Per chi segue le privatizzazioni in Italia – da otto anni redigo ogni anno il capitolo pertinente nel “Rapporto Annuale sul Processo di Liberalizzazione della Società Italiana” redatto dall’Associazione Società Libera- il 2008 è stato l’anno dell’Alitalia. In effetti, nel 2006 il Governo allora uscente aveva lasciato nel cassetto (per l’Esecutivo entrante) un vasto programma di privatizzazioni: non solo la compagnia di bandiera, ma anche Enel, Eni, Poste, Rai, servizi pubblici locali. Nei due anni di Governo Prodi si è concluso poco o nulla negli altri capitoli e la privatizzazione di Alitalia – seguita con attenzione da “L’Occidentale” – è stata pasticciata in modo inconcludente. Il nuovo Governo – risultato dalle elezioni della primavera scorsa – è entrato in carica nel bel mezzo di una lunga e profonda crisi finanziaria che non solo ha rallentato le privatizzazioni in tutto il mondo ma ha in molti Paesi (Usa in primo luogo) ha riportato la mano pubblica nel capitale di banche ed imprese tramute salvataggi di varie forme e guise.
Quindi, è prevalentemente sulla denazionalizzazione di Alitalia (a cui si soni aggiunte quelle di Cinecittà Studios e di Tirrenia, vedi “L’Occidentale” del 16 dicembre) che si è operato.
Quale è il consuntivo? A fine anno, la Cai è pronta al decollo in programma per il 12 gennaio quando avrà verosimilmente ripreso il nome di quella che fu la compagnia di bandiera. Il 12 gennaio – attenzione – ci sarà probabilmente uno stop tecnico (non sindacale) dei voli per alcune ore: se il blocco non è ben organizzato, il traffico sui cieli italiani potrebbe andare in tilt con ripercussioni in tutta Europa. E’ un primo test d’efficienza del nuovo management e della nuova compagine azionaria. Se fallisce, le conseguenze sul piano di mercato (e di reputazione internazionale) saranno gravissime.
Gli sforzi per fare partire la nuova compagnia sono stati notevoli: I contribuenti italiani si sono accollati parte importante dei costi del doppio salvataggio (AirOne boccheggiava tanto quanto Alitalia). Sono stati contrappuntati dalle resistenze corporative di categorie che hanno sempre visto come la funzione di Alitalia non fosse il trasporto aereo ma la tutela di diritti (e privilegi) dei propri dipendenti-. Ciò ha reso più difficile il percorso della privatizzazione e ha fatto perdere punti alla compagnia in una fase in cui la crisi finanziaria ed economica internazionale hanno reso la concorrenza più agguerrita.
Nei primi 11 mesi del 2008, il traffico aereo europeo ha subito una flessione complessiva dell’1% (ma ben del 9% se si raffronta il novembre dell’anno che sta per terminare con il novembre 2007). Molte compagnie hanno perso quote del mercato mondiale: quella dell’Alitalia ha subito un tracollo del 47,5% : dal 6,4% nel novembre 2007 al 3,4% nel novembre 2008- mentre Lufthansa, AirFranceKlm, e British Airways ne hanno guadagnate rispettivamente del 4,5%, dell’1,2% e dell’1,5%. Quindi, la nuova compagnia parte indebolita in generale e soprattutto in confronto ai maggiori concorrenti europei. “L’Occidentale” ha anticipato più volte questo risultato chiosando le vicende della privatizzazione quasi settimanalmente dal dicembre 2006.
Quali le prospettive? Qualcosa si può fare per ampliare la gamma dei servizi e migliorarne la qualità al fine di riconquistare parte del mercato perduto. Tuttavia, a mio giudizio, si è di fronte ad un trilemma strategico:
· A) Accontentarsi di essere una compagnia regionale, a bassi costi per tutti, con pochi voli intercontinentali ed enfasi sul mercato europeo ed in particolare italiano. Ciò impone – si badi bene – ulteriori tagli nelle strutture e nel personale.
· B) Accettare al più presto un partner straniero che, di conseguenza, diventerà azionista di riferimento (AirFranceKlm, Lufthansa ed anche British Airways guardano con interesse al mercato italiano) e sarà di fatto “il fratello maggiore” all’interno della compagine azionaria.
· C) Tentare , per due-tre esercizi, di giungere ad un attivo di bilancio con le strutture (slots in primo luogo) ed il personale che si ha e senza “grandi fratelli” e se i conti non tornano, chiudere definitivamente la partita e dare ciò che resta al migliore offerente (sempre che ce ne sia uno).
