dei Comuni) per tracciare veri e propri alberi genealogici.
La lunga linea grigia delle consulenze ha tra i suoi pilastri mandrie di elefanti che “tengono famiglia”. Questo è un nodo socio-culturale a cui è difficile trovare rimedi di politica legislativa. Anche il combinato disposto di procedure concorsuali più moderni e divieti espliciti all’impiego di consanguinei nella stessa amministrazione (in vigore, peraltro, in quasi tutte le organizzazione ma in Italia ritenuto da alcuni giuristi addirittura incostituzionale) sarebbero mosse nella direzione appropriata.
A mio avviso, le determinanti principali sono due : a) il blocco alle assunzioni; e b) il familismo che ha portato a vere e proprie “dinastie” all’interno di amministrazioni. Il blocco alle assunzioni dura ormai da circa tre lustri. Non ha frenato la crescita del pubblico impiego o della spesa per stipendi e salari, ma ha provocato un invecchiamento non solamente della dirigenza pubblica (oggi mediamente la più anziana in Europa) ma anche degli impiegati con compiti tecnici ed amministrativi. In tale arco di tempo, c’è stata una vera e propria rivoluzione tecnologia ed organizzativa a cui i corsi di formazione on-the-job non possono sopperire che in parte limitata. E’ stata una misura dannosa; per limitarne i danni si è fatto ricorso alle consulenze. Lo svecchiamento della dirigenza , previsto da una misura proposta dal Ministro della Funzione Pubblica e dell’Innovazione, è un passo essenziale, anche se non necessariamente risolutivo, per prendere di petto il problema. Deve essere , però, accompagnato dal ritorno ad assumere. Con regole nuove.
Svecchiare la dirigenza e tornare ad assumere, tuttavia, richiede una modifica di concorsi. Prassi corporative, baste su cooptazione e favori reciproci hanno comportato a ciò che, riferendosi all’Italia, la rivista scientifica “Public Choice” ha chiamato, in uno dei suoi ultimi fascicoli “International transfer of public sector jobs: a shred of evidence of nepotism”- “trasferimento intergenerazionale di impiego nel settore pubblico- un forte indizio di nepotismo” :” in Italia meridionale chi ha il padre nel settore pubblico ha, se poco qualificato, una probabilità del 44% di trovare un’occupazione nella medesima occupazione del genitore”. Il “trasferimento intergenerazionale” del posto non è necessariamente il modo migliore perché si abbiamo competenze specifiche aggiornate. Basta scorrere gli elenchi di telefono delle amministrazioni (sia delle nobili “carriere speciali” sia dei dicasteri considerati meno prestigiosi sia delle Regioni, delle Province e dei Comuni) per tracciare veri e propri alberi genealogici.
La lunga linea grigia delle consulenze ha tra i suoi pilastri mandrie di elefanti che “tengono famiglia”. Questo è un nodo socio-culturale a cui è difficile trovare rimedi di politica legislativa. Anche il combinato disposto di procedure concorsuali più moderni e divieti espliciti all’impiego di consanguinei nella stessa amministrazione (in vigore, peraltro, in quasi tutte le organizzazione ma in Italia ritenuto da alcuni giuristi addirittura incostituzionale) sarebbero mosse nella direzione appropriata.
Altro che Partito del Sud, al Mezzogiorno serve più Europa Ffwebmagazine 21 luglio
Dopo una lunga fase in cui di Mezzogiorno si è parlato poco e raramente, il Sud e le Isole ritornano al centro dell’attenzione della politica economica. Il quadro tracciato dall’ultimo rapporto Svimez è decisamente inquietante. Ben 700mila persone, fra il 1997 e il 2008, hanno lasciato il proprio paesino natale nel Sud per raggiungere e città più ricche del Nord Italia. Solo nel 2008 il Sud avrebbe perso 122mila residenti, perlopiù fuggiti da Sicilia, Campania e Puglia, a fronte di un rientro di circa 60mila persone. In vistosa crescita le partenze dei laureati "eccellenti": nel 2004 partiva il 25% dei laureati meridionali con il massimo dei voti; tre anni più tardi la percentuale è balzata a quasi il 38%. La mobilità geografica Sud-Nord – sottolinea il rapporto – permette una mobilità sociale. I laureati meridionali che si spostano dopo la laurea al Centro-nord vanno infatti incontro a contratti meno stabili rispetto a chi rimane, ma a uno stipendio più alto. La “fuga di cervelli” però ha conseguenze negative di lungo periodo.«Caso unico in Europa – sottolinea il rapporto – l'Italia continua a presentarsi come un paese spaccato in due sul fronte migratorio: a un Centro-nord che attira e smista flussi al suo interno corrisponde un Sud che espelle giovani e manodopera senza rimpiazzarla con pensionati, stranieri o individui provenienti da altre regioni». Alla base di questo esodo vi sono le difficili condizioni del mercato del lavoro, sia per il numero esiguo dei posti di lavoro rispetto agli occupati, sia per la carenza di figure di livello medio-alto. Nel 2008, sono stati infatti 173 mila gli occupati residenti a Sud con un posto di lavoro al Centro-nord o all'estero. Sono 23 mila in più del 2007 (+15,3%). "Cittadini a termine" come li chiama il rapporto Svimez, che rientrano a casa per il week-end, nella migliore delle ipotesi, o un paio di volte al mese. Sono giovani e con un livello di istruzione medio-alta. Spesso sono maschi, single, dipendenti full-time in una fase transitoria della loro vita, come l'ingresso o l'assestamento nel mercato del lavoro.A partire dalla fine degli anni Novanta, l’Italia ha mediamente riportato una crescita inferiore a quella degli altri paesi europei, specie per quanto riguarda la produzione industriale, un deficit di competitività, con riferimento sia alla dinamica delle esportazioni sia agli investimenti diretti dall’estero, uno sviluppo apprezzabile dell’occupazione, ma una stagnazione della produttività. Sino al 2002, il Mezzogiorno si è mosso in parziale controtendenza. Ha riportato una crescita del prodotto e della produttività superiori a quelle del Centro-nord, e un miglioramento dell’occupazione. Inoltre, la tendenza alla maggiore crescita del Sud e delle Isole non è dovuta all’operatore pubblico, il cui “contributo di domanda” alla crescita complessiva (tramite i consumi delle amministrazioni e le spese per opere pubbliche) è stato anzi inferiore rispetto al Centro-nord, ma. a due determinanti virtuose e nuove per l’area: una minore crescita delle importazioni nette e una maggiore crescita degli investimenti in macchine e attrezzature .Non si è ancora verificata una svolta: anzi, la crescita del Mezzogiorno resta al di sotto della media europea, che era stata posta come obiettivo per la programmazione anche dei fondi comunitari per il 2000-2006. Tuttavia, si colgono anche segni di muova vivacità: dodici Amministrazioni centrali dello Stato hanno messo a punto un “documento strategico preliminare nazionale” e definito, dopo una serie di consultazioni ed audizioni, il Quadro Strategico Nazionale 2007-2013 da utilizzarsi anche ai fine della programmazione dei fondi strutturali comunitari. Il documento segue la logica del “valutare per decidere” caratteristica della nuova programmazione degli investimenti pubblici. Parte da una diagnosi delle tendenze dell’economia italiana e della stagnazione di produttività che la caratterizza, nonché da una valutazione degli scenari per il prossimo decennio. Vengono, quindi, valutati i profili finanziario e reale ella programmazione dei fondi comunitari e nazionali per i ritardi di sviluppo nel periodo 2000-2006, giustapponendo gli obiettivi inizialmente fissati ai risultati, individuando i punti di forza e le criticità, e ricavando le lezioni per il futuro.La diagnosi identifica le determinanti della prolungata stagnazione sociale e di produttività del paese nella scarsa innovazione imprenditoriale, nel livello mediamente inadeguato di competenze sia della popolazione adulta sia dei giovani, nelle insufficienze del mercato dei capitali, nella permanente difficoltà dello Stato nell’offrire e promuovere servizi collettivi e nel garantire condizioni generali di concorrenza. Queste