Roma, 12 dic (Velino) - Dopo le delusioni del “Don Carlo” scaligero e il trionfo di Riccardo Muti con l’“Otello” a Roma, occorre arrivare a Catania per cogliere l’ultima vera chicca della stagione lirica 2008: un rara edizione di “Don Gregorio” di Gaetano Donizetti, una delle poche opera-comique (con numeri in musica che si alternano a parti parlate) del repertorio italiano di inizio Ottocento. Si tratta di un esempio importante di un filone che si distanziò molto dalla piega presa dal “dramma giocoso” o “opera comica” italiana (dopo “Il Barbiere” e “Cenerentola” di Gioacchino Rossini), che riuscì a mantenere un notevole successo anche negli anni in cui il melodramma verdiano aveva spiazzato via il comico dai palcoscenici e che poco a poco si dissolse senza lasciare eredi veri e propri nel Novecento. Perché tale non può essere considerato il teatro in musica “leggero” di Busoni, Mascagni e Malipiero. Il “Massimo” di Catania, occorre ricordarlo, è il teatro italiano con la migliore acustica: circa 900 posti, una platea, quattro ordini di palchi e una galleria in stile fine Ottocento-inizio Novecento che ritroviamo al Colòn di Buenos Aires, modellato sul teatro catanese dal medesimo architetto Carlo Sada. Il “Massimo” ha mantenuto una buona programmazione, alternando titoli di repertorio a novità, nonostante le ristrettezze finanziarie in cui versano sia il Comune che la Regione Siciliana.
La stagione 2009 apre con un’opera di difficile rappresentazione, la “Medea” di Luigi Cherubini, e chiude con la prima mondiale di “Head of State” di Micheal Nyman, lavoro commissionato direttamente dall’istituzione. “Don Gregorio” è la versione napoletana del 1826 del più noto “L’ajo nell’imbarazzo” che nel 1824, al Teatro Valle di Roma, era stato uno dei primi successi di Donizetti e che assicurò al compositore una grande fama in tutta la penisola. A sua volta, “L’ajo” era tratto da una commedia francese di grande circolazione oltralpe. La trama è semplice: un precettore vuole aiutare gli amori dei giovani a lui affidati da un bigotto marchese e, tra travestimenti, intrallazzi vari e colpi di scena, dopo due atti e un paio d’ore di spettacolo tutte le pedine finiscono al loro posto. Nella versione “napoletana” il precettore parla e canta in dialetto, si respira profumo di mare e le gag sono più veloci che ne “[CL’ajo”. La versione “romana” di tanto in tanto torna in scena in teatri primari sia in Italia che all’estero e negli anni Cinquanta è stata anche portata sullo schermo in un film la cui direzione musicale fu affidata a Franco Ferrara. La partitura anticipa di vent’anni molti punti di “Don Pasquale”.
“Don Gregorio” è, per molti aspetti, più difficile da mettere in scena di quanto non sia “L’ajo” a ragione del maggior ruolo della recitazione e dell’esigenza, quindi, di disporre di cantanti che siano anche ottimi attori di teatro comico. A Catania si alternano due compagnie entrambe giovani e spigliate. Felice l’impianto scenico, i costumi di Virginia Carnabuci e la regia di Roberto Recchia che hanno trasportato l’azione negli anni Trenta. Un epoca in cui si avvertì il perbenismo mussolinano che, come è noto, vietò le rappresentazioni dell’opera “La favola del figlio cambiato, da lui stesso commissionata a Pirandello e Malipiero, in quanto il primo atto si svolgeva in una casa di tolleranza. Buone le voci (anche se non eccelse) di Gianfranco Montresor, Filippo Adami, Sonia Petruzzo, Maurizio Leoni e Amedeo Moretti nei ruoli principali. Di livello la direzione musicale di Fabrizio Maria Carminati. Uno spettacolo a costi contenuti che merita di circolare ed essere visto da un più vasto pubblico.
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