B) è la strada più promettente. Buon Anno, Alitalia.
lunedì 29 dicembre 2008
UN CONTRATTO UNICO PER VINCERE IL PRECARIATO, Il Tempo 29 dicembre
Il 2009 sarà l’anno delle riforme. Oppure quello del declino. La crisi finanziaria ed economica internazionale sono uno stimolo, non un freno, alle riforme perché dimostrano, a tutto tondo, l’esigenza di un assetto istituzionale che consenta decisioni spedite per evitare che Governi e Parlamenti diventino subappaltanti della volatilità dei mercati. Un sistema presidenziale o semi-presidendenziale o con un premierato (in cui il Presidente del Consiglio non sia più un “primus inter pares”) diventa, nel quadro internazionale che si profila per i prossimi anni, un’esigenza non un mero aspetto d’ingegneria istituzionale, rinviabile sine die ad irrealizzabili “tempi migliori”. Rafforza il legislativo (in tutti i Paesi con un Esecutivo forte c’è un Parlamento robusto, e snello) e potenzia il federalismo (in tutti i Paesi federali ben funzionanti esiste una chiara divisione di poteri con organi centrali dello Stato in grado di essere un efficiente interfaccia agli elementi federali ed un’efficace espressione della Nazione rispetto al resto del mondo). La riforma istituzionale deve includere la magistratura per porre rimedio a quella che in tutte le sedi internazionali viene considerata un’anomalia italiana , le cui ragioni storiche, valide nel 1946-48, ci pongono adesso al di fuori del resto dell’Ocse e rendono più difficile una risposta adeguata e tempestiva alle sfide economiche e sociali di questo primo scorcio di XXI secolo.
Dunque, le tre maggiori riforme istituzionali (rafforzamento di Governo e Parlamento, federalismo, riforma della magistratura con separazione di carriere) non hanno differenti priorità politiche o temporali, ma devono essere definite ed attuale simultaneamente. Ed al più presto.
Sono essenziali, infatti, per le riforme economiche necessarie per rimettere l’Italia in marcia ed alleviare la situazione delle categorie più fragili: a) riassetto degli ammortizzatori sociali e della previdenza (Brunetta ne ha fornito il grimaldello, come visto su Il Tempo del 23 dicembre); b) rilancio delle privatizzazioni (Roma sta dando il buon esempio con quelle di Cinecittà Studios e di Tirrenia), c) liberalizzazione dei servizi pubblici locali (il cui funzionamento incide sulla vita d’individui, famiglie ed imprese); d) rivisitazione della regolazione e vigilanza in materia finanziaria (resa urgente dalla crisi finanziaria); c) ripensamento della normativa lavoristica per andare dalla cinquantina di fattispecie di rapporti di lavoro a un contratto unico e non frammentare i dipendenti tra pochi a tempo indeterminato e molti in una giungla di varie forme e guise di precariato.
In un saggio recente, Alberto Alesina e Silvia Ardagna (ambedue a Harvard) e Vincenzo Galasso (Bocconi) documentano come l’euro non è stato la molla per le riforme come giudicato da Ciampi e da Prodi. Ce lo aveva già detto Shakespeare nel primo atto del “Giulio Cesare”: “Il futuro non è nelle nostre stelle, ma in noi stessi”.
Dunque, le tre maggiori riforme istituzionali (rafforzamento di Governo e Parlamento, federalismo, riforma della magistratura con separazione di carriere) non hanno differenti priorità politiche o temporali, ma devono essere definite ed attuale simultaneamente. Ed al più presto.
Sono essenziali, infatti, per le riforme economiche necessarie per rimettere l’Italia in marcia ed alleviare la situazione delle categorie più fragili: a) riassetto degli ammortizzatori sociali e della previdenza (Brunetta ne ha fornito il grimaldello, come visto su Il Tempo del 23 dicembre); b) rilancio delle privatizzazioni (Roma sta dando il buon esempio con quelle di Cinecittà Studios e di Tirrenia), c) liberalizzazione dei servizi pubblici locali (il cui funzionamento incide sulla vita d’individui, famiglie ed imprese); d) rivisitazione della regolazione e vigilanza in materia finanziaria (resa urgente dalla crisi finanziaria); c) ripensamento della normativa lavoristica per andare dalla cinquantina di fattispecie di rapporti di lavoro a un contratto unico e non frammentare i dipendenti tra pochi a tempo indeterminato e molti in una giungla di varie forme e guise di precariato.