determinanti assumono particolare rilievo nel Mezzogiorno. Ad esempio, il problema del deficit di competenze assume nel Sud e nelle Isole un peso particolare. Più basso è il livello di istruzione media degli occupati, più elevata è la dispersione scolastica nella scuola secondaria superiore e, soprattutto, assai più modesto risulta il livello medio di competenza. In particolare, per le competenze matematiche, la performance dei quindicenni del Mezzogiorno è fortemente inferiore a quella delle altre aree del paese e della media Ocse, per ogni ordine di scuola, indipendentemente dalle condizioni economico-sociali delle famiglie di provenienza. Più forte è nel Mezzogiorno, rispetto al resto del paese, anche l’inefficienza del mercato dei capitali. Il grado di intensità creditizia è particolarmente basso e più debole la relazione banca- impresa, nonostante alcuni recenti segnali di miglioramento, superiore il costo degli impieghi (a parità di ogni altra condizione). Particolarmente più grave è la qualità dei servizi collettivi: circa 8 per cento è la quota di rifiuti oggetto di raccolta differenziata, contro circa 28 nel Centro-nord; doppio rispetto al Centro-nord è il numero medio di interruzioni accidentali lunghe per utente dell’elettricità; largamente superiore è la percentuale di famiglie che denunziano irregolarità nel servizio idrico; superiori i tempi della giustizia; minori le garanzie di legalità e sicurezza; e così via.Valutati gli esiti della politica regionale e degli interventi nel 2000-2006, il documento individua tre linee di continuità: mirare la politica regionale, comunitaria e nazionale, nell’intero paese a obiettivi di produttività, competitività e innovazione, accompagnati da una forte attenzione all’inclusione sociale; perseguire tali obiettivi, producendo e promuovendo servizi collettivi che innalzino la qualità della vita, del lavoro, del fare impresa; destinare al Sud e alle Isole una quota dell’intervento generale, simile a quella del precedente ciclo di programmazione. Il documento propone, però, anche due linee di discontinuità rispetto al passato: una più chiara definizione delle priorità e una maggiore centralità della qualità dei servizi (con accento, in particolare, sul sistema bancario).Il documento individua quattro priorità, relative all’intero paese, e due priorità centrali per il Mezzogiorno, ma di complemento e sostegno a un rilancio della politica nazionale. Le priorità nazionali sono in sintonia con quelle del Piano per l’innovazione, la crescita e l’occupazione (Pico): la promozione della ricerca e dell’innovazione; un forte intervento sul capitale umano; un sostegno all’ambiente considerato come requisito per lo sviluppo sostenibile di lungo periodo; la modernizzazione dei mercati e della pubblica amministrazione. Si è, quindi, sul solco delle strategie di Lisbona e di Goteborg definite dai Consigli europei per rilanciare lo sviluppo del continente.Le priorità considerate “indispensabili” per il Mezzogiorno sono la sicurezza e l’inclusione sociale e le reti infrastrutturali e logistiche. Nel documento, l’inclusione sociale è priorità della politica nazionale specie nel Mezzogiorno, dove essa presenta ancora così elevate criticità (anche quando, anziché con la “povertà monetaria”, la si misuri con l’accesso ai servizi essenziali) e dove così alta è l’occupazione sommersa: alla riduzione dell’emarginazione e dell’esclusione sociale, alla promozione delle parità di trattamento, possono concorrere in modo determinante le quattro priorità indicate in precedenza, se esse sono realizzate avendo ben presente l’obiettivo dell’inclusione, ma è indispensabile un’azione nazionale di raccordo su cui la politica regionale deve potersi poggiare. Ciò è ancora più evidente nel caso della sicurezza. Nelle quattro regioni del Mezzogiorno dove la criminalità organizzata ha un ruolo diffuso e profondo e inquina, anche quando non attivamente presente, parte rilevante dell’azione pubblica, una più forte azione di politica nazionale per la sicurezza è condizione di buon governo. Anche il completamento delle reti e dei nodi logistici, in coerenza con la vocazione ambientale e turistica del Mezzogiorno (più ferrovie, più mare, più trasporto aereo) e con l’opportunità di un suo collegamento con alcune grandi direttrici mediterranee e balcaniche, è, secondo il documento, condizione necessaria del decollo del Sud e delle Isole. Si tratta di una condizione che può essere soddisfatta solo se si affermerà una programmazione nazionale, concertata fra Centro e Regioni, che stabilisca priorità,tempi credibili, sistemi di monitoraggio, esplicitazione delle connettività territoriali degli interventi. Se queste condizioni saranno soddisfatte, afferma il documento, la politica regionale potrà opportunamente aggiungere i propri finanziamenti alle azioni della politica nazionale. Un ritorno al passato, ossia alla “programmazione indicativa” degli anni Sessanta? Non proprio, perché l’accento è su una strategia unitaria tra Stato e Regioni per far funzionare meglio il mercato – quindi sulle liberalizzazioni.
Purtroppo alle promesse del Documento non hanno fatto seguito adeguati programmi operativi basati su progetti concreti. Questo nodo centrale dello sviluppo del Mezzogiorno può essere risolto con il Partito del Sud , o con qualche simile soggetto politico, di cui si è parlato nelle ultime settimane? No, non verrebbe sciolto ma aggravato, poiché il punto centrale consiste nel portate le migliori prassi e i migliori comportamenti “europei” nel Mezzogiorno; creare separatismi più o meno sottintesi non farebbe che aggravare questo processo di europeizzazione del Mezzogiorno, e del resto d’Italia – la sola strada per lo sviluppo di lungo periodo.
21 luglio 2009
Purtroppo alle promesse del Documento non hanno fatto seguito adeguati programmi operativi basati su progetti concreti. Questo nodo centrale dello sviluppo del Mezzogiorno può essere risolto con il Partito del Sud , o con qualche simile soggetto politico, di cui si è parlato nelle ultime settimane? No, non verrebbe sciolto ma aggravato, poiché il punto centrale consiste nel portate le migliori prassi e i migliori comportamenti “europei” nel Mezzogiorno; creare separatismi più o meno sottintesi non farebbe che aggravare questo processo di europeizzazione del Mezzogiorno, e del resto d’Italia – la sola strada per lo sviluppo di lungo periodo.
21 luglio 2009
domenica 19 luglio 2009
Götterdämmerung at Aix-en-Provence — A Human Symphony Opera Today 19 luglio
19 Jul 2009
This year’s program at the Aix-en-Provence Festival includes Götterdämmerung, the much-anticipated final installment of the Ring co-sponsored by Festival d’Aix-en-Provence and the Osterfestspiele Salzburg.
Richard Wagner: Götterdämmerung
Siegfried: Ben Heppner; Gunther: Gerd Grochowski; Hagen: Mikhail Petrenko; Alberich: Dale Duising; Brünnhilde: Katarina Dalayman; Gutrune : Emma Vetter; Waltraute: Anne Sophie von Hotter; First Norn: Maria Radner; Second Norn: Lilli Paasikivi; Third Norn: Miranda Keys; Woglinde: Sara Fox; Wellgunde: Eva Vogel; Maria Radner: Annette Jahns
Photos by Elisabeth Carecchio courtesy of Festival d'Aix en Provence
Its minimalist design by Stéphane Braunschweig (stage direction and sets), Thibault Vancraenenbroeck (costumes) and Marion Hewlett (lighting) notwithstanding, this production delivers a compelling musical drama that focuses on the human condition.
This production of the Ring is an important step forward in the interpretation of Wagner’s musical drama. Absent are the clichés of characters dressed as Nazis (or as Eastern German soldiers in the recent Knöll production in Venice). Absent is the bewildering “balance” between science fiction and poetry as in the recent La Fura production in Florence or the absurdly ridiculous staging in Lisbon that employed a circus ring. Absent, too, are cardboard reproductions of medieval German forests, rivers and royal palaces as imagined by late 19th century intellectuals.
