Il 2008 si chiude male. Ed il 2009 si apre peggio. Come anticipato già nel 2007 su “Libero Mercato”, la crisi finanziaria si sta estendendo ed approfondendo (nonostante le misure – tutte di breve periodo – prese dai principali Paesi interessarti allo scopo di contrastarla). Mentre la finanza è ancora attraversata da turbolenze, è in atto un rallentamento dell’economia reale: i 20 istituti del consensus (20 centri di analisi economica privati – neanche uno è italiano) mostravano, la sera del 23 dicembre, recessione nel Nord America e nell’Ue per tutto il 2009 e spiragli di ripresa nella seconda metà del 2010. Rallenta di circa un terzo anche il tasso di crescita della Cina – che è stata la locomotiva del bacino del Pacifico negli ultimi due lustri. Si contrae il commercio mondiale, come esaminato su “Libero Mercato” di martedì scorso.
Recessione vuole inevitabilmente dire diminuzione dell’occupazione ed aumento del malessere, soprattutto per le fasce più deboli della società. Già in novembre, nel documento dell’Isae (Istituto studi ed analisi economica) “Politiche pubbliche e redistribuzione”, in base a rilevazioni di oltre sei mesi fa, si affermava che la “percezione di povertà” stava crescendo (sei famiglie su 10 si considerano oggi più povere di quanto lo fossero ieri) e che alcuni strumenti (quali l’Isee) lasciassero a desiderare a ragione della qualità della base informativa per la loro applicazione (la banca dati del fisco che non riesce a cogliere fenomeni d’evasione e d’elusione). Una più recente indagine Istat dice che la percentuale delle famiglie che qualche volta non ha sostanze sufficienti a procurarsi cibo è passata dal 4,2% nel 2006 al 5,%; il 33% delle famiglie non può fare fronte (secondo l’analisi) a spese impreviste che superano i 700 euro. Quindi, nel nostro Paese la recessione s’inserisce in un contesto già marcato da forte disuguaglianze e povertà. Tanto le prime quanto la seconda minacciano di aggravarsi con il temuto aumento della disoccupazione. Da noi disuguaglianze e povertà rischiano di mordere più che altrove in Europa perché la previdenza assorbe oltre la metà della spesa sociale e gli ammortizzatori sono pochi e deboli. Risultato di troppi lustri di politica sociale diretta a difendere i ceti sindacalmente forti le cui radici sono nella normativa previdenziale varata, nell’arco di due mesi, nel 1968-69.
Come fare fronte a tale situazione? Negli ultimi giorni si ventila sempre più spesso l’idea di una riduzione degli orari di lavoro – presumibilmente in imprese medio grandi. Gli economisti classici (e Marx) hanno sempre posto il lavoro alla base della teoria stessa del valore e, dunque, della crescita economica. Cinque anni fa il Premio Nobel Edward C. Prescott ha dimostrato quantitativamente che in Europa si lavora molto meno che negli Usa ed in Asia (mediamente un americano lavora, ogni anno, il 40% di più di un europeo) e che questa è una delle determinanti del fenomeno di lungo periodo a ragione del quale l’Ue è, secondo una felice espressione di Mario Baldassarri, “la bella addormentata”, aggredita dalle tigri asiatiche e vulnerabile al più piccolo raffreddore americano. Una riduzione generalizzata degli orari di lavoro, quindi, potrebbe alleviare nel breve periodo alcune categorie (distribuendo in modo più egalitario il lavoro disponibile) ma non sarebbe una ricetta per la ripresa. Anzi aggraverebbe il torpore della “bella addormentata”, ed ancora di più di quella “bellissima addormentata” che è l’Italia. Ciò non vuol dire – si badi bene – non utilizzare più ampiamente strumenti come i “contratti di solidarietà”, che hanno già dato buona prova nella recessione a cavallo tra la fine degli Anni 80 e l’inizio degli Anni 90. Prima di pensare ad una riduzione generalizzata degli orari, occorre, però, rimuovere la balcanizzazione del mercato del lavoro che (con circa 50 fattispecie contrattuali) pone un peso regolatorio su tutti gli italiani ed uno molto forte sulle categorie più fragili (titolai di varie forme di contratti a termine). Occorre anche trovare le risorse per rendere davvero di standard europeo gli ammortizzatori sociali (ancora basati su una concezione d’economia corporativa – di cui l’elemento tipico è la cassa integrazione).
