martedì 23 dicembre 2008

ASTE ALLA VICKREY E PROJECT FINANCING CONTRO IL MALAFFARE, Amministrazione Civile n. 3 2008

L’”economia della criminalità” (comparto che ha avuto notevole sviluppo anche in Italia- al tema è stata dedicato un congresso scientifico della Società Italiana degli Economisti che ha tra l’altro prodotto un’interessante raccolta di saggi a cura di Stefano Zamagni) pare avere perso smalto e lustro. Un lavoro prodotto nell’ autunno 2009 presso le Università di Harvard e di Mercer ( Dills A., Miron J., Summers G.“What do economists know about crime” Nber Working Paper No. W13759) conclude sconsolatamente che gli economisti hanno conoscenze approfondite in materia di reati (specialmente di quelli contro la pubblica amministrazione – quali varie forme di corruzione e di concussione), sanno costruire modelli sui comportamenti di chi li commette (che dovrebbero fornire indicazione su come prevenirli e controllarli) , riescono a stimare i costi derivanti dall’illegalità ma non riescono a formulare proposte concrete. Il lavoro citato si basa su una rassegna di 40 anni di letteratura economica sulla criminalità in una vasta gamma di Paesi (sia ad alto reddito sia in via di sviluppo). L’analisi conclude che gli economisti sanno molto poco in materia del punto centrale: le determinanti empiriche dalla criminalità. Di conseguenza il loro lavoro è di scarso rilievo.
Un’impressione parimenti sconsolata e scoraggiante si ha leggendo nel fascicolo d’ottobre 2008 della rivista “Public Money & Management” il saggio i Chris Painter dell’University of Central England intitolato "A Government Department in Meltdown: Crisis at the Home Office" (“Come si squaglia un Ministero: la crisi del Ministero dell’Interno”, della Gran Bretagna). Painter è un economista ed analizza, con la strumentazione professionale della categoria, una serie di reati che nel 2006 e 2007 hanno coinvolto proprio il dicastero responsabile della sicurezza nel Regno di Sua Maestà Britannica ; gli economisti (pur in servizio presso il Ministero) non sono stati in grado di prevederli , e quindi di contribuire a prevenirli. Ove non bastassero queste indicazioni che vengono dal resto del mondo, interessanti alcune stime puntuali nella raccolta di saggi, curata da Antonio La Spina, “I costi dell’illegalità_ Mafia ed estorsioni in Sicilia” pubblicata all’inizio dell’estate da Il Mulino: soltanto in Sicilia , unicamente le estorsioni assorbono oltre l’1,3% del pil generato ogni anno nell’isola – questa stima è compatibile con quelle dell’Ocse sull’economia “informale” in Italia, secondo cui l’illegalità sarebbe responsabile per transazioni pari al 5% del reddito nazionale.
Queste analisi e queste cifre smentiscono una rubrica che oltre 40 anni è stata pubblicata ogni sera sul quotidiano popolare parigino “France Soir”: “Le crime ne paye pas” (“Il delitto non paga”). Divertenti fumetti in cui ad ogni puntata un astuto poliziotto catturava l’autore di quello che sarebbe dovuto essere un delitto perfetto. Eppure da economista (scettico e dubbioso sui meriti della categoria) mi azzardo a fare , dalle pagine di “Amministrazione Civile”, due modeste proposte che potrebbero contenere il malaffare in uno dei campi dove si annida più frequentemente: le opere pubbliche. “A Modest Proposal” – vale la pena ricordarlo – è il titolo di un pamphlet pubblicato nel lontano 1729 da Jonathan Swift : con la consueta vena satirica suggeriva di risolvere i problemi della carestie che tormentavano frequentemente l’Irlanda inducendo i prolifici irlandesi di mangiarsi i propri bambini, riducendo così sia la loro fame attuale sia quelle delle generazioni future (necessariamente meno numerose). Non arrivo, naturalmente, a tanto. Le modeste proposte riguardano due strumenti: l’utilizzazione di finanza di progetto (associando i privati nel finanziamento e nella gestione delle opere) e la modernizzazione delle gare (introducendo quelle che noi economisti chiamiamo “aste alla Vickrey”, dal nome del Premio Nobel che le ha teorizzate).
Andiamo con ordine. Il programma triennale approvato dal Parlamento all’inizio d’agosto pone enfasi sull’investimento pubblico (specialmente in infrastrutture) come strumento per rimettere in moto l’Italia, nel breve periodo, e aumentare, nel medio e lungo, la produttività pure dell’investimento privato e dei fattori di produzione in generale. Sono obiettivi condivisibili, soprattutto a ragione della qualità delle infrastrutture italiane (riconosciuta inadeguata in tutta la documentazione Ue e Ocse) e della riduzione della spesa pubblica in conto capitale effettuata nel 1996-2001 e, di nuovo, nel 2006-2007.