Rather, we finally have a psychological reading of the Ring that emphasizes the interpersonal relationships of the dramatis personae. The staging is minimalist. The sets consist of three walls, a window and a staircase, along with a few abstract. The props are three chairs, a leather armchair and two beds. Lighting and acting (what a quality of acting!) do the rest, keeping the audience on the edge of their seats for nearly 6 hours.
A key element of Götterdämmerung, as with the Ring as a whole, is the sequence of leitmotifs associated with a character, a place, an event, an object and so on. The Prologue begins with the sequence expressing primal nature and the Rhine (No. 2), Erda (No. 42) and then the Annunciation of Death (No. 83B). A new leitmotif (No. 154) is introduced as the Norns appear weaving the ropes of destiny, discussing past events, the doom of the gods, the curse of the Niebelung’s Ring, questioning the nature of a distant gleam of light (is it fire or is it dawn?).* The Norns then disappear and dawn breaks. With the radiant tonality of daybreak, Brünhilde and Siegfried emerge after a joyous night of love-making. We could not be more directly assured that we are no longer in a world of gods, giants, dwarves, dragons and demigods. We are in a universe of men and women where mist and the darkness are contrasted against light and the radiance. Light and radiance win. Thus, after nearly 6 hours, the turmoil of the downfall of the gods segues to the leitmotif of redemption by love — the old order is shattered, a glorious new world is revealed.
Earlier productions stressed that the men and women in Götterdämmerung stand alone with their problems (intrigues of power and wealth) and their passions. Valhalla (with its gods and goddesses) is at a distance. In this production, Wotan appears silently at the very end as the Wanderer to witness the demise of “his” world — the old order. The human psychological content of the Ring, and especially of Götterdämmerung, is central to this production as conceived by Bruanschweig, Vancraenenbroeck and Hewlett.
Another key to a successful production of the Ring is the orchestra. Wagner thought of the Ring not as a cycle of operas (a rather normal practice in 19th century Germany) but as a festival drama (where each and every word had to be understood) with a symphony orchestra concealed in a pit under the stage (not to be seen by the audience). Sir Simon Rattle and the Berliner Philarmoniker transform Götterdämmerung into a symphony of humanity searching for a better world — independent of the intrigues of the gods, of the kings, of the dwarves, of the demigods and the like. A similar symphonic treatment had been attempted in the mid-1970s by the Washington National Opera in a production of Die Walküre (with Roberta Knie at the height of her splendour). But the staging was the traditional primeval Germany wrought in cardboard. And, with due respect to Antal Dorati, the Washington National Symphony never possessed the high standard of quality as that of the Berliner Philarmoniker. Sir Simon Rattle and his orchestra have greater skills than most other orchestras in finding the right musical colours, the gentle nuances, the always vivid imagination, especially the ability to slide from a chamber music Wagner (e.g. Solti, Böhm) to a highly dramatic , black, tragic Wagner (e.g. Boulez, Sinopoli, von Karajan, Fürtwangler). This is a Ring, and a Götterdämmerung, that demands many listenings to appreciate the symphonic rigor and impact produced by Rattle and company. A detail: there are six harps, as required by Wagner, which are placed just at the centre of the orchestra under the stage. “Normal” productions make do with two harps, often in a side box.
This Götterdämmerung benefitted from great acting and singing. At the age of 55, Ben Heppner is a naïve Siegfried. The role is taxing, but his voice maintained a magnificently crystal clear timbre and exhibited superb phrasing, a moving legato and the ability to reach high C and F. Next to him, Katarina Dalayma as Brünhilde displayed full vocal and dramatic power. Her performance was particularly impressive in the holocaust of the final scene. An ever young and attractive Anne Sophie von Otter appeared as Waltraute, the desperate Walkürie tortured by the looming end of the world. The vocally and dramatically promising Emma Vetter was a whorish Gutrune. As Hagen, an impressive Mikhail Petrenko presented a character that was devilish, astute, even more evil than his father Alberich (Dale Duesing). The Norns and the Rhinemaidens (Maria Radner, Lilli Paasiviki, Miranda Keys, Anna Siminska, Eva Vogel) were all top-notch.
In short, if you missed this Götterdämmerung in Provence, it is worth traveling to Salzburg for performances to be held there next Easter. Moreover, a recording of this production is in process. Look for it in your music store.
Giuseppe Pennisi
________________________________________
*[Editor’s Note: The description and numbering of leitmotifs are based on Ernest Newman, The Wagner Operas 591-594 (Princeton Univ. Press 1949). The numbering of the leitmotifs, however, varies from source to source. Compare Ernst von Wolzogen, Guide through the music of “The Ring of the Nibelung” by Richard Wagner (Feodor Reinboth N.D.). It should be noted, however, that Barry Millington cautions against labeling leitmotifs because the context in which they appear rarely admits a consistently unequivocal meaning. Stewart Spencer & Barry Millington, Wagner’s Ring of the Niebelung — A Companion 14-24 (Thames & Hudson 1993).]
This year’s program at the Aix-en-Provence Festival includes Götterdämmerung, the much-anticipated final installment of the Ring co-sponsored by Festival d’Aix-en-Provence and the Osterfestspiele Salzburg.
Richard Wagner: Götterdämmerung
Siegfried: Ben Heppner; Gunther: Gerd Grochowski; Hagen: Mikhail Petrenko; Alberich: Dale Duising; Brünnhilde: Katarina Dalayman; Gutrune : Emma Vetter; Waltraute: Anne Sophie von Hotter; First Norn: Maria Radner; Second Norn: Lilli Paasikivi; Third Norn: Miranda Keys; Woglinde: Sara Fox; Wellgunde: Eva Vogel; Maria Radner: Annette Jahns
Photos by Elisabeth Carecchio courtesy of Festival d'Aix en Provence
Its minimalist design by Stéphane Braunschweig (stage direction and sets), Thibault Vancraenenbroeck (costumes) and Marion Hewlett (lighting) notwithstanding, this production delivers a compelling musical drama that focuses on the human condition.
This production of the Ring is an important step forward in the interpretation of Wagner’s musical drama. Absent are the clichés of characters dressed as Nazis (or as Eastern German soldiers in the recent Knöll production in Venice). Absent is the bewildering “balance” between science fiction and poetry as in the recent La Fura production in Florence or the absurdly ridiculous staging in Lisbon that employed a circus ring. Absent, too, are cardboard reproductions of medieval German forests, rivers and royal palaces as imagined by late 19th century intellectuals.
Rather, we finally have a psychological reading of the Ring that emphasizes the interpersonal relationships of the dramatis personae. The staging is minimalist. The sets consist of three walls, a window and a staircase, along with a few abstract. The props are three chairs, a leather armchair and two beds. Lighting and acting (what a quality of acting!) do the rest, keeping the audience on the edge of their seats for nearly 6 hours.
A key element of Götterdämmerung, as with the Ring as a whole, is the sequence of leitmotifs associated with a character, a place, an event, an object and so on. The Prologue begins with the sequence expressing primal nature and the Rhine (No. 2), Erda (No. 42) and then the Annunciation of Death (No. 83B). A new leitmotif (No. 154) is introduced as the Norns appear weaving the ropes of destiny, discussing past events, the doom of the gods, the curse of the Niebelung’s Ring, questioning the nature of a distant gleam of light (is it fire or is it dawn?).* The Norns then disappear and dawn breaks. With the radiant tonality of daybreak, Brünhilde and Siegfried emerge after a joyous night of love-making. We could not be more directly assured that we are no longer in a world of gods, giants, dwarves, dragons and demigods. We are in a universe of men and women where mist and the darkness are contrasted against light and the radiance. Light and radiance win. Thus, after nearly 6 hours, the turmoil of the downfall of the gods segues to the leitmotif of redemption by love — the old order is shattered, a glorious new world is revealed.
Earlier productions stressed that the men and women in Götterdämmerung stand alone with their problems (intrigues of power and wealth) and their passions. Valhalla (with its gods and goddesses) is at a distance. In this production, Wotan appears silently at the very end as the Wanderer to witness the demise of “his” world — the old order. The human psychological content of the Ring, and especially of Götterdämmerung, is central to this production as conceived by Bruanschweig, Vancraenenbroeck and Hewlett.