In un saggio recente, Alberto Alesina e Silvia Ardagna (ambedue a Harvard) e Vincenzo Galasso (Bocconi) documentano come l’euro non è stato la molla per le riforme come giudicato da Ciampi e da Prodi. Ce lo aveva già detto Shakespeare nel primo atto del “Giulio Cesare”: “Il futuro non è nelle nostre stelle, ma in noi stessi”.
IL “BARBIERE” CON GELMETTI CAPOCOMICO, Il Velino 29 dicembre
Bartolo, medico di una certa età, vuole impalmare la giovane, bella e ricca Rosina di cui è tutore.Ma la fanciulla ha messo gli occhi su un attraente giovanotto. Con l’aiuto del barbiere tuttofare Figaro , il giovane assume varie vesti (di studente, di militare, di prete insegnante di musica) per entrare nella barricatissima abitazione di Bartolo , corteggiare la ragazza ed essere lui a sposarla. A fine Settecento, la pièce di Beaumarchais aveva una certa carica rivoluzionaria – il “terzo stato” Figaro metteva ordine nei pasticci di clero, d’aristocrazia decadente e di borghesia emergente. Messa in musica dall’anziano Giovanni Paisiello diventò un’elegante e delicata commedia sentimentale. Pochi anni più tardi, al giovane Gioacchino Rossini venne chiesto di musicararla nell’arco di una settimana:nelle mani di Rossini, teocon ma bonvivant e pieno di amanti già a 24 anni, diventò frizzante come il lambrusco e brillante come la cucina romagnola. Riconosciuta come una delle quattro maggiori commedie in musica dell’Ottocento, “Il Barbiere” continuò ad avere strepitoso successo anche quando imperversava il melodramma verdiano e quasi tutti i lavori rossiniani erano finiti nel dimenticatoio.
Per la seconda, o forse per la terza volta, il Teatro dell’Opera di Roma propone “Il Barbiere” come ultimo titolo della stagione, da rappresentarsi, nel periodo delle feste di Natale e fine d’Anno, non nel grande Costanzi ma nel più raccolto Nazionale, una sala nata come cinema-teatro con un’architettura e che poco a poco sta diventando uno spazio adatto ad opere ed a balletti che non richiedono un grande organico. Una delle caratteristiche di questa edizione del “Barbiere” è che Gianluigi Gelmetti non è soltanto maestro concertatore e direttore d’orchestra ma anche regista, anzi “capocomico” che interviene nello spettacolo dialogando con cantanti (e con i danzatori ed i mimi) . Scene (Maurizio Varamo) e costumi (Laura Biagiotti) sono fatti in casa nei laboratori del teatro. L’impianto è tradizionale; il pubblico si diverte. Tanto che questa ripresa segnava già da settembre il tutto esaurito. Smagliante l’orchestra, splendida la Rosina di Laura Polverelli, efficace il Figaro di Massimiliano Gagliardo, discutibile la decisione di avere due Almaviva in scena (il 59nne ma ancora valido Raùl Gimenez ed il giovane, promettente ma con poco volume, Jaun Francisco Gatell).
Uno spettacolo fatto in casa ed a basso costo ma che gareggia benissimo con le due edizioni del “Barbiere” propinate da quel Rossini Opera Festival, ROF, che dovrebbe essere il santuario del Maestro pesarese. L’allestimento del 1992 (per il centenario della nascita di Rossini) non fù un successo: il regista Squarzina la aveva trasformata in “black comedy”. Tre anni fa ci si è rivolti, per la parte scenica, a Luca Ronconi (regia), Gae Aulenti (scene) e Giovanna Buzzi (costumi): uno studio televisivo anni 50 dove si registra un “Barbiere” (e su uno schermo vengono proiettate immagini di vecchie edizioni filmate della commedia in musica). I costumi sono di varie epoche (prevalentemente anni 40 e 50). Gli elementi scenici salgono e scendono dalla soffitta e con essi i cantanti – attori. Volano ovviamente anche i tecnici del video e del suono nella torre trasparente sulla destra del palcoscenico Un “Barbiere” volante, come anticipato da Ronconi in conferenze stampa. Un volo, però di Icaro (ossia che si innalza e poi scende a precipizio). Mentre in quello di Gelmetti non mancano né il lambrusco nè i cappelletti.
