Roma, 9 dic (Velino) - Sul “Don Carlo” inaugurale della Scala il VELINO CULTURA si è già espresso. In sintesi, si tratta di uno spettacolo da applaudire a una diurna domenicale in un teatro tedesco di media portata, ma non all’altezza di una fondazione che si propone “d’eccellenza” e chiede, quindi, un trattamento speciale nell’allocazione degli scarsi fondi pubblici per il teatro in musica. Occorre, invece, soffermarsi sull’“Otello” presentato il 6 dicembre al Teatro dell’Opera di Roma. Il titolo mancava dalla Capitale da 40 anni. È la prima volta che Riccardo Muti lavora al Teatro dell’Opera. L’allestimento è una co-produzione internazionale con il Festival di Salisburgo che si vedrà, dal vivo anche a Vienna e Madrid e Barcellona, ma che è già un successo su canali specializzati come “ArTe” in Francia e Germania e “Classica” su Sky in Italia. Negli ultimi dieci anni, “Otello” si è visto a Firenze, a Milano e a Parma al chiuso e a Macerata e Verona all’aperto (se si eccettuano rappresentazioni in circuiti minori). La difficoltà principale è avere un tenore all’altezza di una parte che Verdi e Boito concepirono espressamente per Francesco Tamagno, dotato notoriamente di capacità vocali e sceniche inversamente proporzionali a quelle intellettuali.
Alla “trilogia popolare” di Verdi che ha appena raggiunto la maturità (“Rigoletto”, “Trovatore” e “Traviata”) e in cui codifica il melodramma del XIX secolo, occorre giustapporre il dramma in musica della “trilogia della perfezione” (“Aida”, “Otello” e “Falstaff”) di Verdi tra i 60 e gli 80 anni ma proteso verso il XX secolo. Le tre versioni di “Don Carlo” sono tappe importanti verso il dramma in musica dell’ultima fase verdiana. Sono tre opere senza una nota in più o una in meno, fatta eccezione di alcuni ballabili aggiunti per l’edizione parigina della seconda versione. Il melodramma e le sue convenzioni sono ormai superate e, metabolizzata in vario grado la lezione wagneriana, siamo già nel musikdrama del XX secolo in cui parola e musica sono fuse in quadri ininterrotti, il declamato si trasforma in ariosi e concertati, l’orchestra e il canto sono in stretto equilibrio, i “pezzi chiusi” non esistono più e vengono incorporate forme antiche (fughe, anche ciaccone) in strutture musicali modernissime. La produzione di “Otello” richiede uno sforzo enorme. In primo luogo, per decenni le interpretazioni sono state maldestramente tinte di verismo, mentre siamo alle prese con un lirismo stilizzato e innovativo che anticipa il grande teatro del Novecento (ad esempio “Wozzeck” e “Peter Grimes”).
In secondo luogo, la difficoltà oggettiva di trovare un protagonista in grado d’essere fragilissimo, dietro l’apparenza di forza e solidità, e di cantare come un heldentenor nell’“Esultate!”, di raggiungere intonazioni baritonali nel secondo e terzo atto, di emettere legati morbidissimi e tenerissimi nel duetto d’amore e di scivolare in un diluendo dolcissimo nella scena finale. In terzo luogo, la necessità di una straordinaria perizia orchestrale in quanto Verdì regalò a “Otello” la scrittura più ricca di tutta la sua musica. La produzione internazionale presentata a Roma è, innanzitutto, tutt’altro che banale come hanno scritto dopo il debutto in agosto a Salisburgo alcuni critici chiaramente di parte e schierati con la Scala di cui digeriscono qualsiasi errore. L’allestimento per la regia di Stephen Langridge, le scene di George Souglides e i costumi di Enna Ryott, è improntato a una marcata stilizzazione anti-verista. Si giustappone nettamente ai velieri e i castelli in cartapesta di una Cipro di maniera da film di corsari. La tragedia è incastonata in un luogo unico a tre piani che ricorda l’impianto scarno del film di Orson Wells del 1952 in varie tonalità di nero e di grigio, con sprazzi di bianco. In questa struttura, la morsa si stringe come una tenaglia. Curatissima ma essenziale la recitazione che pur forza i protagonisti a posizioni difficili per il canto.
E’ una tragedia d’intolleranza razziale e gelosia, tenuta con grande intensità dall’apertura del sipario alla fine (tra i quattro anni c’è solo un breve intervallo). Qualche sbavatura forse nel balletto e nella visione a distanza di un’annunciazione nel secondo atto. Efficace, invece, il senso del deserto ancora una volta ripreso da Wells. Per quanto riguarda la parte musicale, pur dando una lettura serrata, stringendo i tempi piuttosto che dilatandoli, l’orchestra del Teatro dell’Opera, guidata da un Riccardo Muti in stato di grazia, svela dettagli raramente messi in risalto (ad esempio nelle parti timbriche e nelle sezioni dei fiati) e mostra a tutto tondo la scrittura visionaria del settantenne Verdi, però ancora giovanissimo tra i suoi contemporanei e proteso verso l’avvenire. Nonostante una breve defaillance nell’ “Ave Maria”, da cui si è peraltro subito ripresa, Marina Poplavskaya è una Desdomona da antologia, ai livelli di Renata Tebaldi o, in tempi più recenti, di Kiri Te Kanawa: mirabile la sua inflessione limpidissima. Giovanni Meoni ci dà uno Iago luciferino, nella inflessione della voce e negli occhi. E il protagonista? Il giovane lituano Aleksandrs Antonenko manda in pensione Vladimir Galouzine che per un decennio è stato l’Otello par excellence. Ha una straordinaria dizione e uno strumento vocale di una duttilità e di una potenza impressionanti.
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