Another key to a successful production of the Ring is the orchestra. Wagner thought of the Ring not as a cycle of operas (a rather normal practice in 19th century Germany) but as a festival drama (where each and every word had to be understood) with a symphony orchestra concealed in a pit under the stage (not to be seen by the audience). Sir Simon Rattle and the Berliner Philarmoniker transform Götterdämmerung into a symphony of humanity searching for a better world — independent of the intrigues of the gods, of the kings, of the dwarves, of the demigods and the like. A similar symphonic treatment had been attempted in the mid-1970s by the Washington National Opera in a production of Die Walküre (with Roberta Knie at the height of her splendour). But the staging was the traditional primeval Germany wrought in cardboard. And, with due respect to Antal Dorati, the Washington National Symphony never possessed the high standard of quality as that of the Berliner Philarmoniker. Sir Simon Rattle and his orchestra have greater skills than most other orchestras in finding the right musical colours, the gentle nuances, the always vivid imagination, especially the ability to slide from a chamber music Wagner (e.g. Solti, Böhm) to a highly dramatic , black, tragic Wagner (e.g. Boulez, Sinopoli, von Karajan, Fürtwangler). This is a Ring, and a Götterdämmerung, that demands many listenings to appreciate the symphonic rigor and impact produced by Rattle and company. A detail: there are six harps, as required by Wagner, which are placed just at the centre of the orchestra under the stage. “Normal” productions make do with two harps, often in a side box.
This Götterdämmerung benefitted from great acting and singing. At the age of 55, Ben Heppner is a naïve Siegfried. The role is taxing, but his voice maintained a magnificently crystal clear timbre and exhibited superb phrasing, a moving legato and the ability to reach high C and F. Next to him, Katarina Dalayma as Brünhilde displayed full vocal and dramatic power. Her performance was particularly impressive in the holocaust of the final scene. An ever young and attractive Anne Sophie von Otter appeared as Waltraute, the desperate Walkürie tortured by the looming end of the world. The vocally and dramatically promising Emma Vetter was a whorish Gutrune. As Hagen, an impressive Mikhail Petrenko presented a character that was devilish, astute, even more evil than his father Alberich (Dale Duesing). The Norns and the Rhinemaidens (Maria Radner, Lilli Paasiviki, Miranda Keys, Anna Siminska, Eva Vogel) were all top-notch.
In short, if you missed this Götterdämmerung in Provence, it is worth traveling to Salzburg for performances to be held there next Easter. Moreover, a recording of this production is in process. Look for it in your music store.
Giuseppe Pennisi
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*[Editor’s Note: The description and numbering of leitmotifs are based on Ernest Newman, The Wagner Operas 591-594 (Princeton Univ. Press 1949). The numbering of the leitmotifs, however, varies from source to source. Compare Ernst von Wolzogen, Guide through the music of “The Ring of the Nibelung” by Richard Wagner (Feodor Reinboth N.D.). It should be noted, however, that Barry Millington cautions against labeling leitmotifs because the context in which they appear rarely admits a consistently unequivocal meaning. Stewart Spencer & Barry Millington, Wagner’s Ring of the Niebelung — A Companion 14-24 (Thames & Hudson 1993).]
SULLE PENSIONI NON SIAMO ANCORA ALL’APPRODO E NON SI POTRA’ AGIRE SOLO SULL’ETA’ Avvenire 19 luglio
Sugli ultimi provvedimenti in materia previdenziale si staglia l’ombra di Wassenaar. E’ il nome di una cittadina (20.000 abitanti) dei Paesi Bassi dove nel 1982 venne siglato quello che, per decenni, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) ha considerato come il capostipite dei “patti sociali”. A Wassenaar, il Governo e le parti sociali pensavano di risolvere il nodo della spesa previdenziale senza aumentare i contributi (ciò avrebbe pregiudicato la competitività) e senza modificare il rapporto tra ultimi stipendi e assegni previdenziali (in gergo il “tasso di copertura”), ma operando unicamente sull’età effettiva di collocamento a riposo (a ragione dell’allungamento dell’aspettativa di vita). Il computer dimostrò che l’età d’equilibrio (mantenendo invariati contributi e “tasso di copertura”) sarebbe stata ben 81 anni: allora, l’Olanda cambio drasticamente il sistema (una pensione di base a carico della fiscalità generale e un numero limitato di fondi pensione sufficientemente robusti da resistere a intemperie finanziarie).
Le misure per parificare l’età della pensione tra uomini e donne e per collegare gradualmente, dal 2015, l’età per il pensionamento all’aspettativa media di vita sono un passo essenziale, ma non sufficiente. La prima elimina una discriminazione nei confronti delle donne innescata da ragioni socio-culturali: secondo uno studio Ocse, le donne italiane non entrano nell’impiego o lo lasciano in età fertile perché a casa fanno il 73% del lavoro domestico (compresa la cura dei figli) rispetto al 62% delle americane (il resto è affidato ai mariti). Allineare l’età della pensione di donne e uomini può essere un ingrediente (non certo il fondamentale) per ridurre queste barriere. Agganciando l’età della pensione all’aspettativa di vita, si favorisce un invecchiamento “attivo”, componente importante della produttività complessiva del Paese. La formula scelta è tanto graduale che sarà necessario rimetterci mano: tra oggi ed il 2035 l’età effettiva di pensionamento varierebbe da 61 a 66 anni per i dipendenti e tra 62 e 67 per gli autonomi. Implica mediamente un “tasso di copertura” più generoso di quello previsto dalla “riforma Dini” del 1995 una volta a regime. Nel complesso, i risparmi all’erario saranno meno consistenti di alcune stime citate (frettolosamente) in questi giorni. Quando nel 1889 Bismarck definì il primo sistema previdenziale su base occupazionale, l’aspettativa di vita di un prussiano era 47 anni e l’età per fruire della pensione venne fissata a 70 anni. Nel 1908, Lloyd George mise a punto il primo sistema pensionistico universalistico (ossia per tutti i britannici): avrebbero avuto la pensione coloro che avrebbero superato il capo dei 70 anni ma l’aspettativa di vita era mediamente 51 anni. Ciò conferma che operando sulla determinante età i margini di manovra sono stretti.
Non potendo aumentare i contributi (i nostri sono i più alti al mondo), non resta che modificare il “tasso di copertura”. Ciò può essere fatto in varie maniere: stabilendo una soglia di pensione sociale per i meno abbienti a carico della fiscalità generale e ponendo “tetti” alle pensioni pubbliche oppure ancora definendo un “tasso di copertura” più basso dal giorno in cui si va a riposo ai 75 anni di età, quando aumentando le esigenze di cure ed assistenza. La gamma di modalità tecniche è vasta. Ciascuna ha vaste implicazioni finanziarie, economiche e sociali. L’argomento merita un dibattito approfondito. Non l’illusione che si sia giunti all’approdo.
Le misure per parificare l’età della pensione tra uomini e donne e per collegare gradualmente, dal 2015, l’età per il pensionamento all’aspettativa media di vita sono un passo essenziale, ma non sufficiente. La prima elimina una discriminazione nei confronti delle donne innescata da ragioni socio-culturali: secondo uno studio Ocse, le donne italiane non entrano nell’impiego o lo lasciano in età fertile perché a casa fanno il 73% del lavoro domestico (compresa la cura dei figli) rispetto al 62% delle americane (il resto è affidato ai mariti). Allineare l’età della pensione di donne e uomini può essere un ingrediente (non certo il fondamentale) per ridurre queste barriere. Agganciando l’età della pensione all’aspettativa di vita, si favorisce un invecchiamento “attivo”, componente importante della produttività complessiva del Paese. La formula scelta è tanto graduale che sarà necessario rimetterci mano: tra oggi ed il 2035 l’età effettiva di pensionamento varierebbe da 61 a 66 anni per i dipendenti e tra 62 e 67 per gli autonomi. Implica mediamente un “tasso di copertura” più generoso di quello previsto dalla “riforma Dini” del 1995 una volta a regime. Nel complesso, i risparmi all’erario saranno meno consistenti di alcune stime citate (frettolosamente) in questi giorni. Quando nel 1889 Bismarck definì il primo sistema previdenziale su base occupazionale, l’aspettativa di vita di un prussiano era 47 anni e l’età per fruire della pensione venne fissata a 70 anni. Nel 1908, Lloyd George mise a punto il primo sistema pensionistico universalistico (ossia per tutti i britannici): avrebbero avuto la pensione coloro che avrebbero superato il capo dei 70 anni ma l’aspettativa di vita era mediamente 51 anni. Ciò conferma che operando sulla determinante età i margini di manovra sono stretti.
