Il mio nome e cognome sono chiarissimi: non hanno nulla di trentino o di veneziano ma olezzano di provincia catanese almeno da un miglio (anche se ho passato metà della mia vita professionale a Washington negli Usa e sono da sempre radicato nel quartiere Prati di Roma). Quindi, non posso non essere sensibile all’appello con cui il Capo dello Stato Napolitano (meridionale pure lui) ha sferzato la classe dirigente meridionale invitandola a fare autocritica della gestione della cosa pubblica od a prepararsi ad essere posta fuori gioco. Non posso, inoltre, non essere lieto dei risultati raggiunti dal Governo che, al recente Ecofin, è riuscito a portare a casa un tempo supplementare per l’utilizzazione, dei fondi strutturali, di risorse non utilizzate nel precedente periodo di programmazione comunitaria.
Il Sud è decisamente ad una svolta. Dopo un accenno di ripresa (in termini di indicatori economici come la crescita del pil, l’occupazione, la creazione netta di imprese) registratosi all’inizio del XXI secolo, le regioni del Meridione (quelle del corsidetto “Obiettivo 1”) sono tornare a scivolare in un sempre maggiori ritardo di sviluppo. Alcuni, tra cui il vostro “chroniqueur”, lo avevano anticipato (ed erano stati accusati di essere “euroscettici”, ove non anti-europeisti) quando avevano mostrato perplessità nei confronti dell’allargamento dell’Ue, ed in particolare delle conseguenze negative (almeno nel breve e medio periodo) per aree – quelle del Sud e delle Isole – la cui specializzazione produttiva è simile a quella di numerosi Paesi neo-comunitari. La crisi finanziaria mondiale si è inserita in un questo contesto, già di per se stesso sfavorevole: la “credit crunch” si abbatte sulle Sud e sulle Isole più sul resto del Paese, i mercati di esportazione si prosciugano e la domanda (indebolita) viene soddisfatta da zone (anche neo-comunitarie) dove i costi, in particolare quelli del lavoro, sono più bassi. E’ ripresa l’emigrazione , soprattutto dei giovani più preparati e più aggressivi, lasciando nel Mezzogiorno gli anziani e coloro che più facilmente si adattano a prassi che non portano di sviluppo.
Alcuni anni fa uno studio di Alfredo Del Monte documentava che quanto più aumentavano i trasferimenti pubblici per abitante tanto più cresceva il capitale umano improduttivo (diretto a catturare sovvenzioni non a creare combinazioni imprenditoriali sulla base di nuovi mercati, nuovi processi, nuovi prodotti). Un’analisi di Giuseppe Tullio metteva in risalto la correlazione tra omicidi passati in giudicato ed aumento dei trasferimenti pubblici dal resto del mondo (Stato centrale, Ue) al Sud ed alla Isole. Un lavoro di Antonio Cenini della Presidenza del Consiglio (ora alla Rappresentanza dell’Italia presso l’Ue) ha dimostrato statistiche alla mano, su un arco di 40 anni, che il Mezzogiorno è l’unica area in ritardo dell’Europa a 15 ad aver registrato una marcata divergenza rispetto agli indicatori medi dell’Eu (quindi peggiorando la propria posizione relativa) mentre le altre zone meno sviluppate alla fine degli Anni 50 hanno esposto una convergenza (dunque migliorandola). Una ricerca recente del servizio studi della Banca centrale europea sottolinea l’inevitabile continua erosione di competitività se non migliora l’allocazione del risorse (nel Sud e nelle Isole più che nel resto del Paese).
Si potrebbe continuare. Le geremiadi e le lamentazioni, però, non ha mai portato nessuno sulla via dello sviluppo. Il Presidente della Repubblica ha posto l’accento sulla leva appropriata: la classe dirigente (politica ed amministrativa). Alcuni Paesi (specialmente quelli asiatici) sono riusciti ad utilizzare la pubblica amministrazione come il motore dello sviluppo: si pensi alla Corea (che ho conosciuto all’inizio degli Anni 70 quando aveva un reddito procapite molto inferiore a quello dello Zambia; è ora una delle maggiori potenze industriali). Da tre lustri insegno nel Mezzogiorno specialmente nelle Sedi del Sud della Scuola superiore della pubblica amministrazione (Sspa) ed a Palermo. Di “fannulloni” ne ho incrociati pochi; la grande maggioranza erano e sono funzionari e dirigenti che partecipano volontariamente a corsi e corrono in ufficio per restarvi sino ad ore piccole per smaltire “pratiche”. Molti corsi hanno rilievo immediato per la migliore allocazione delle risorse (utilizzazione dei fondi strutturali e della finanza di progetto, appalti e contratti pubblici, contabilità pubblica). Altri hanno l’obiettivo di portare l’Europa (ossia le procedure e le prassi dell’Ue) al Sud e nelle Isole. Quello di maggior prestigio è intitolato Euro.Pa ed ha avuto come docenti (a compensi nominali anche di 50 euro l’ora) Presidenti della Corte Costituzionale, della Consiglio di Stato, della Cassa Depositi e Presititi, della Borsa Elettrica , dell’Istituto per la Politica Industriale, di Business International – oltre che delle maggiori università italiane e della London School of Economics. Ciò ha anche dato una grande visibilità istituzionale alla Sspa ed al Dipartimento della Funzione Pubblica ed un forte senso di appartenenza nazionale ai partecipanti . Oggi questi programmi formativi stanno terminando. Non mancano le risorse per continuarli. Non si comprende se – come suggeriscono alcune voci – sia il Dipartimento Funzione Pubblica a volerli chiudere (ma “portare l’Europa in Italia” non è uno slogan, azzecatissimo, creato dal Ministro Renato Brunetta) o se, invece, sia il vento del Nord a spirare forte in certe strutture o si tratta di un mero imbroglio burocratico. Non sono programma risolutivi. La loro chiusura rappresenta, però, un segnale negativo che può rendere ancora più difficile una svolta possibile, pur se non facile.
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