Il Teatro dell’Opera di Roma e la Scala di Milano hanno incrociato le spade il fine settimana del 6-7 dicembre. Alla vigilia di Sant’Ambrogio – dove alla Scala si presentava un nuovo allestimento di “Don Carlo” (nella versione 1884) diretto da Daniele Gatti-, all’Opera di Roma si è visto ed ascoltato “Otello” , co-prodotto con il Festival di Salisburgo, con la direzione musicale di Riccardo Muti. Sono due opere del Giuseppe Verdi maturo. La prima mancava a Milano dall’allestimento del 1992 (che segnò la fine di Luciano Pavarotti, fischiato a più riprese dal loggione). La seconda era essente da Roma da quaranta anni e Muti non aveva mai diretto nel teatro della Capitale (dove sarà presente per un’opera l’anno nel prossimo futuro). Due allestimenti minimalisti (in termini d’apparato scenico). Quello del “Don Carlo”, firmato da Stéphane Braunschweig, punta sulla psicologia dei protagonisti (non sulla dissoluzione del potere degli Asburgo di Spagna (e dalla società che li contorna) come in allestimenti celebri di Visconti, Zeffirelli e Bolognini (per non citare che gli italiani); è infarcito di simbolismo stucchevole. Quello di “Otello”, firmato da Stephen Landgridge , riprende molto efficacemente le idee di base del film di Orson Wells del 1952 (scena unica grezza a più piani, immagini del deserto, senso quasi di claustrofobia e di una tenaglia che stringe i due protagonisti). Dilatata la direzione musicale di Gatti ; vibrante quella di Muti. Solisti sperimentati (ma sostituzione del protagonista alla vigilia della prima) alla Scala. Tre giovani voci eccezionali a Roma. Ad accentuare ancora di più il clima di sfida, il 4 dicembre a Milano c’è stata un’anteprima per i giovani (meno di 26 anni) ed a Roma un evento analogo per chi non è riuscito a procurarsi un biglietto per la prima o per le repliche. Sui due spettacoli mi sono espresso altrove in sede tecnico-musicale. Il 6-7 dicembre Roma ha, a mio parere, chiaramente vinto su Milano (dove gli applausi sono stati pochi ed accompagnati da “booh” nei confronti di regista e direttore musicale).
Una rondine, però, non fa primavera. Mettiamo a raffronto i cartelloni 2009 delle due fondazioni (limitandoci al teatro in musica- ambedue danno molto spazio alla danza ed hanno oltre 200 serate in calendario). Sia Milano sia Roma sviluppano, in questi tempi di restrizioni finanziarie, una saggia politica di co-produzioni con i maggiori teatri stranieri. Ci sono, però, differenze marcate. In primo luogo, soltanto quattro dei 13 titoli programmati alla Scala sono nuovi allestimenti. Si riprongono gli allestimenti delle ultime tre inaugurazioni di stagione (ossia del “triennio” Stépame Lissner), un’idea che può sembrare auto-celebrativa e poco appropriata: mentre il “Tristano ed Isotta” di Richard Wagner del 2007 è stato un successo sotto tutti i profili (per questa ragione ha avuto il “Premio Abbiati”, l’Oscar della Lirica), “Idomeneo” di Wolfgang A. Mozart del 2005 è apparso discutibile sotto il lato della regia e “Aida” di Giuseppe Verdi del 2006 sotto quello vocale. Si ripescano due allestimenti vetusti di Luca Ronconi: il “Viaggio a Reims” è stato concepito per il piccolo Auditorium Pedrotti di Pesaro (400 posti invece dei 1800 della Sala del Piermarini) nel 1984 ed è apparso striminzito nei palcoscenici della Scala e di Vienna (quando là messo una ventina d’anni fa); “L’Affare Makroupolos” di Léos Janaceck risale al 1993 ed è stato già visto a Torino, a Bologna ed a Napoli. Presentano indubbiamente interesse le nuove produzioni di “Alcina” di Georg Haendel, “A Midsummer Night’s Dream” di Benjamin Britten (nell’allestimento già visto a Aix en Provence nel 1998 ed in teatri di mezza Europa), “Assassinio nella Cattedrale” di Ildebrando Pizzetti, “L’Orfeo” di Claudio Monteverdi e “Le Convenienze ed Incovenienze Teatrali” di Gaetano Donizzetti. Tranne l’opera di Pizzetti, tutti questi lavori sono stati concepiti per teatri di piccole dimensioni, con organici orchestrali ridotti e un numero limitato di solisti. Nessuna (tranne forse “Alcina”) permette di utilizzare il costoso palcoscenico di cui si è dotata La Scala; sino ad ora unicamente Franco Zeffirelli è stato capace di impiegarne a pieno il potenziale (per l’”Aida” del 2006). Quirino Principe, un musicologo di rango, ha salutato con soddisfazione il ritorno del barocco con due titoli (“Alcina” e “L’Orfeo”) ma ha anche giustamente lamentato la scarsa presenza del Novecento e soprattutto di titoli nuovi o in “prima” o mondiale oppure italiana.