Non potendo aumentare i contributi (i nostri sono i più alti al mondo), non resta che modificare il “tasso di copertura”. Ciò può essere fatto in varie maniere: stabilendo una soglia di pensione sociale per i meno abbienti a carico della fiscalità generale e ponendo “tetti” alle pensioni pubbliche oppure ancora definendo un “tasso di copertura” più basso dal giorno in cui si va a riposo ai 75 anni di età, quando aumentando le esigenze di cure ed assistenza. La gamma di modalità tecniche è vasta. Ciascuna ha vaste implicazioni finanziarie, economiche e sociali. L’argomento merita un dibattito approfondito. Non l’illusione che si sia giunti all’approdo.
SCHELETRI NELL’ARMADIO DEL PRESIDENTE PRODI IIl Tempo del 19 luglio
Romano Prodi è stato condannato dalla Corte di Giustizia Europea per azioni compiute quando era Presidente della Commissione. Non è importante che il risarcimento ai direttamente danneggiati (tenuti comunque in servizio sino al limite d’età per la pensione) è di poca entità. Rilevano la condanna al pagamento delle spese di giudizio e le motivazioni della Corte : a) aver fornito al Parlamento Europeo notizie non veritiere e non documentate ; b) avere fatto circolare comunicati che mettevano in dubbio l’onorabilità di alti dirigenti (non allineati ai suoi voleri); c) avere tentato di ostruire la giustizia. Il testo integrale della sentenza è pubblico e si può ottenere dal cancelliere della Corte Europea.
Mentre al deposito della sentenza, se ne avuta una certa eco all’estero (nonostante gli sforzi di minimizzarla) in Italia si è stesa una coltre di silenzio , specialmente da parte di giornali con grandi uffici di corrispondenza a Bruxelles e a Lussemburgo pur informati in dettaglio. Lo hanno fatto per amor di Patria dato il discredito che il comportamento tratteggiato nella sentenza della Corte di Giustizia getta su una parte della classe dirigente del Paese? Per tentare di difendere la parte politica abbandonata dagli elettori prima ancora che condannata dai giudici europei?
I fatti che hanno portato alla condanna risalgono al 2002-2003. Si riferiscono ad una complicata vicenda relativa all’Eurostat, innescata dalla lettera di una funzionaria che si riteneva discriminata, nonché da una serie di missive anonime con accuse d’irregolarità contabili e forse pure di “fondi neri”. Venne chiamato ad indagare l’Olaf, organismo di controllo interno della Commissione.
L’inchiesta riguardava se tali irregolarità ci fossero e se fossero state effettuate ad iniziativa di dirigenti (per il loro tornaconto) o con la conoscenza e l’approvazione dei vertici della Commissione (ossia di Romano Prodi in persona). Parte importante di tali presunte irregolarità concernevano istituti senza fini di lucro (di cui uno a Roma) costituiti tra l’Eurostat e le autorità statistiche nazionali (in Italia l’Istat ne esprimeva il Presidente) allo scopo di diffondere buone prassi tra i Paesi che stavano per entrare nell’Ue e del Mediterraneo.
E’ cominciato il rimbalzo delle responsabilità, nonché “fughe di notizie” – afferma la sentenza – pilotate verso giornali amici. Anche a ragione di esperienze passate (Iri, indagini su Nomisma), Prodi temeva che l’eventuale scoperta di irregolarità lo avrebbe pregiudicato per sempre . Ha messo sotto accusa il direttore generale dell’Eurostat ed suo direttore del servizio finanziario. Li ha destituiti dai loro incarichi , ma non avendo elementi per licenziarli, li ha tenuti a non fare nulla sino alla pensione. Ha anche chiuso d’imperio gli istituti causando la perdita del lavoro ad un migliaio di persone. Come specificato nella sentenza, ha lanciato le accuse per comunicato; il 25 settembre 2003 le ha ribadite, in modo ritenuto non rituale dai giudici, alla conferenza dei capigruppo del Parlamento Europeo, dove si stava preparando una mozione di sfiducia nei suoi confronti di Prodi – frenata poiché pochi anni prima era stato sfiduciato il suo predecessore (da Jacques Santer) ed una seconda sfiducia avrebbe messo in crisi per sempre la Commissione Europea.
La sentenza frutto di cinque anni d’indagini (spesso ostacolate, secondo la Corte, dalla Commissione) rivela che non ci sono state irregolarità amministrative né fondi neri, quanto meno da parte da funzionari, e che il livello politico è stato sempre informato.
Mentre al deposito della sentenza, se ne avuta una certa eco all’estero (nonostante gli sforzi di minimizzarla) in Italia si è stesa una coltre di silenzio , specialmente da parte di giornali con grandi uffici di corrispondenza a Bruxelles e a Lussemburgo pur informati in dettaglio. Lo hanno fatto per amor di Patria dato il discredito che il comportamento tratteggiato nella sentenza della Corte di Giustizia getta su una parte della classe dirigente del Paese? Per tentare di difendere la parte politica abbandonata dagli elettori prima ancora che condannata dai giudici europei?
I fatti che hanno portato alla condanna risalgono al 2002-2003. Si riferiscono ad una complicata vicenda relativa all’Eurostat, innescata dalla lettera di una funzionaria che si riteneva discriminata, nonché da una serie di missive anonime con accuse d’irregolarità contabili e forse pure di “fondi neri”. Venne chiamato ad indagare l’Olaf, organismo di controllo interno della Commissione.
L’inchiesta riguardava se tali irregolarità ci fossero e se fossero state effettuate ad iniziativa di dirigenti (per il loro tornaconto) o con la conoscenza e l’approvazione dei vertici della Commissione (ossia di Romano Prodi in persona). Parte importante di tali presunte irregolarità concernevano istituti senza fini di lucro (di cui uno a Roma) costituiti tra l’Eurostat e le autorità statistiche nazionali (in Italia l’Istat ne esprimeva il Presidente) allo scopo di diffondere buone prassi tra i Paesi che stavano per entrare nell’Ue e del Mediterraneo.
E’ cominciato il rimbalzo delle responsabilità, nonché “fughe di notizie” – afferma la sentenza – pilotate verso giornali amici. Anche a ragione di esperienze passate (Iri, indagini su Nomisma), Prodi temeva che l’eventuale scoperta di irregolarità lo avrebbe pregiudicato per sempre . Ha messo sotto accusa il direttore generale dell’Eurostat ed suo direttore del servizio finanziario. Li ha destituiti dai loro incarichi , ma non avendo elementi per licenziarli, li ha tenuti a non fare nulla sino alla pensione. Ha anche chiuso d’imperio gli istituti causando la perdita del lavoro ad un migliaio di persone. Come specificato nella sentenza, ha lanciato le accuse per comunicato; il 25 settembre 2003 le ha ribadite, in modo ritenuto non rituale dai giudici, alla conferenza dei capigruppo del Parlamento Europeo, dove si stava preparando una mozione di sfiducia nei suoi confronti di Prodi – frenata poiché pochi anni prima era stato sfiduciato il suo predecessore (da Jacques Santer) ed una seconda sfiducia avrebbe messo in crisi per sempre la Commissione Europea.