Per la seconda, o forse per la terza volta, il Teatro dell’Opera di Roma propone “Il Barbiere” come ultimo titolo della stagione, da rappresentarsi, nel periodo delle feste di Natale e fine d’Anno, non nel grande Costanzi ma nel più raccolto Nazionale, una sala nata come cinema-teatro con un’architettura e che poco a poco sta diventando uno spazio adatto ad opere ed a balletti che non richiedono un grande organico. Una delle caratteristiche di questa edizione del “Barbiere” è che Gianluigi Gelmetti non è soltanto maestro concertatore e direttore d’orchestra ma anche regista, anzi “capocomico” che interviene nello spettacolo dialogando con cantanti (e con i danzatori ed i mimi) . Scene (Maurizio Varamo) e costumi (Laura Biagiotti) sono fatti in casa nei laboratori del teatro. L’impianto è tradizionale; il pubblico si diverte. Tanto che questa ripresa segnava già da settembre il tutto esaurito. Smagliante l’orchestra, splendida la Rosina di Laura Polverelli, efficace il Figaro di Massimiliano Gagliardo, discutibile la decisione di avere due Almaviva in scena (il 59nne ma ancora valido Raùl Gimenez ed il giovane, promettente ma con poco volume, Jaun Francisco Gatell).
Uno spettacolo fatto in casa ed a basso costo ma che gareggia benissimo con le due edizioni del “Barbiere” propinate da quel Rossini Opera Festival, ROF, che dovrebbe essere il santuario del Maestro pesarese. L’allestimento del 1992 (per il centenario della nascita di Rossini) non fù un successo: il regista Squarzina la aveva trasformata in “black comedy”. Tre anni fa ci si è rivolti, per la parte scenica, a Luca Ronconi (regia), Gae Aulenti (scene) e Giovanna Buzzi (costumi): uno studio televisivo anni 50 dove si registra un “Barbiere” (e su uno schermo vengono proiettate immagini di vecchie edizioni filmate della commedia in musica). I costumi sono di varie epoche (prevalentemente anni 40 e 50). Gli elementi scenici salgono e scendono dalla soffitta e con essi i cantanti – attori. Volano ovviamente anche i tecnici del video e del suono nella torre trasparente sulla destra del palcoscenico Un “Barbiere” volante, come anticipato da Ronconi in conferenze stampa. Un volo, però di Icaro (ossia che si innalza e poi scende a precipizio). Mentre in quello di Gelmetti non mancano né il lambrusco nè i cappelletti.
domenica 28 dicembre 2008
LA SCOMMESSA (VITA) DI UN’ORCHESTRA DI GIOVINASTRI CHE VIVE SENZA LO STATO , Il Foglio, 28 dicembre
Quando è iniziata la loro avventura, molti li hanno snobbati. Pensare di fare nascere un’orchestra sinfonica puramente privata, in grado di reggersi sulle proprie gambe, partendo con un gruppo di giovani appena usciti dai conservatori, era considerato poco “politically correct”. Anche perché “i ragazzi” (così li chiamavano) ed il loro animatore, il direttore d’orchestra Francesco La Vecchia non andavano a bussare alla porta di Pantalone, nelle sue varie vesti e guise (Stato, Regione, Provincia, Comune) ma pensavano di farcela con il contributo di privati e con gli incassi. Ancora più grave, il progetto era di portare i giovani ad ascoltare la “musica colta” con una politica di bassi prezzi e con una programmazione che avrebbe coniugato il repertorio più popolare, del Settecento e dell’Ottocento con la sinfonica del Novecento , e con qualche spruzzo di quella contemporaneità che molti ritengono ostica agli italiani.