Il Teatro dell’Opera di Roma presenta, nelle due sale di cui dispone, 18 titoli, di cui cinque (“Aida”, ma con l’innovativa regia di Robert Wilson, “Pagliacci”, “Tosca” , “Carmen” e “Traviata”) del repertorio tradizionale. Tra gli altri spiccano rarità come “Le Grand Macabre” di György Ligeti (in Italia, visto solamente nel 1978 a Bologna), ed “Iphigénie en Aulide” di Christoph Willibald Gluck, diretta da Riccardo Muti, e “Tannhauser” di Richard Wagner in una lettura molto moderna di Robert Carsen. C’è molta attenzione al Novecento ed all’opera contemporanea, con ben tre prime mondiali (“The Blue Placet” di Goran Brergovic, “Futurismo” e “Il Re Nudo” di Luca Lombardi, quest’ultima commissionata dal Teatro), la prima europea di un successo negli Usa (“For You” di Michael Berkely) , due prime per l’Italia (“Eiselmaterial” di Heiner Goebbles e “Cassandra” di Michael Jarrell), nonché “Jacob Lenz” di Wolfgang Rhim (vista solo per due sere a Macerata), “Pelléas et Melisande” di Claude Debussy (assente da Roma da un quarto di secolo), “La Mia Scena è un Bosco” di Emanuele Luzzati su musiche che spaziano da Mozart a Maderna.
In sintesi, mentre la stagione 2009 della Scala pare asfittica e volta principalmente ad un pubblico tradizional-conservatore, quella dell’Opera di Roma, pur avendo cinque titoli (su 18) marcatamente nazional-popolari, ha un contenuto innovativo forse eccessivo per chi è uso a frequentarne le due sale. Se eccellenza vuole dire innovazione (e coraggio) appare chiaro chi la merita (sempre che i risultati effettivi siano commensurati alle attese).
Mentre La Scala è incardinata nella società milanese ed è localizzata nella parte più elegante del centro, le due sale dell’Opera di Roma hanno perso, negli ultimi trent’anni, il radicamento nella città per vari motivi: frequenti tensioni sindacali, una localizzazione in zona elegante alla fine dell’Ottocento ma ora in degrado (l’epicentro dell’attività artistica si è spostato nel Parco della Musica, a Nord Ovest), una programmazione altalenante. E’ vero che dati alla mano, oggi Roma offre tanta musica contemporanea quanto Berlino (tramite le sue cinque orchestre stabili – di cui due interamente private-, il Roma-Europa Festival, Nuova Consonanza e le stagioni delle 13 università) ad un pubblico giovane ma a prezzi stracciati rispetto a quelli del Teatro dell’Opera. Se non vengono rivisti i prezzi, adottati biglietti “last minute” ed attuata un’efficace strategia di comunicazione, c’è il rischio che la carica innovativa del programma allontani frequentatori abituali senza attirarne i nuovi (che oggi nella capitale affollano altre istituzioni).
La competizione (con la cooperazione tra teatri italiani e stranieri) è in ogni caso la molla per sanare la lirica. Che Roma e Milano abbiamo intrecciato le spade è, quindi, un dato positivo.
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