Pur tamponando questa o quella situazione con la cassetta degli attrezzi esistente, occorre delineare un percorso che consenta agli italiani di lavorare in più, di lavorare di più, di lavorare meglio (ossia con una migliore distribuzione del rischio di perdere l’occupazione).
Lo si può fare operando simultaneamente su due fronti a) la normativa sul lavoro e b) la normativa sulla previdenza. Il complesso di norme che vanno sotto il nome di “legge Biagi” hanno rotto molti tabù e meglio codificato varie fattispecie; hanno, però, volenti o nolenti, contribuito alla balcanizzazione del mercato del lavoro italiano. Occorre andare verso un contratto unico con ( se necessario) periodi di prova più lunghe e tutele indennitorie in caso di licenziamento. Riforme di questa natura sono state proposte in Francia a fine 2006 in un saggio d’Etienne Wasmer dell’Observatoire Français de Conjonctures Economique. Sarkozy le ha già attuate. Le hanno fatte proprie alcuni economisti e giuristi italiani. Dovrebbero essere alla base di una proposta di legge a cui sta lavorando Pietro Ichino: mi auguro che sia bipartisan e che abbia un iter accelerato. Il Governo ha perso un’occasione importante di dare leadership in questo campo.
Può riacquistarla, prendendo il grimaldello offertogli da Renato Brunetta. Al di là degli aspetti legali (ottemperare ad una sentenza della Corte di Giustizia europea), la proposta di uniformare l’età di pensionamento delle lavoratrici di genere femminile a quella dei lavoratori di genere maschile non ha grande un impatto immediato. I dati indicano che in Italia l’età effettiva di pensionamento è in pratica già molto simile per i lavorati di genere femminile e per quelli di genere maschile. Inoltre, la transizione verso il sistema di calcolo contributivo per le spettanze e la crescente consapevolezza che l’indicizzazione copre soltanto parte dell’aumento del costo della vita inducono le donne a restare nel mercato del lavoro molto di più di quanto non lo faccia l’età legale per la pensione di vecchiaia. Come già sottolineato su “Libero Mercato”, le donne italiane non entrano nell’impiego perché a casa fanno il 73% del lavoro domestico (compresa la cura dei figli) rispetto al 62% delle americane (il resto è affidato ai mariti). La proposta di Brunetta, però, fornisce al Governo ed al Parlamento un grimaldello per aprire la scatola delle riforme previdenziali proprio quando l’impongono tre determinanti: a) le riforme iniziate nel 1995 sono incompiute e specialmente perché prevedono una transizione molto lunga (18 anni , e circa 30 anni per le pensioni di reversibilità, mentre in altri Paesi, ad esempio in Svezia, processi analoghi sono state effettuati in tre anni); b) la “riforma Damiano”, dal nome del Ministro del Governo Prodi, ha aumentato i costi del sistema ; c) la crisi finanziaria mondiale ed il rallentamento dell’economia reale ci pongono di migliorare gli ammortizzatori sociali.
Aprendo la scatola per adeguare l’età legale per le pensioni di vecchiaia per le donne, si ha l’opportunità di scorciare la durata della transizione (da meccanismo “retributivo” a meccanismo “contributivo” per il calcolo delle spettanze) e rivedere i “coefficienti di trasformazione”) per convertire in assegni annuali i montanti di contributi contabilizzati. Altrimenti non si rimette l’Italia a lavorare e non si da sollievo a chi perde il lavoro.
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