I “ragazzi” hanno trovato un mecenate, la Fondazione Roma, che oggi, visti i risultati, stanzia quasi 5 milioni d’euro l’anno per l’intrapresa ( a titolo di raffronto il bilancio dell’Accademia di Santa Cecilia supera i 25 milioni d’euro l’anno, di cui due terzi pubblici). Hanno iniziato nel novembre 2002 , realizzando le prime stagioni al Teatro Argentina ed al Teatro Sistina. Hanno, poi, rimesso a nuovo l’auditorium di Via della Conciliazione, inizialmente concepito per le udienze papali del Giubileo del 1950 e diventato, in seguito, per circa mezzo secolo sede dei concerti sinfonici dell’Accademia di Santa Cecilia (ora trasferitasi al Parco della Musica). L’auditorium di Via della Conciliazione (1200 posti) è stato migliorato sia nell’aspetto sia nell’acustica. Da novembre a giugno, i “ragazzi” vi suonano le domeniche pomeriggio alle 17,30 ed i lunedì sera alle 20,30; la sala strabocca di giovani (ed anche d’anziani) a ragione in gran misura della politica di prezzi: per 30 concerti, l’abbonamento intero è € 280 (poco più di un posto in platea o palco per una sola serata alla Scala), ma per gli studenti è € 90 e per chi ha più di 65 anni € 160. Per i singoli concerti, il biglietto intero è € 18, quello ridotto (per studenti ed anziani) € 10. La vera portata innovativa è nei programmi che combinano, nello stesso concerto, Nono con Schubert, Stravinskij con Bruckner, Casella con Brahms, Ciacovskil con Malipiero, Liszt con Shostakovich, Mahler con Dukas suonati da una formazione stabile di 90 strumentisti di cui due terzi circa hanno meno di 30 anni d’età. Una ventata d’aria nuova che mancava nella capitale da quando è stata chiusa la formazione romana dell’orchestra sinfonica della Rai e che ha innescato competizione nel mercato della musica. I costi di produzione sono tenuti bassi da un organico amministrativo all’osso (una decina di dipendenti).
Negli anni, è cambiato il nome ; da Orchestra Giovanile Italiana nelle prime stagioni ad Orchestra Sinfonica-Fondazione Roma (Os-Fr)nell’ultima. L’autorevolezza si è imposta anche in Italia quando c’è stata una sempre più accentuata consacrazione internazionale. Da un canto direttori stranieri di livello (come Gunter Neuhold, Lior Shamdal, Amos Talmon) hanno spesso guidato i “ragazzi di via della Conciliazione”. Da un altro, orchestre straniere importanti come i Berliner Sinfoniker sono state ospiti dell’Os-Fr . Da un altro ancora, l’orchestra è stata invitata ad esibirsi all’estero - a San Pietroburgo, a Bruxelles, a Madrid (in un concerto presso l’Auditorio Nacional de la Musica a Madrid alla presenza della Regina), in Brasile , ad Atene, e Londra (nella sede della Royal Philharmonic Orchestra), ed alla Großer Saal della Philharmonie a Berlino, tempio della musica sinfonica mondiale, dove ha trionfato nell’ottobre 2007 e tornerà nel febbraio 2009, nel corso di una tournée in cui visiterà anche la Philharmonia di Cracovia e Varsavia, terminando con due concerti al Festival Basf di Ludwigshafen. Le prossime tappe sono una tournée in Austria che vedrà l’Orchestra con un concerto presso il Musikverein a Vienna, mentre nel 2010 sarà la volta di una lunga tournée negli Stati Uniti.
Perché raccontare questa storia? In un momento in cui nel mondo della musica tutti si stracciano le vesti a ragione delle ristrettezze finanziarie che hanno imposto riduzioni del Fondo unico per lo spettacolo (Fus), fa bene sapere che c’è chi si regge sul mecenatismo e sulla biglietteria, competendo non tanto nel nostro giardinetto di sovvenzioni e contributi quanto a livello internazionale. E portando aria nuova, e concorrenza, in una foresta che rischia di essere pietrificata da una mano pubblica troppo lunga.
I “ragazzi” hanno trovato un mecenate, la Fondazione Roma, che oggi, visti i risultati, stanzia quasi 5 milioni d’euro l’anno per l’intrapresa ( a titolo di raffronto il bilancio dell’Accademia di Santa Cecilia supera i 25 milioni d’euro l’anno, di cui due terzi pubblici). Hanno iniziato nel novembre 2002 , realizzando le prime stagioni al Teatro Argentina ed al Teatro Sistina. Hanno, poi, rimesso a nuovo l’auditorium di Via della Conciliazione, inizialmente concepito per le udienze papali del Giubileo del 1950 e diventato, in seguito, per circa mezzo secolo sede dei concerti sinfonici dell’Accademia di Santa Cecilia (ora trasferitasi al Parco della Musica). L’auditorium di Via della Conciliazione (1200 posti) è stato migliorato sia nell’aspetto sia nell’acustica. Da novembre a giugno, i “ragazzi” vi suonano le domeniche pomeriggio alle 17,30 ed i lunedì sera alle 20,30; la sala strabocca di giovani (ed anche d’anziani) a ragione in gran misura della politica di prezzi: per 30 concerti, l’abbonamento intero è € 280 (poco più di un posto in platea o palco per una sola serata alla Scala), ma per gli studenti è € 90 e per chi ha più di 65 anni € 160. Per i singoli concerti, il biglietto intero è € 18, quello ridotto (per studenti ed anziani) € 10. La vera portata innovativa è nei programmi che combinano, nello stesso concerto, Nono con Schubert, Stravinskij con Bruckner, Casella con Brahms, Ciacovskil con Malipiero, Liszt con Shostakovich, Mahler con Dukas suonati da una formazione stabile di 90 strumentisti di cui due terzi circa hanno meno di 30 anni d’età. Una ventata d’aria nuova che mancava nella capitale da quando è stata chiusa la formazione romana dell’orchestra sinfonica della Rai e che ha innescato competizione nel mercato della musica. I costi di produzione sono tenuti bassi da un organico amministrativo all’osso (una decina di dipendenti).