La sentenza frutto di cinque anni d’indagini (spesso ostacolate, secondo la Corte, dalla Commissione) rivela che non ci sono state irregolarità amministrative né fondi neri, quanto meno da parte da funzionari, e che il livello politico è stato sempre informato.
sabato 18 luglio 2009
OPPORTUNITA’E RIFORME PERUSCIRE DALLA CRISI Il Tempo del 18 luglio
Grazie al clima politico che si sta sviluppando in seguito al vertice internazionale de L’Aquila, l’Italia può trovare un percorso condiviso per le riforme? Credo di sì. Per articolarsi un programma realizzabile , sarebbe errato tentare convergenze alla spicciolata (su questo o su quel comparto) ma occorre avere chiaro un tema conduttore ed unificante di medio e lungo periodo (tale da prescindere dalla “exit strategy” dall’attuale crisi economica e finanziaria). Il Documento di politica economica in preparazione la sua imminente discussione in Parlamento sono un’occasione importante per individuare il tema condutture.
A mio avviso, tale tema conduttore unificante deve guardare all’Italia del dopo crisi,dove ( come nel resto del mondo), verrà data maggiore attenzione (che nel recente passato) alla produzione di beni e servizi , ai livelli dei consumi e dei risparmi, alla qualità degli investimenti. In linea con le prese di posizione programmatiche del Pdl (“nessuno resterà indietro”) e dell’attenzione alla distribuzione dei redditi di numerosi filon confluiti nel PD, l’ampliamento delle opportunità per ciascuna persona può essere tale tema conduttore. L’ampliamento delle opportunità differisce dalla riduzione delle diseguaglianze, di redditi o di consumi, poiché l’accento è sulla capacitazione (la capacità in potenza) dell’individuo (come nella più recente Enciclica) ed il suo potenziamento.
Un’analisi inedita delle Università di Milano e di Bari conclude che, su 17 Paesi europei, l’Italia si pone in posizione mediana in termini di disuguaglianza di opportunità. La determinante principale (in tutta Europa) della disuguaglianza di opportunità non è il reddito quanto il livello d’istruzione dei genitori e la tipologia di rapporto di lavoro (se “a tempo indeterminato” od in altra guisa). Ridurre questa disuguaglianza ed ampliare opportunità per tutti può essere la leva sulle riforme. L’analisi è confortante perché tra i 17 Paesi, l’Italia è uno di tre in cui si vedono segni di miglioramento (in termini d’opportunità) – gli altri due sono l’Austria e la Polonia.
Segnali ancora più incoraggianti vengono dai numerosi punti di convergenza tra “Il Libro Bianco” recentemente presentato dal Ministro del Lavoro, della Salute e della Solidarietà Sociale e proposte di alcune parti del PD, specialmente quelle che riprendendo i lavori d’Etienne Wasmer dell’Observatoire Français de Conjonctures Economique , delineano un percorso per eliminare le barriere tra rapporti di lavoro “a tempo indeterminato” ed altre forme, caratterizzate da vari gradi di flessibilità e precarietà. Più complesso, e di più lungo periodo, ridurre il vincolo rappresentato dal grado d’istruzione dei genitori; in Italia , in particolare, si stanno ancora rimarginando le ferite su scuola ed università causate da un Sessantotto durato un decennio. Una strategia basata su un obiettivo condiviso (che argini i particolarismi) può essere di grande utilità. A tutti.
A mio avviso, tale tema conduttore unificante deve guardare all’Italia del dopo crisi,dove ( come nel resto del mondo), verrà data maggiore attenzione (che nel recente passato) alla produzione di beni e servizi , ai livelli dei consumi e dei risparmi, alla qualità degli investimenti. In linea con le prese di posizione programmatiche del Pdl (“nessuno resterà indietro”) e dell’attenzione alla distribuzione dei redditi di numerosi filon confluiti nel PD, l’ampliamento delle opportunità per ciascuna persona può essere tale tema conduttore. L’ampliamento delle opportunità differisce dalla riduzione delle diseguaglianze, di redditi o di consumi, poiché l’accento è sulla capacitazione (la capacità in potenza) dell’individuo (come nella più recente Enciclica) ed il suo potenziamento.
Un’analisi inedita delle Università di Milano e di Bari conclude che, su 17 Paesi europei, l’Italia si pone in posizione mediana in termini di disuguaglianza di opportunità. La determinante principale (in tutta Europa) della disuguaglianza di opportunità non è il reddito quanto il livello d’istruzione dei genitori e la tipologia di rapporto di lavoro (se “a tempo indeterminato” od in altra guisa). Ridurre questa disuguaglianza ed ampliare opportunità per tutti può essere la leva sulle riforme. L’analisi è confortante perché tra i 17 Paesi, l’Italia è uno di tre in cui si vedono segni di miglioramento (in termini d’opportunità) – gli altri due sono l’Austria e la Polonia.
Segnali ancora più incoraggianti vengono dai numerosi punti di convergenza tra “Il Libro Bianco” recentemente presentato dal Ministro del Lavoro, della Salute e della Solidarietà Sociale e proposte di alcune parti del PD, specialmente quelle che riprendendo i lavori d’Etienne Wasmer dell’Observatoire Français de Conjonctures Economique , delineano un percorso per eliminare le barriere tra rapporti di lavoro “a tempo indeterminato” ed altre forme, caratterizzate da vari gradi di flessibilità e precarietà. Più complesso, e di più lungo periodo, ridurre il vincolo rappresentato dal grado d’istruzione dei genitori; in Italia , in particolare, si stanno ancora rimarginando le ferite su scuola ed università causate da un Sessantotto durato un decennio. Una strategia basata su un obiettivo condiviso (che argini i particolarismi) può essere di grande utilità. A tutti.
venerdì 17 luglio 2009
WAGNER E IL RING DEL SECOLO XXI
Nel 2013, viene celebrato il secondo centenario dalla nascita di Verdi e di Wagner. Di quello verdiano – per cui il Regio di Parma sta predisponendo un’edizione integrale in DvD- ci occuperemo in autunno quando in Emilia sarà in corso il festival dedicato al cigno di Busseto. Di quello wagneriano , è bene, invece, cominciare ad interessarsi da adesso. Pulluleranno i progetti di nuove edizioni del Ring, la saga di quattro opere con oltre 30 solisti ed un organico orchestrale smisurato, a cui l’autore ha lavorato per circa 40 anni, è riuscito a far edificare un teatro apposito dove si sarebbe dovuta rappresentare un’unica volta (distruggendo, successivamente, la stessa struttura fisica per cui era stata creata). Dopo tre decenni, il Metropolitan mette in pensione un’edizione ormai storica approntata negli Anni ‘70 e rinverdita negli anni 90 (è cambiata la regia, non le straordinarie scene di Gunther Scheider-Siemssen). La Scala ha annunciato un nuovo Ring. Altri teatri, in tutto il mondo (anche a Manaus nel centro della foresta dell’Amazzonia) hanno in cantiere nuovi Ring.
Produrre il “Ring” è un’intrapresa terrificante: pare che la messa in scena della saga abbia portato negli Anni ‘90 al dissesto il Teatro “Massimo Bellini” di Catania e negli Anni ‘80 a quella del “Regio” di Torino. Tentativi, o meglio conati, di una rappresentazione scenica a Roma sono stati tentati più volte dal 1961, senza mai avere un esito : ne sono state date due edizioni in forma di concerto. L’impresa è una di quelle di fronte alla quale sovrintendenti e direttori artistici non restano insensibili: ad esempio, si sono cimentati di recente, per la prima volta con il “Ring” il “São Carlos” di Lisbona e il Mariinsky di San Pietroburgo, a Seattle è stato costruito un teatro apposito dove da 30 anni ogni estate il ciclo delle quattro opere viene rappresentato, all’English National Opera lo si canta in inglese arcaico per dare al pubblico britannico fremiti analoghi a quelli che ha il pubblico tedesco.