L’Italia – come molti altri Paesi europei (la Francia è la principale eccezione) – è stata piuttosto carente di studi retrospettivi sia sui rendimenti dell’investimento pubblico sia sugli effetti di spiazzamento (crowding out, nel lessico degli economisti) rispetto al potenziale investimento privato (l’investimento pubblico richiede gettito fiscale od indebitamento pubblico, riducendo le risorse disponibili per i privati) sia sugli effetti, invece, di attrazione (crowing in) del privato (fornendo le strutture di base). Ci sono stati numerosi studi sul crowding out della spesa pubblica negli Anni 70 ed 80; tali studi hanno, però, riguardato in gran parte gli aspetti macro-economici generali (senza differenziare tra spesa di parte corrente e spesa in conto capitale). Che io sappia c’è stato un unico studio empirico della produttività marginale dell’investimento pubblico: quello di Maurizio Tenenbaum dell’Università La Sapienza di Roma, condotto all’inizio degli Anni 80 su incarico del Ministero del Bilancio, e, in seguito, pubblicato dalla casa editrice Il Mulino. Fuori catalogo da anni, il saggio esaminava l’investimento pubblico nel periodo 1950-80 con metodo aggregato (una funzione di produzione Cobb-Douglas integrata con la modellistica di Solow per tenere conto del progresso tecnico) concludeva che la spesa pubblica in conto capitale aveva una produttività-marginale dell’8-12% - parametro utilizzato per lustri come riferimento (ad esempio, come tasso di attualizzazione per rendere omogenee entrate ed uscite che si verificano su archi di tempo a volte molto lunghi) nella valutazione di piani e progetti. Occorre tenere presente che il periodo analizzato da Tenenbaum copre in larga misura gli anni del “miracolo economico” (1959-1958) quando, secondo analisi di Charles Kindleberger e Ferenc Janossy (due numi del pensiero economico, uno liberista ed uno marxista, distinti e distanti dalle nostre beghe) l’investimento pubblico (e quello privato) in Italia avevano rendimenti particolarmente elevati in quanto attivavano l’utilizzazione di capitale umano potenzialmente molto ben addestrato e molto produttivo, ma costretto ad una relativa improduttività dal 1936 (guerra d’Africa) alla fine della seconda guerra mondiale.
Di recente, il servizio studi della Banca europea degli investimenti ha completato un’analisi (Antonio Afonso e Miguel St Aubyn “Macro-economic rates of returns of public and private investment – Crowding- in and crowing-out effects” Ebc Working Paper n. 864) che merita di essere meditata non solamente nei Ministeri dell’Economia e delle Finanze, dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture. E’, infatti, nonostante il lessico tecnico, un’analisi ricca di lezioni operative per tutti, anche e soprattutto per le Regioni, le Province ed i Comuni – quindi l’amministrazione civile in generale.
In primo luogo, lo studio riguarda il periodo 1960-2005 – sui suoi risultati, dunque, l’eccezionalità del “miracolo economico” conta relativamente poco ma pesano molto più periodi di quella che i giornalisti chiamano “la notte della Repubblica” – crescita bassa, inflazione. In secondo luogo, è un’analisi comparata che include 14 Paesi dell’Ue, il Canada, Giappone e Stati Uniti. In terzo luogo, utilizza una metodologia VAR (una tecnica econometrica per esaminare serie storiche da non confondere con VaR – Value at Risk una tecnica finanziaria per quantizzare valorizzazioni di titoli tenendo conto dell’elemento di rischio) sviluppata, in applicazioni operative, a partire dalla metà degli Anni 90. Quindi, il lavoro ha un contenuto informativo molto più aggiornato e molto più utile di quello condotto all’inizio degli Anni 80.
Vediamo, in linguaggio non tecnico, quali sono le conclusioni principali dello studio e quali le implicazioni per l’amministrazione civile italiana. Innanzitutto, nel lungo periodo di tempo considerato, l’investimento pubblico ha contratto quello privato (crowding-out) in Belgio, Irlanda, Canada, Regno Unito e Paesi Bassi. Ha invece dato un impulso attivo agli investimenti privati (crowding-.in) in Austria, Danimarca, Germania, Grecia, Portogallo, Spagna e Svezia.
L’Italia è l’unico Paese per il quale, sulla base dei disponibili, l’investimento pubblico non pare avere spiazzato od attivato investimento privato. Un effetto “neutro”? Non esattamente. L’analisi entra anche nei tassi di rendimenti medi (tanto “parziali”, quindi del solo investimento pubblico, quanto “totali”, computando anche l’investimento privato attivato dalla mano pubblica). In Italia, Finlandia, Giappone e Svezia, i tassi di rendimento “parziali” dell’investimento pubblico sono negativi. Il quadro cambia se si guarda ai tassi di rendimento “totali”; il tasso dei rendimenti privati diventa più basso se associato al pubblico generalmente in tutti i Paesi (la sola eccezione è la Francia) e diventa addirittura negativo in Austria, Finlandia, Grecia, Portogallo e Svezia. Questa seconda conclusione mette l’investimento pubblico in Italia in una luce migliore di quanto non lo faccia la prima; infatti, se associato al privato aumenta. Ci sono implicazioni operative?. E’ importante tenere presente che proprio in questa estate 2008 il Governo ha proposto, ed il Parlamento approvato, modifiche alla normativa sulla finanza di progetto per rendere più facile la partnership tra pubblico e privato nel finanziamento e nella realizzazione di opere di utilità generale. E’ utile ricordare che da alcuni anni la Scuola superiore della pubblica amministrazione realizza corsi sulla finanza di progetto specialmente mirati alle amministrazioni del Mezzogiorno (non solamente a quelle periferiche dell’amministrazione centrale dello Stato ma particolarmente diretti a dirigenti e funzionari di Regioni, Province e Comuni). Corsi analoghi potrebbero essere tenuti alla Scuola del Ministero dell’Interno ed alla Scuola Superiore delle pubbliche amministrazioni locali. Se ben gestita, l’alleanza tra pubblico e privato nel finanziamento e nella realizzazione di opere pubbliche non solo riduce i costi a carico della pubblica amministrazione ma introduce criteri imprenditoriali privatistici sia a livello della concezione del programma e del progetto sia nella fase di attuazione e funzionamento.