Negli anni, è cambiato il nome ; da Orchestra Giovanile Italiana nelle prime stagioni ad Orchestra Sinfonica-Fondazione Roma (Os-Fr)nell’ultima. L’autorevolezza si è imposta anche in Italia quando c’è stata una sempre più accentuata consacrazione internazionale. Da un canto direttori stranieri di livello (come Gunter Neuhold, Lior Shamdal, Amos Talmon) hanno spesso guidato i “ragazzi di via della Conciliazione”. Da un altro, orchestre straniere importanti come i Berliner Sinfoniker sono state ospiti dell’Os-Fr . Da un altro ancora, l’orchestra è stata invitata ad esibirsi all’estero - a San Pietroburgo, a Bruxelles, a Madrid (in un concerto presso l’Auditorio Nacional de la Musica a Madrid alla presenza della Regina), in Brasile , ad Atene, e Londra (nella sede della Royal Philharmonic Orchestra), ed alla Großer Saal della Philharmonie a Berlino, tempio della musica sinfonica mondiale, dove ha trionfato nell’ottobre 2007 e tornerà nel febbraio 2009, nel corso di una tournée in cui visiterà anche la Philharmonia di Cracovia e Varsavia, terminando con due concerti al Festival Basf di Ludwigshafen. Le prossime tappe sono una tournée in Austria che vedrà l’Orchestra con un concerto presso il Musikverein a Vienna, mentre nel 2010 sarà la volta di una lunga tournée negli Stati Uniti.
Perché raccontare questa storia? In un momento in cui nel mondo della musica tutti si stracciano le vesti a ragione delle ristrettezze finanziarie che hanno imposto riduzioni del Fondo unico per lo spettacolo (Fus), fa bene sapere che c’è chi si regge sul mecenatismo e sulla biglietteria, competendo non tanto nel nostro giardinetto di sovvenzioni e contributi quanto a livello internazionale. E portando aria nuova, e concorrenza, in una foresta che rischia di essere pietrificata da una mano pubblica troppo lunga.
sabato 27 dicembre 2008
LA RIPRESA? QUESTIONE DI ORARI, Libero 27 dicembre
Il 2008 si chiude male. Ed il 2009 si apre peggio. Come anticipato già nel 2007 su “Libero Mercato”, la crisi finanziaria si sta estendendo ed approfondendo (nonostante le misure – tutte di breve periodo – prese dai principali Paesi interessarti allo scopo di contrastarla). Mentre la finanza è ancora attraversata da turbolenze, è in atto un rallentamento dell’economia reale: i 20 istituti del consensus (20 centri di analisi economica privati – neanche uno è italiano) mostravano, la sera del 23 dicembre, recessione nel Nord America e nell’Ue per tutto il 2009 e spiragli di ripresa nella seconda metà del 2010. Rallenta di circa un terzo anche il tasso di crescita della Cina – che è stata la locomotiva del bacino del Pacifico negli ultimi due lustri. Si contrae il commercio mondiale, come esaminato su “Libero Mercato” di martedì scorso.