Questa estate terminano tre “Ring” di rilievo artistico prodotti negli ultimi anni rispettivamente il primo dal Maggio Musicale Fiorentino e dal Palau de la Reina Sofia di Valencia, il secondo dal Teatro La Fenice di Venezia e dal Teatro dell’Opera di Colonia e il terzo dai Festival di Aix-en-Provence e di Salisburgo. Sono le prime edizioni di spessore prodotte questo secolo. Forniscono indicazioni importanti per il futuro.
Iniziaziamo dal “Ring” di Venezia e Colonia. Il regista canadese Robert Carsen (le scene e i costumi sono di Patrick Kinmonth) opta per un’interpretazione storico-politica, analoga per molti aspetti a quelle che si sono viste in Germania, Gran Bretagna, negli Usa e anche in Italia negli Anni ‘70 e ’80. L’Italia può rivendicare la primogenitura. La Scala iniziò, nel 1974, un “Ring” ambientato nell’epoca della prima industrializzazione (scene e costumi Pierluigi Pizzi, regia Luca Ronconi); vennero realizzati unicamente il prologo e la prima opera (“Die Walkirie”) e il progetto venne interrotto per dissapori con Wolfgang Sawallisch, maestro concertatore e direttore d’orchestra. Venne ripreso, poi, nel 1979-82 a Firenze con la bacchetta allora altamente drammatica di Zubin Mehta. Purtroppo di questa bellissima edizione – il “Ring”, tra l’altro, era quasi interamente rappresentato in interni borghesi di tardo ottocento - sono state distrutte le scene. Vi è un bel cofanetto DvD del “Ring” del centenario della prima esecuzione integrale a Bayreuth: nel 1976 Patrice Chéreau e Pierre Boulez sorpresero il mondo con una lettura simile a quella di Pizzi-Ronconi-Mehta, ma, da un lato, con accenni favolistici e, dall’altro, con tempi più serrati. Prima del DvD, questa produzione Chéreau-Boulez ha fatto il giro del mondo grazie a una fortunata trasposizione televisiva ospitata pure in sale cinematografiche. Da “Ring” ambientati in epoca wagneriana d’industrializzazione, a quelli in epoca guglielmina e nazista il passo è breve. I “Ring” in cui o i nibelunghi o i ghibicunghi erano nazisti, mentre Sigfrido e Brunilde erano socialisti tesi verso il futuro, hanno pullulato soprattutto in Germania orientale, Polonia e Ungheria ma anche in edizioni nel mondo occidentale. Carsen e Kinmonth ritornano a questo filone. Ma i tempi sono cambiati. Nella Reggia , sventolano vessilli rosso fuoco . Il Palazzo è macero e corrotto . Il “Crepuscolo degli Dei” è pure la fine di un regime totalitario-comunista. Nell’ultima scena, l’incendio del Palazzo reale, il crollo di quello degli Dei, lo straripamento del Reno che “lava” e purifica la terra, pare indicare anche l’abbattimento del muro di Berlino. Altri aspetti confermano questa lettura tedesco-orientale: i costumi anni ‘50 nella festa nuziale nel secondo atto, le vesti povere delle norme, di Sigfrido e di Valchiria, la soffitta piena di mobili anni ‘30 e ‘40 in cui operano le norme, il fiume trasformato in discarica. Come in altre regie di Carsen, c’è anche una buona dose di sesso.
Completamente differente la chiave di lettura del Ring di Firenze e Valencia L’allestimento de la Fura dels Baus è un esempio di teatro totale in cui, non solo grazie ai sovratitoli si comprende ogni parola, ma musica e dramma sono coniugati con alta tecnologia (da proiezioni anche tridimensionali su dieci enormi schermi ad effetti speciali da film hollywoodiano), con acrobazie, con movimenti coreografici. Tecnologia, acrobazie e movimenti coreografici non solo rispettano la complessa partitura ma sono studiati in modo da esaltarla e da meglio far intendere i complicati intrecci tematici. Per sei ore (intervalli compresi) lo stupore degli spettatori non ha soluzioni di continuità. Lo spettacolo (che sarebbe potuto scivolare nel cattivo gusto) coglie e mantiene un delicato equilibrio tra fantascienza e poesia, dando rilievo ai momenti intimistici ma volta le spalle a letture politico-sociologiche
Prima di trattare del Ring di Aix e Salisburgo , è utile ricordare che sino all’inizio degli Anni 60), le messe in scene del Ring si basavano su ricostruzioni (spesso piuttosto buffe) in cartapesta della Germania mitologica quale vista con il cannocchiale di intellettuali tedeschi della fine del XIX secolo: tipiche a Bayreuth dal debutto nel 1876 alla fine della seconda guerra mondiale), ne vidi una a Roma da ragazzo. Successivamente si sono privilegiato letture simbolico-astratte sul tipo di quelle di Wieland Wagner, con le scene di Adolphe Appia fatte quasi esclusivamente di luci (tornate a volte di moda negli Anni 90).
A Aix e Salisburgo, Stéphane Braunschweig (regia e sceene), con la collaborazione di Thibault Vancraenenbroek (costumi) e luci (Mario Hwelett) e Sir Simon Rattle alla guida dei Berliner Philarmoniker non forniscono né una lettura “politica” né una filosofica né una fantasmagorica. Gli archetipi mitologici di Wagner sono, uomini e donne (pur se Dei), alle prese con le loro passioni. La scena è composta di tre pareti grigie ed una scalinata . L’attrezzeria è fatta di tre sedie, una poltrona in pelle, due letti ed alcuni tronchi astratti d’albero; le proiezioni ci offrono la profondità delle acque del Reno e l’incendio , con straripamento finale. Le luci fanno il resto tramite un abile gioco di colori. Sul palcoscenico non solo non ci sono foreste, palazzi reali e fiumi di cartapesta, costumi proto-tedeschi o nazisti o stalinisti tedesco-orientali, ma uomini e donne in abiti moderni come i nostri. Ci vuole un grande lavoro di recitazione per rendere , in un quadro così spoglio (quasi minimalista), l’intrigo di tradimenti ed amori che portano alla fine non solo degli Dei ma anche di un’intera classe dirigente terrena tale da tenere l’attenzione tesa per circa 6 ore. Un vero capolavoro di recitazione da parte di cantanti-attori selezionati con cura ed addestrati per mesi in questo Ring di cui un editore franco-tedesco-giapponese si è già assicurato i diritti televisivi e di riproduzione in DvD. Altra caratteristica è l’aspetto musicale. Nel golfo mistico c’è una formazione sinfonica che, di rado, entra nel comparto del teatro in musica: i Berliner Philarmoniker, guidati da Sir Simon Rattle (il loro Maestro stabile).Il Ring diventa una smisurata sinfonia sull’umanità alla ricerca di un nuovo , e migliore, futuro. Una meraviglia di colore, di sfumature, di virtuosismo in cui il sinfonismo continuo di Wagner evoca suoni intimi di cameristica. Dal suono chiaro e leggero, quasi etereo, si scivola, dolcemente, alle tonalità nere, tragiche. Indimenticabile il Sì bemolle con cui si chiude il ciclo- mai lo avevo sentito tanto pregno di speranza per un’umanità migliore. Un dettaglio: ci sono sei arpe al centro dell’orchestra, come prescritto dalla partitura, non due sistemate in un a palco di proscenio , come si usa di frequente.
Quale strada scegliere dipende da gusti personali e da risorse, finanziarie e artistiche, disponibile. Il vostro “chroniqueur” preferisce quella umana, troppo umana di Aix- Salisburgo. Ma il dibattito è aperto.
Produrre il “Ring” è un’intrapresa terrificante: pare che la messa in scena della saga abbia portato negli Anni ‘90 al dissesto il Teatro “Massimo Bellini” di Catania e negli Anni ‘80 a quella del “Regio” di Torino. Tentativi, o meglio conati, di una rappresentazione scenica a Roma sono stati tentati più volte dal 1961, senza mai avere un esito : ne sono state date due edizioni in forma di concerto. L’impresa è una di quelle di fronte alla quale sovrintendenti e direttori artistici non restano insensibili: ad esempio, si sono cimentati di recente, per la prima volta con il “Ring” il “São Carlos” di Lisbona e il Mariinsky di San Pietroburgo, a Seattle è stato costruito un teatro apposito dove da 30 anni ogni estate il ciclo delle quattro opere viene rappresentato, all’English National Opera lo si canta in inglese arcaico per dare al pubblico britannico fremiti analoghi a quelli che ha il pubblico tedesco.
