domenica 14 dicembre 2008

MUTI DEBUTTA A ROMA CON “OTELLO” E VI RESTA PER QUATTRO ANNI, L'Occidentale 14 dicembre

Nonostante la soddisfazione ostentata ufficialmente, ai piani alti della Scala non sono del tutto contenti per l’esito della serata di Sant’Ambrogio. Al termine del “Don Carlo”, con il quale si è inaugurata la stagione 2008-2009, ci sono stati 8 minuti d’applausi – pochi rispetto alle attese ed ai circa 15 che un anno fa avevano coronato la prima del “Tristan und Isolde”. Inoltre, non sono mancati i fischi nei confronti del direttore musicale e del regista-scenografo. Un applauso dal loggione all’ingresso in sala di Giuseppe Filianoti (escluso all’ultimo momento dal ruolo principale nella prima); il giovane tenore ha mostrato spirito sportivo dichiarando alla stampa di “non nutrire rancore”, ma pare che i suoi avvocati stiano trattando un risarcimento milionario (in euro) poiché per vestire i panni di Don Carlo Filianoti ha rinunciato a importanti scritture a Washington ed a Roma. La spina peggiore nel fianco del management della Scala è il successo travolgente ottenuto a Roma dall’”Otello” co-prodotto dal Teatro dell’Opera con il Festival di Salisburgo e la cui direzione musicale è stata affidata a Riccardo Muti, per lustri il “patron”, ove non il rais, della Scala (dove faceva il bello ed il cattivo tempo) ed adesso in rottura con la sala del Piermarini.
La prima di “Otello” è stata programmata per il 6 dicembre, la vigilia di quella della Scala. Quando Lissner ha annunciato una Primina per il 4 dicembre, Roma ha subito organizzato un’anteprima aperta al pubblico pagante sempre per il 4 dicembre. Quindi, siamo tra la sfida con sana competizione tra due teatri ed i ripicchi tra prime donne (dato che l’ambiente è il mondo della lirica). Muti non aveva mai messo piede (nella veste di maestro concertatore al Teatro dell’Opera); “Otello” vi mancava da 40 anni. Cinque Ministri mobilitati a Milano, ma il Sottosegretario Letta era nel palco del Sovrintendente e parte importante dell’intellighentsia musicale nella platea e nei palchi del teatro della capitale. Successo strepitoso sia all’anteprima sia alla prima. Tanto che Muti, entusiasta di orchestra e maestranze, si è impegnato ad essere a Roma per quattro stagioni – ciascuna con un nuovo allestimento (in febbraio “Iphigénie en Aulide” di Gluck).
Ma andiamo allo spettacolo . L’allestimento (regia di Stephen Landgridge, scene di George Souglides, costumi di Enna Ryott) è improntato ad una marcata stilizzazione.. La tragedia è incastonata in un luogo unico a tre piani che ricorda l’impianto scarno del film di Orson Wells del 1952 in varie tonalità di nero e di grigio, con sprazzi di bianco. In questa struttura, la morsa si stringe come una tenaglia. Curatissima ma essenziale la recitazione che pur forza i protagonisti a posizioni difficili per il canto. Qualche sbavatura forse nel balletto e nella visione a distanza di un’annunciazione nel secondo atto. Efficace, invece, il senso del deserto (ancora una volta ripreso da Wells)
Pur dando una lettura serrata, stringendo i tempi piuttosto che dilatandoli, l’orchestra del Teatro dell’Opera, guidata da un Riccardo Muti in stato di grazia, svela dettagli raramente messi in risalto (ad esempio, nelle parti timbriche e nelle sezioni dei fiati) e mostra a tutto tondo la scrittura visionaria del settantenne Verdi, però ancora giovanissimo tra i suoi contemporanei e proteso verso l’avvenire. Nonostante una breve défalliance nell’”Ave Maria” (da cui si è peraltro subito ripresa) Marina Poplavskaja è una Desdomona da antologia, ai livelli di Renata Tebaidi o, in tempi più recenti, di Kiri Te Kanawa; mirabile la sua inflessione limpidissima. Giovanni Meoni ci dà uno Iago luciferino, nella inflessione della voce e negli occhi. Ed il protagonista? Il giovane lituano Aleksandrs Antonenko manda in pensione Vladimir Galouzine che per un decennio è stato l’Otello “par excellence”. Ha una straordinaria dizione ed uno strumento vocale di una duttilità e di una potenza impressionanti.
Questo “Otello” viene letto come il segno di una svolta che dovrebbe riportare il Teatro dell’Opera di Roma – nonostante i vincoli strutturali (un palcoscenico costruito su una palude e, quindi, non modernizzabile, una localizzazione in un’aurea di grande prestigio a fine Ottocento-inizio Novecento ma ora in degradi – ai fasti di un tempo. Per il 2009, il Teatro presenta, nelle due sale di cui dispone, 18 titoli d’opera, di cui cinque (“Aida”, ma con l’innovativa regia di Robert Wilson, “Pagliacci”, “Tosca” , “Carmen” e “Traviata”) del repertorio tradizionale. Tra gli altri spiccano rarità come “Le Grand Macabre” di György Ligeti (in Italia visto solamente nel 1978 a Bologna), ed “Iphigénie en Aulide” di Christoph Willibald Gluck, diretta da Riccardo Muti, e “Tannhauser” di Richard Wagner in una lettura molto moderna di Robert Carsen. C’è molta attenzione al Novecento ed all’opera contemporanea, con ben tre prime mondiali (“The Blue Placet” di Goran Brergovic, “Futurismo” e “Il Re Nudo” di Luca Lombardi, quest’ultima commissionata dal Teatro), la prima europea di un successo negli Usa (“For You” di Michael Berkely) , due prime per l’Italia (“Eiselmaterial” di Heiner Goebbles e “Cassandra” di Michael Jarrell), nonché “Jacob Lenz” di Wolfgang Rhim (vista solo per due sere a Macerata), “Pelléas et Melisande” di Claude Debussy (assente da Roma da un quarto di secolo), “La Mia Scena è un Bosco” di Emanuele Luzzati su musiche che spaziano da Mozart a Maderna. Un cartellone, quindi, più vasto e più innovativo di quello della Scala. Se il pubblico lo apprezzerà, la sala del Piermarini non potrà più vantare che i primati di cui si gloriano le ex-belle donne.

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