Recessione vuole inevitabilmente dire diminuzione dell’occupazione ed aumento del malessere, soprattutto per le fasce più deboli della società. Già in novembre, nel documento dell’Isae (Istituto studi ed analisi economica) “Politiche pubbliche e redistribuzione”, in base a rilevazioni di oltre sei mesi fa, si affermava che la “percezione di povertà” stava crescendo (sei famiglie su 10 si considerano oggi più povere di quanto lo fossero ieri) e che alcuni strumenti (quali l’Isee) lasciassero a desiderare a ragione della qualità della base informativa per la loro applicazione (la banca dati del fisco che non riesce a cogliere fenomeni d’evasione e d’elusione). Una più recente indagine Istat dice che la percentuale delle famiglie che qualche volta non ha sostanze sufficienti a procurarsi cibo è passata dal 4,2% nel 2006 al 5,%; il 33% delle famiglie non può fare fronte (secondo l’analisi) a spese impreviste che superano i 700 euro. Quindi, nel nostro Paese la recessione s’inserisce in un contesto già marcato da forte disuguaglianze e povertà. Tanto le prime quanto la seconda minacciano di aggravarsi con il temuto aumento della disoccupazione. Da noi disuguaglianze e povertà rischiano di mordere più che altrove in Europa perché la previdenza assorbe oltre la metà della spesa sociale e gli ammortizzatori sono pochi e deboli. Risultato di troppi lustri di politica sociale diretta a difendere i ceti sindacalmente forti le cui radici sono nella normativa previdenziale varata, nell’arco di due mesi, nel 1968-69.
Come fare fronte a tale situazione? Negli ultimi giorni si ventila sempre più spesso l’idea di una riduzione degli orari di lavoro – presumibilmente in imprese medio grandi. Gli economisti classici (e Marx) hanno sempre posto il lavoro alla base della teoria stessa del valore e, dunque, della crescita economica. Cinque anni fa il Premio Nobel Edward C. Prescott ha dimostrato quantitativamente che in Europa si lavora molto meno che negli Usa ed in Asia (mediamente un americano lavora, ogni anno, il 40% di più di un europeo) e che questa è una delle determinanti del fenomeno di lungo periodo a ragione del quale l’Ue è, secondo una felice espressione di Mario Baldassarri, “la bella addormentata”, aggredita dalle tigri asiatiche e vulnerabile al più piccolo raffreddore americano. Una riduzione generalizzata degli orari di lavoro, quindi, potrebbe alleviare nel breve periodo alcune categorie (distribuendo in modo più egalitario il lavoro disponibile) ma non sarebbe una ricetta per la ripresa. Anzi aggraverebbe il torpore della “bella addormentata”, ed ancora di più di quella “bellissima addormentata” che è l’Italia. Ciò non vuol dire – si badi bene – non utilizzare più ampiamente strumenti come i “contratti di solidarietà”, che hanno già dato buona prova nella recessione a cavallo tra la fine degli Anni 80 e l’inizio degli Anni 90. Prima di pensare ad una riduzione generalizzata degli orari, occorre, però, rimuovere la balcanizzazione del mercato del lavoro che (con circa 50 fattispecie contrattuali) pone un peso regolatorio su tutti gli italiani ed uno molto forte sulle categorie più fragili (titolai di varie forme di contratti a termine). Occorre anche trovare le risorse per rendere davvero di standard europeo gli ammortizzatori sociali (ancora basati su una concezione d’economia corporativa – di cui l’elemento tipico è la cassa integrazione).
Pur tamponando questa o quella situazione con la cassetta degli attrezzi esistente, occorre delineare un percorso che consenta agli italiani di lavorare in più, di lavorare di più, di lavorare meglio (ossia con una migliore distribuzione del rischio di perdere l’occupazione).
Lo si può fare operando simultaneamente su due fronti a) la normativa sul lavoro e b) la normativa sulla previdenza. Il complesso di norme che vanno sotto il nome di “legge Biagi” hanno rotto molti tabù e meglio codificato varie fattispecie; hanno, però, volenti o nolenti, contribuito alla balcanizzazione del mercato del lavoro italiano. Occorre andare verso un contratto unico con ( se necessario) periodi di prova più lunghe e tutele indennitorie in caso di licenziamento. Riforme di questa natura sono state proposte in Francia a fine 2006 in un saggio d’Etienne Wasmer dell’Observatoire Français de Conjonctures Economique. Sarkozy le ha già attuate. Le hanno fatte proprie alcuni economisti e giuristi italiani. Dovrebbero essere alla base di una proposta di legge a cui sta lavorando Pietro Ichino: mi auguro che sia bipartisan e che abbia un iter accelerato. Il Governo ha perso un’occasione importante di dare leadership in questo campo.