Lo studio non spiega le ragioni dell’”eccezione francese” (ossia perché l’investimento pubblico in Francia renda generalmente meglio che altrove). Non era uno dei suoi obiettivi trattandosi di un’analisi econometrica non istituzionale od amministrativa. Una spiegazione possibile è nelle implicazioni di lungo periodo del “programma di razionalizzazione delle scelte di bilancio” per diversi anni in vigore Oltralpe. Non solamente ai Ministeri si richiedeva di effettuare analisi sia dei costi sia dei benefici sia degli effetti dell’investimento pubblico di rispettiva competenza ma una rivista semestrale de “La Documentation Française” ne pubblicava le migliori ed incoraggiava il dibattito. Negli Anni 90, ho riprodotto alcuni di questi studi nel libro da me curato (ed edito dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato) “Tecniche di valutazione degli investimenti pubblici”. La prassi stimolava le amministrazioni non solamente a condurre analisi “degne di pubblicazioni” ma le metteva in competizione ed a confronto. In Italia una norma del 1999 (circa dieci anni fa) ha previsto appositi nuclei di valutazione verifica dell’investimento pubblico in tutte le amministrazioni. Non solo è stata applicata parzialmente ma ha spesso prevalso un approccio socio-organizzativo privo del necessario rigore economico e finanziario (tipico, carte alla mano, dell’esperienza e dell’eccezione francese). E’ tema su cui il Governo dovrebbe riflettere. Dovrebbe soprattutto farlo il Sottosegretario incaricato della Segretaria del Cipe , il Comitato di Ministri che il compito di approvare gran parte dei programmi e dei progetti d’investimento pubblico.
Veniamo adesso alla seconda modesta proposta: le aste. Ove non ben congegnate, possono essere lo strumento non per aumentare la trasparenza ma per celare il malaffare. William Spencer Vickrey, un economista canadese che ha insegnato per anni alla Columbia University di New York, ha ricevuto nel 1996 (solo tre giorni prima di morire) il Nobel per l’Economia , a ragione dei suoi lavori teorici ed empirici sulle aste. Nel 1961 il “Journal of Finance” pubblicò un suo articolo fondamentale, "Counterspeculation, auctions and competitive sealed tenders" ("Controspeculazione, aste e offerte competitive in busta chiusa"): era il primo tentativo da parte di un economista di utilizzare gli strumenti propri della teoria dei giochi per meglio capire ed organizzare le aste. Nell'articolo, più avanzato di almeno venti anni rispetto al dibattito dell'epoca, non solo Vickrey deriva vari equilibri nello svolgimento delle aste, ma forniva un teorema oggi al centro della teoria delle aste. L'”asta alla Vickrey”, che dai lui prende il nome, è ancora poco applicata in Italia, nonostante che proprio nel nostro Paese ci sia ispirati a suoi lavori in materia di “congestion pricing” per l’Ecopass di Milano. Il congestion pricing si basa sull’idea che servizi come le strade ed altri dovrebbero essere venduti ad un prezzo tale che gli utenti notino i costi che aumentano per via dell'utilizzo pieno del servizio. In tal modo, si dà un duplice segnale: uno agli utenti, volto a modificarne i comportamenti, e uno agli investitori, volto a far sì che questi espandano il servizio per rimuovere questo vincolo.
Cerchiamo di illustrare in termini non tecnici cosa è “un’asta alla Vickrey” (se ne parlò nel 2007 a proposito della gara per la privatizzazione di Alitaia). Se la stazione appaltante ha come obiettivo principale l’efficienza (come dovrebbe essere sempre quando si tratta di opere pubbliche), il teorema analitico e le dimostrazioni empiriche di Vickrey dimostrano che il meccanismo per garantirne il raggiungimento ed ottenere, al tempo stesso, la massima trasparenza è quello della “second-price sealed auction”, in cui tutti le offerte vengono comunicate contemporaneamente in busta sigillata. Vince l’offerente con la massima offerta, in cambio, però, del pagamento del secondo prezzo più alto. L’efficienza è garantita, in quanto il bene viene allocato al compratore che ne dà la massima valutazione. In aggiunta, chi presenta offerte non ha incentivo a fare il bracconiere dichiarando il falso. Si evitano bracconieri e corsari, in cerca di prede da acquistare (possibilmente a basso costo), spezzettare e rivendere a pezzi e bocconi. I dettagli vengono illustrati tra l’altro nel volume curato da Nicola Dimitri, Gustavo Piga Giancarlo Spagnolo “Handbook of Procurement Fostering Participation in Competitive Procurement” appena pubblicato dalla Cambridge University Press. Un libro di grande spessore internazionale ( anche se i suoi autori sono tutti italiani) e già riconosciuto tale nelle recensioni apparse sulle maggiori riviste scientifiche mondiali. In Italia non mancano esperti d’”aste alla Vickrey”. Aste di questo tipo, ad esempio, sono previste nella transizione da televisione analogica a digitale terrestre. Naturalmente un’”asta alla Vickrey” richiede un capitolato acconcio e molto dettagliato tale da incoraggiare imprese serie dotate della necessaria capacità finanziaria ed industriale. Amava sottolinearlo Vickrey in persona nelle serate, a base di dry sherry, che si passavano al caminetto nel suo villino a Hastings-on-Hudson nei pressi di New York.

