martedì 23 dicembre 2008

L’EUROPA PUO’ DIVENTARE LEADER SE CAMBIA LA PRODUZIONE, Libero 23 dicembre

Il numero doppio di Natale e di fine 2008 del settimanale “The Economist” è correttamente impostato su un fenomeno a cui in Italia si sta dando scarsa attenzione: l’ascesa del protezionismo e la frammentazione del commercio mondiale (per la prima volta in contrazione dal lontano 1982). A nostro avviso – “The Economist” non ne parla probabilmente poiché già in stampa quando sono state prese le ultime decisioni della Casa Bianca – la dimostrazione, al tempo stesso più completa e più insidiosa, del neo-protezionismo è il programma di aiuti di stato che si sta attuando negli Usa a favore dell’industria automobilistica; è un programma fortemente distorsivo del commercio internazionale a cui (lo si è già visto a fine novembre) l’Europa minaccia di rispondere con un accresciuto protezionismo agricolo e le altre maggiori aree commerciali con dazi, contingenti quantitativi e restrizioni di ogni tipo (spesso mascherate dietro regole lavoristiche ed ambientali od interventi urgenti per questo o quel comparto produttivo). Nel contempo, gli investimenti diretti esteri espongono una caduta a picco: secondo gli ultimi dati della Banca Mondiale per il 2009 il loro ammontare complessivo sarà la metà del record storico (l’equivalente di un milione di miliardi di dollari Usa) segnato nel 2007. Si tengano ben presenti le due date: consuntivo 2007, stima 2009. Nell’arco di due anni, uno dei principali indicatori d’integrazione economica internazionale (gli investimenti diretti all’estero) ha fatto una brusca virata. La storia economica insegna che ciò potrebbe essere il preludio di altri segnali, di cui la contrazione dell’eximport mondiale ne è uno eloquente. Meno palpabile sotto il profilo qualitativo, ma già in atto se si scorrono le nuove norme in cantiere in numerosi Paesi, è la riduzione dei movimenti migratori- nei Paesi d’immigrazione dove la disoccupazione è in aumento, è normale che, soprattutto dalle fasce più deboli, s’innalzino grida di dolore nei confronti degli immigranti e si chiedano controlli più rigorosi sui flussi. La redazione di “Libero Mercato” è fermamente convinta che la libertà degli scambi, degli investimenti, dei flussi di capitale, di circolazione di persone, famiglie ed imprese è la premessa per un mondo più libero anche sotto il profilo delle libertà civili ed individuali; non ne è la conseguenza. Sin dalla primavera scorsa, “Libero Mercato” avverte i lettori dei crescenti rischi (pure politici) associati al neoprotezionismo.
La storia economica insegna che negli Anni 30 , il neo-protezionismo – guidato dalla normativa Usa sull’incremento dei dazi (convenzionalmente chiamato lo Smoot-Haley Act) ha aggravato la depressione invece di alleviarla ed è stato uno degli elementi che hanno portato al secondo conflitto mondiale. La storia fornisce importanti lezioni ma non si ripete. Per questa ragione, la risposta al neoprotezionismo che il settimanale britannico suggerisce ai politici di tutto il mondo non mi pare adeguata poiché troppo generica . Tale risposta è imperniata su questi punti: a) rinnovata leadership libero-scambista da parte dei maggiori partner commerciali (Usa e Cina); b) una conclusione positiva del negoziato multilaterale Doha developent agenda (Dda) in corso in seno all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc-Wto) dal novembre 2001; c) una politica macro-economica espansionista da parte delle aree economiche più importanti (Usa, Ue, Giappone, Cina, India).
In primo luogo, il programma elettorale sulla cui base Barack Obama è stato eletto Presidente degli Stati Uniti è marcatamente protezionista. La Cina, inoltre, è per la prima volta alle prese con serie difficoltà nelle sua maggiori imprese ed aree industriali. E’ illusorio pensare che l’afflato libero-scambista venga da Washington e da Pechino. Potrebbe venire dall’Ue se le anime pie temperassero i loro ardori di volere fare del bene ad ogni costo e sapessero trovare una miscela adeguata tra libero scambismo radicale ed effettiva situazione internazionale. In secondo luogo, meglio cedere all’evidenza: la Dda è defunta. Occorre rivedere le regole Omc-Wto per impostare un negoziato non tra singoli Stati/Parti contraenti ma tra le grandi zone regionali di libero scambio ed i grandi mercati comuni che si sono formati e si vanno formando in tutto il mondo. In quarto luogo, la politica macro-economica espansionista ha risultati modesti o nulli (si guardi al Giappone degli Anni Novanta) se più che la domanda aggregata, fa difetto la fiducia tra i soggetti economici, in particolare tra gli intermediari finanziari.
Allora, come rispondere ? Antoni Estevaldeordal della Banca Interamericana per lo Sviluppo ed Alan Taylor dell’Università della California a Davis hanno appena completato uno studio interessante sulla “morte” di quel “Washington Consensus” (l’intesa tra istituzioni finanziarie internazionale e think tanks di marca “liberal”) alla base di quella che chiamano “la grande liberalizzazione 1970-200”9 (Cepr Discussion Paper N. DP6942). Una serie di verifiche econometriche conclude che l’assunto dei benefici della liberalizzazione generalizzata degli scambi ha una dimostrazione fragile, mentre c’è una relazione robusta tra la liberalizzazione di beni strumentali e beni di consumo intermedio e la crescita del pil. Quindi in una fase in cui la liberalizzazione è sotto attacco, meglio puntare sulle categorie merceologiche che promettono di più. Lo conferma implicitamente un lavoro del servizio studi della Bce (Ecb Occasional Paper n. 97). L’Ue può, nel contesto odierno, essere protagonista se cambia la propria specializzazione produttiva passando tra produzioni ad alta intensità di lavoro a produzioni con forte contenuto innovativo. Questa strategia- aggiunge uno studio d’alcune università tedesche ed Usa (Nber Working Paper n. w14527)- può favorire anche le fasce più deboli e quindi smorzare una delle forze sociali tendenzialmente più neo-protezioniste.
L’Europa, quindi, può tentare di svegliarsi dal proprio torpore di bella addormentare e ritrovare la leadership se punta su alta tecnologia, formula proposte concrete di riforma dell’Omc/Wto, indica (dato che è meno afflitta degli Usa dai titoli “tossici”) come ritrovare la fiducia tra istituzioni (principalmente quelle finanziarie) che sembrano averla persa.
Buon Natale.

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