Questa estate terminano tre “Ring” di rilievo artistico prodotti negli ultimi anni rispettivamente il primo dal Maggio Musicale Fiorentino e dal Palau de la Reina Sofia di Valencia, il secondo dal Teatro La Fenice di Venezia e dal Teatro dell’Opera di Colonia e il terzo dai Festival di Aix-en-Provence e di Salisburgo. Sono le prime edizioni di spessore prodotte questo secolo. Forniscono indicazioni importanti per il futuro.
Iniziaziamo dal “Ring” di Venezia e Colonia. Il regista canadese Robert Carsen (le scene e i costumi sono di Patrick Kinmonth) opta per un’interpretazione storico-politica, analoga per molti aspetti a quelle che si sono viste in Germania, Gran Bretagna, negli Usa e anche in Italia negli Anni ‘70 e ’80. L’Italia può rivendicare la primogenitura. La Scala iniziò, nel 1974, un “Ring” ambientato nell’epoca della prima industrializzazione (scene e costumi Pierluigi Pizzi, regia Luca Ronconi); vennero realizzati unicamente il prologo e la prima opera (“Die Walkirie”) e il progetto venne interrotto per dissapori con Wolfgang Sawallisch, maestro concertatore e direttore d’orchestra. Venne ripreso, poi, nel 1979-82 a Firenze con la bacchetta allora altamente drammatica di Zubin Mehta. Purtroppo di questa bellissima edizione – il “Ring”, tra l’altro, era quasi interamente rappresentato in interni borghesi di tardo ottocento - sono state distrutte le scene. Vi è un bel cofanetto DvD del “Ring” del centenario della prima esecuzione integrale a Bayreuth: nel 1976 Patrice Chéreau e Pierre Boulez sorpresero il mondo con una lettura simile a quella di Pizzi-Ronconi-Mehta, ma, da un lato, con accenni favolistici e, dall’altro, con tempi più serrati. Prima del DvD, questa produzione Chéreau-Boulez ha fatto il giro del mondo grazie a una fortunata trasposizione televisiva ospitata pure in sale cinematografiche. Da “Ring” ambientati in epoca wagneriana d’industrializzazione, a quelli in epoca guglielmina e nazista il passo è breve. I “Ring” in cui o i nibelunghi o i ghibicunghi erano nazisti, mentre Sigfrido e Brunilde erano socialisti tesi verso il futuro, hanno pullulato soprattutto in Germania orientale, Polonia e Ungheria ma anche in edizioni nel mondo occidentale. Carsen e Kinmonth ritornano a questo filone. Ma i tempi sono cambiati. Nella Reggia , sventolano vessilli rosso fuoco . Il Palazzo è macero e corrotto . Il “Crepuscolo degli Dei” è pure la fine di un regime totalitario-comunista. Nell’ultima scena, l’incendio del Palazzo reale, il crollo di quello degli Dei, lo straripamento del Reno che “lava” e purifica la terra, pare indicare anche l’abbattimento del muro di Berlino. Altri aspetti confermano questa lettura tedesco-orientale: i costumi anni ‘50 nella festa nuziale nel secondo atto, le vesti povere delle norme, di Sigfrido e di Valchiria, la soffitta piena di mobili anni ‘30 e ‘40 in cui operano le norme, il fiume trasformato in discarica. Come in altre regie di Carsen, c’è anche una buona dose di sesso.
Completamente differente la chiave di lettura del Ring di Firenze e Valencia L’allestimento de la Fura dels Baus è un esempio di teatro totale in cui, non solo grazie ai sovratitoli si comprende ogni parola, ma musica e dramma sono coniugati con alta tecnologia (da proiezioni anche tridimensionali su dieci enormi schermi ad effetti speciali da film hollywoodiano), con acrobazie, con movimenti coreografici. Tecnologia, acrobazie e movimenti coreografici non solo rispettano la complessa partitura ma sono studiati in modo da esaltarla e da meglio far intendere i complicati intrecci tematici. Per sei ore (intervalli compresi) lo stupore degli spettatori non ha soluzioni di continuità. Lo spettacolo (che sarebbe potuto scivolare nel cattivo gusto) coglie e mantiene un delicato equilibrio tra fantascienza e poesia, dando rilievo ai momenti intimistici ma volta le spalle a letture politico-sociologiche
Prima di trattare del Ring di Aix e Salisburgo , è utile ricordare che sino all’inizio degli Anni 60), le messe in scene del Ring si basavano su ricostruzioni (spesso piuttosto buffe) in cartapesta della Germania mitologica quale vista con il cannocchiale di intellettuali tedeschi della fine del XIX secolo: tipiche a Bayreuth dal debutto nel 1876 alla fine della seconda guerra mondiale), ne vidi una a Roma da ragazzo. Successivamente si sono privilegiato letture simbolico-astratte sul tipo di quelle di Wieland Wagner, con le scene di Adolphe Appia fatte quasi esclusivamente di luci (tornate a volte di moda negli Anni 90).
A Aix e Salisburgo, Stéphane Braunschweig (regia e sceene), con la collaborazione di Thibault Vancraenenbroek (costumi) e luci (Mario Hwelett) e Sir Simon Rattle alla guida dei Berliner Philarmoniker non forniscono né una lettura “politica” né una filosofica né una fantasmagorica. Gli archetipi mitologici di Wagner sono, uomini e donne (pur se Dei), alle prese con le loro passioni. La scena è composta di tre pareti grigie ed una scalinata . L’attrezzeria è fatta di tre sedie, una poltrona in pelle, due letti ed alcuni tronchi astratti d’albero; le proiezioni ci offrono la profondità delle acque del Reno e l’incendio , con straripamento finale. Le luci fanno il resto tramite un abile gioco di colori. Sul palcoscenico non solo non ci sono foreste, palazzi reali e fiumi di cartapesta, costumi proto-tedeschi o nazisti o stalinisti tedesco-orientali, ma uomini e donne in abiti moderni come i nostri. Ci vuole un grande lavoro di recitazione per rendere , in un quadro così spoglio (quasi minimalista), l’intrigo di tradimenti ed amori che portano alla fine non solo degli Dei ma anche di un’intera classe dirigente terrena tale da tenere l’attenzione tesa per circa 6 ore. Un vero capolavoro di recitazione da parte di cantanti-attori selezionati con cura ed addestrati per mesi in questo Ring di cui un editore franco-tedesco-giapponese si è già assicurato i diritti televisivi e di riproduzione in DvD. Altra caratteristica è l’aspetto musicale. Nel golfo mistico c’è una formazione sinfonica che, di rado, entra nel comparto del teatro in musica: i Berliner Philarmoniker, guidati da Sir Simon Rattle (il loro Maestro stabile).Il Ring diventa una smisurata sinfonia sull’umanità alla ricerca di un nuovo , e migliore, futuro. Una meraviglia di colore, di sfumature, di virtuosismo in cui il sinfonismo continuo di Wagner evoca suoni intimi di cameristica. Dal suono chiaro e leggero, quasi etereo, si scivola, dolcemente, alle tonalità nere, tragiche. Indimenticabile il Sì bemolle con cui si chiude il ciclo- mai lo avevo sentito tanto pregno di speranza per un’umanità migliore. Un dettaglio: ci sono sei arpe al centro dell’orchestra, come prescritto dalla partitura, non due sistemate in un a palco di proscenio , come si usa di frequente.
Quale strada scegliere dipende da gusti personali e da risorse, finanziarie e artistiche, disponibile. Il vostro “chroniqueur” preferisce quella umana, troppo umana di Aix- Salisburgo. Ma il dibattito è aperto.
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