Giuseppe Pennisi è professore stabile alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. E’ stato Dirigente generale presso i Ministeri del Bilancio e del Lavoro e per 15 anni funzionario e dirigente della Banca Mondiale. E’ autore di vari libri di analisi economica e collabora assiduamente a quotidiani e periodici.

1 commento:

Anonimo ha detto...

IL NOSTRO MOVIMENTO

Finalmente ci siamo!

E’ nata l’Unione Nazionale Italiana degli Impiegati Statali: "U.N.I.STAT."

Un movimento libero, autonomo ed indipendente: lavoratori e pensionati dello Stato uniti per dare vita alle aspettative del "popolo delle buste paga".

Un popolo fatto di gente che “campa” di stipendio e che non ha la possibilità di adeguare autonomamente le proprie entrate al costo della vita.

Un popolo che non si sente adeguatamente rappresentato in parlamento da “questa” classe politica, nè sufficientemente tutelato sul posto di lavoro da “questi” sindacati che dovrebbero difendere il potere d’acquisto di salari e pensioni.

Un popolo che ha più volte palesato su queste pagine la necessità di un soggetto politico “nuovo”.

Ebbene, adesso, il movimento c'è, è nato!

L’UNISTAT si batte per il miglioramento della qualità della vita dei lavoratori dipendenti e dei pensionati.

Obiettivi primari ed inalienabili dell’UNISTAT sono la democrazia, l'uguaglianza, la libertà e la giustizia sociale.

L’UNISTAT avversa il tentativo di abbattere gli istituti di democrazia istituzionale vigenti che, anzi, vanno quotidianamente e senza soluzione di continuità, arricchiti di democrazia sostanziale e quindi di contenuto socialmente valido.

Accetta e difende i principi e le finalità della Costituzione Italiana e, pertanto, si proclama pluralista dal punto di vista ideologico, politico e religioso, nel convincimento che la persona umana non ha frontiere, nè barriere fisiche, nè psichiche e che l'individuo deve continuamente anelare alla pace, alla democrazia, alla giustizia ed alla libertà nel completo rispetto delle leggi, ma combattendo con fermezza tutto ciò che ad esse costituisca attentato.

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