Alla vigilia dello sciopero generale indetto dalla Cgil, non è tanto importante chiedersi quale è stata la percentuale effettiva delle adesioni quando riflettere su uno dei “paradossi” dell’Italia: le statistiche internazionali (Bce, Banca mondiale, Fondo monetario, Ocse) – distinte e distante dalle nostre beghe di bottega- affermano che, nell’area dell’euro, siamo il Paese con il livello medio più elevato dei prezzi dei generi di consumo corrente ma anche quello con il livello medio più basso dei salari degli operai e degli impiegati. Un fenomeno analogo, ma più contenuto, si riscontra in Spagna. Alcuni – tra cui il vostro “chroniqueur” – avevano scritto negli Anni 90 (quelli della marcia verso l’euro) che tale prospettiva si profilava all’orizzonte a ragione a) dell’elevata propensione endemica all’inflazione (a ragione di protezioni diffuse nei mercati dei fattori di produzione e dei prodotti) e b) dell’alto costo dei contributi sociali (mirati essenzialmente alle pensioni, non agli ammortizzatori sociali generalizzati per chi cerca lavoro e non lo trova). Siamo stati tacciati di euroscetticismo ed anti-europeismo. Per avere sostenuto tesi analoghe, Alberto Alesina è stato allontanato dal Ministero del Tesoro e del Bilancio (allora si chiamava così) dove era consulente. Non è stato allontanato da nulla e da nessuno uno dei maggiori economisti Usa (Martin Feldstein, a lungo Presidente del National bureau of economic research nonché alla guida dei consiglieri economici di due Presidenti Usa) ma uno suo saggio sul tema non ha trovato editori italiani disposti a tradurlo (è apparso, invece, in tedesco, spagnolo e francese, oltre che nell’originale in inglese). Si andava contro la dottrina dominante secondo cui i sacrifici (tra cui la prodiana eurotassa) per entrare nel gruppo di testa dell’euro sarebbero stati ripagati da alta crescita dei redditi e dei consumi per tutti, soprattutto per i meno abbienti. A dieci anni di distanza, occorre chiedersi se il paradosso degli alti prezzi e dei bassi salari non si sarebbe potuto evitare ascoltando non le solite tre-quattro “voci” (che per di più poco avevano da temere, sotto il profilo personale e familiare, dal binomio alti prezzi/bassi salari) ma anche chi metteva in guardia da un pensiero unico pieno – come tutti i pensieri unici- di trappole e trabocchetti.
Di recente, Alesina è tornato sul tema in un lavoro (Nber Working Paper N. w14479) in cui con Silvia Ardagna e Vincenzo Galasso dimostra come la “corsa all’euro” ha implicato “moderazione salariale” ma non ha accelerato le riforme del mercato del lavoro, specialmente del “mercato del lavoro primario” (quello ufficiale e regolare). La stessa “legge Biagi” (con una cinquantina di differenti fattispecie contrattuali) norma l’esistente (tra cui il precariato) invece di liberalizzare; nei prossimi 12 mesi scadono contratti a termine per oltre 2,5 milioni di lavoratori ed è probabile che, con la recessione incombente, ne saranno rinnovati unicamente la metà senza che gli altri abbiano ammortizzatori sociali essenziali. Un lavoro del servizio studi della Banca centrale europea (ECB Occasional Paper n. 97) rileva (a suon di dati) come, rispetto ad altre aree ad alto reddito, quella dell’euro sia caratterizzata da produzione per l’export ad alta intensità di lavoro; quindi una riforma degli assetti contrattuali e degli ammortizzatori è essenziale non solo per i tenori di vita dei lavoratori ma anche per la competitività. Due studi recenti di Andrea Renda (Luiss e Centre for European Policy Studies) pongono l’accento sull’urgenza di migliorare ed aggiornare l’agenda europea di de-regolazione e di migliorare le analisi d’impatto della regolazione (vitali in comparti come quello del mercato del lavoro), mentre . come è noto, in Italia in questo campo si starnazza da anni su temi di modesto rilievo e non vengono pubblicati i risultati delle analisi oppure sottoposte ad un dibattito scientifico.
Da questi ed altri studi (non di parte poiché provenenti da fonti internazionali molto lontane dalle nostre polemiche interne) vengono indicazioni su come affrontare il paradosso degli alti prezzi e bassi salari. L’occasione per farlo è la riforma della contrattazione collettiva, la cui architettura (quale definita nel 1993) appare chiaramente obsoleta (su questo punto convergono un po’ tutte le parti in causa). Il nodo centrale non è se i contenuti economici debbano essere biennali e quelli normativi quadriennali (come stipulato nel patto sociale del 1993) o se si debba puntare a contrattazione triennale sia economica sia normativa. Non è neanche il maggior ruolo da dare alla contrattazione integrativa (su base territoriale o aziendale) rispetto alla contrattazione nazionale di base (altro punto che ha un vasto grado di consenso). Dove le divergenze sono serie è come trattare l’inflazione futura, se “programmarla” (in quanto obiettivo normativo di politica economica) o “stimarla” (utilizzando una fonte asettica come la Commissione Europea). Nella sua testimonianza alla Commissione Lavoro della Camera, il Vice Direttore Generale della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha sottolineato come l’inflazione “programmata” sia stata il perno della “moderazione salariale” rilevata anche nel lavoro citato di Alesina, Ardagna e Galasso. Ha anche ribadito che gli automatismi (ad esempio tornare alla scala mobile) “potrebbero limitare le reazioni del sistema delle relazioni industriali di fronte a sviluppi macro-economici gravi ed inattesi)”.
Che proporre per uscire dal paradosso? A mio avviso, nella contrattazione collettiva nazionale di base, l’inflazione deve restare “programmata” (e mantenere un contenuto di politica economica normativo), ma il tasso “programmato” deve essere ricavato non da un mero esercizio econometrico mirato ai saldi di bilancio pubblico. Si deve prendere come base una stima internazionale: quelle della Commissione Europea e della Banca centrale europea oppure la media dei 20 istituti ecomometrici privati, nessuno italiano, del sondaggio settimanale di “The Economist” rappresentano una base valida per innescare un dibattito tra Governo e parti sociali e giungere al numero- obiettivo dell’”inflazione programmata”.
Perché ciò sia credibile, però, deve essere accompagnato da un miglioramento sostanziale degli ammortizzatori (in termini crudi: meno alle pensioni e più alla disoccupazione ed al disagio). Tale miglioramento presuppone, a sua volta, un mercato del lavoro più flessibile (ossia una nuova disciplina dei licenziamenti e compattare le circa 50 fattispecie contrattuali della “legge Biagi” in un contratto unico , se del caso “a punti” come proposto in Francia e ripreso in Italia anche dagli economisti del gruppo la voce@info).
Non è percorso facile. Vale la pena tentarlo per uscire dal paradosso. Abbiamo di fronte a noi – ha scritto Casey B. Mulligan dell’Università di Chicago “A Depressing Scenario” (Nber Working Paper N. w14514): le ipoteche immobiliari rischiano di diventare assicurazioni contro la disoccupazione . Tentiamo di evitare che diventi realtà.
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