Il giorno dopo, si tirano le somme. Pure del Sant’Ambrogio scaligero. La sera del 7 dicembre, in un palco di terza fila, Giuseppe Filianoti ostentava sereno spirito sportivo. Ciò che si addice ad un tenace giovane di Reggio Calabria, che nel 2004 ha ricevuto il Premio Abbiati (l’Oscar della lirica) come migliore voce dell’anno , è stato poi a lungo lontano dalle scene per malattia (si dice che ha visto in faccia la morte), è tornato trionfalmente sul palcoscenico del Teatro Massino di Palermo il 23 gennaio 2008 in un ruolo impervio ( Faust in “Mefistofele” di Arrigo Boito) ed in settembre ha avuto un successo strepitoso al Teatro dell’Opera di Zurigo come protagonista di quel “Don Carlo” da cui era stato appena allontanato ed accolto dal pubblico della Scala con fischi misti a quegli applausi mai negati da invitati ad una soirée a € 2.000 a poltrona. Non so se a Roma, reduce d’ ovazioni da stadio all’“Otello” concertato la sera prima, Riccardo Muti mostrava anche lui tranquillo distacco quando su Sky all’ingresso di Daniele Gatti in buca al secondo atto si è udita un’artiglieria di proteste. I due esclusi – Muti cacciato dalla Scala circa quattro anni fa e Filianoti dal “Don Carlo” poche ore prima di andare in scena- sono i vincitori di un’inaugurazione (che alla Scala non poteva andare peggio) d’ una stagione di cui “Il Foglio” dell’8 giugno scorso ha documentato i limiti.
In breve, dopo questa tormentata apertura di un cartellone che riscopre il barocco con due titoli, ma quasi ignora il Novecento e presenta pochissimi nuovi allestimenti, la Scala non potrà più vantare di essere il teatro “d’eccellenza” e di avere un trattamento iper-preferenziale nell’allocazione dei pochi fondi pubblici disponibili per la lirica.
Già in giugno “Il Foglio” aveva avvertito che “Don Carlo” è un titolo a rischio, dove ci sono stati fischi anche il Sant’Ambrogio 1992. Allora, le bordate erano rivolte a Luciano Pavarotti che – i suoi biografi lo ammettono – non solo era poco adatto alla parte ma la aveva studiata poco e male. Domenica sera le proteste sono state nei confronti di regia, scene, costumi e direzione musicale – gli aspetti centrali del teatro in musica.
Sono un ammiratore di Stéphane Braunschweig, regista che opera in partnership con il costumista Thibault van Craenenbroeck. Gli attribuisco il più bel “Ring” wagneriano (quello co-prodotto da Aix-en-Provence e Salisburgo) degli ultimi trent’anni, magnifiche letture di “Jenufa” e “Caso Makropoulos” di Léos Janaceck , di “Salomé” ed “Elettra” di Richard Strauss. Già nel 1999, con “Rigoletto” a La Monnaie a Bruxelles, apparve chiaro che la sua sensibilità fosse molto distante da Verdi (l’intera azione si svolgeva tra le bare di un cimitero psicodelico). “Don Carlo” è opera squisitamente politica: gli allestimenti di Luchino Visconti, Franco Zeffirelli, Mauro Bolognini, Jean-Pierre Ponelle, Luciano Damiani , John Dexter hanno dimostrato come la chiave di lettura sia il disfacimento di una classe politica, quella degli Asburgo di Spagna. Può essere anche attualizzato come nel nuovo allestimento alla Staatsoper di Berlino. Braunschweig la riduce invece ad una vicenda d’adulterio (rato non consumato) in una struttura scenica minimalistica in cui i protagonisti vestono sontuosi abiti cinquecenteschi ma le masse sono tratte da “Il quarto stato” di Giuseppe Pellizza da Volpedo. In aggiunta, lo psicodramma è infarcito da simbolismo spicciolo con i “buoni” ciascuno con un doppio che lo raffigura bambino e i “cattivi” che nella scena finale si pentono e pregano Iddio (una conclusione mai concepito da quell’ateo tormentato che era Verdi).
Questo concetto drammaturgico è stato aggravato dalla concertazione di Daniele Gatti. E’ un direttore d’orchestra che ama dilatare i tempi (il primo atto del suo “Parsifal” romano nel gennaio 2008 è durato due ore invece di un’ora e tre quarti come prescritto da Wagner). Il 7 dicembre, quando si accorgeva di averli dilatati troppo, accelerava, con effetti da banda, e mettendo in difficoltà un cast in cui brillavano i due sperimentatissimi anziani, Dolora Zajick e Ferruccio Furlanetto, mentre gli altri erano ad un buon livello medio. Nulla di grave se si fosse in un teatro secondario tedesco ma non dove si pretende essere il tabernacolo della lirica.
A fronte di questi errori, le sbavature di Filianoti (il 4 dicembre ha scansato alcuni acuti ed ha sbagliato una tonalità al terzo atto) sono roba da ridere. E’ invece da piangere lo stato complessivo de La Scala. Per fortuna, il 6 dicembre, nella tanto criticata Roma, l’”Otello” diretto da Muti ha mostrato che se e quando vuole , in materia di teatro in musica, l’Italia non sfigura di fronte a nessuno.
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