Può riacquistarla, prendendo il grimaldello offertogli da Renato Brunetta. Al di là degli aspetti legali (ottemperare ad una sentenza della Corte di Giustizia europea), la proposta di uniformare l’età di pensionamento delle lavoratrici di genere femminile a quella dei lavoratori di genere maschile non ha grande un impatto immediato. I dati indicano che in Italia l’età effettiva di pensionamento è in pratica già molto simile per i lavorati di genere femminile e per quelli di genere maschile. Inoltre, la transizione verso il sistema di calcolo contributivo per le spettanze e la crescente consapevolezza che l’indicizzazione copre soltanto parte dell’aumento del costo della vita inducono le donne a restare nel mercato del lavoro molto di più di quanto non lo faccia l’età legale per la pensione di vecchiaia. Come già sottolineato su “Libero Mercato”, le donne italiane non entrano nell’impiego perché a casa fanno il 73% del lavoro domestico (compresa la cura dei figli) rispetto al 62% delle americane (il resto è affidato ai mariti). La proposta di Brunetta, però, fornisce al Governo ed al Parlamento un grimaldello per aprire la scatola delle riforme previdenziali proprio quando l’impongono tre determinanti: a) le riforme iniziate nel 1995 sono incompiute e specialmente perché prevedono una transizione molto lunga (18 anni , e circa 30 anni per le pensioni di reversibilità, mentre in altri Paesi, ad esempio in Svezia, processi analoghi sono state effettuati in tre anni); b) la “riforma Damiano”, dal nome del Ministro del Governo Prodi, ha aumentato i costi del sistema ; c) la crisi finanziaria mondiale ed il rallentamento dell’economia reale ci pongono di migliorare gli ammortizzatori sociali.
Aprendo la scatola per adeguare l’età legale per le pensioni di vecchiaia per le donne, si ha l’opportunità di scorciare la durata della transizione (da meccanismo “retributivo” a meccanismo “contributivo” per il calcolo delle spettanze) e rivedere i “coefficienti di trasformazione”) per convertire in assegni annuali i montanti di contributi contabilizzati. Altrimenti non si rimette l’Italia a lavorare e non si da sollievo a chi perde il lavoro.
Recessione vuole inevitabilmente dire diminuzione dell’occupazione ed aumento del malessere, soprattutto per le fasce più deboli della società. Già in novembre, nel documento dell’Isae (Istituto studi ed analisi economica) “Politiche pubbliche e redistribuzione”, in base a rilevazioni di oltre sei mesi fa, si affermava che la “percezione di povertà” stava crescendo (sei famiglie su 10 si considerano oggi più povere di quanto lo fossero ieri) e che alcuni strumenti (quali l’Isee) lasciassero a desiderare a ragione della qualità della base informativa per la loro applicazione (la banca dati del fisco che non riesce a cogliere fenomeni d’evasione e d’elusione). Una più recente indagine Istat dice che la percentuale delle famiglie che qualche volta non ha sostanze sufficienti a procurarsi cibo è passata dal 4,2% nel 2006 al 5,%; il 33% delle famiglie non può fare fronte (secondo l’analisi) a spese impreviste che superano i 700 euro. Quindi, nel nostro Paese la recessione s’inserisce in un contesto già marcato da forte disuguaglianze e povertà. Tanto le prime quanto la seconda minacciano di aggravarsi con il temuto aumento della disoccupazione. Da noi disuguaglianze e povertà rischiano di mordere più che altrove in Europa perché la previdenza assorbe oltre la metà della spesa sociale e gli ammortizzatori sono pochi e deboli. Risultato di troppi lustri di politica sociale diretta a difendere i ceti sindacalmente forti le cui radici sono nella normativa previdenziale varata, nell’arco di due mesi, nel 1968-69.
Come fare fronte a tale situazione? Negli ultimi giorni si ventila sempre più spesso l’idea di una riduzione degli orari di lavoro – presumibilmente in imprese medio grandi. Gli economisti classici (e Marx) hanno sempre posto il lavoro alla base della teoria stessa del valore e, dunque, della crescita economica. Cinque anni fa il Premio Nobel Edward C. Prescott ha dimostrato quantitativamente che in Europa si lavora molto meno che negli Usa ed in Asia (mediamente un americano lavora, ogni anno, il 40% di più di un europeo) e che questa è una delle determinanti del fenomeno di lungo periodo a ragione del quale l’Ue è, secondo una felice espressione di Mario Baldassarri, “la bella addormentata”, aggredita dalle tigri asiatiche e vulnerabile al più piccolo raffreddore americano. Una riduzione generalizzata degli orari di lavoro, quindi, potrebbe alleviare nel breve periodo alcune categorie (distribuendo in modo più egalitario il lavoro disponibile) ma non sarebbe una ricetta per la ripresa. Anzi aggraverebbe il torpore della “bella addormentata”, ed ancora di più di quella “bellissima addormentata” che è l’Italia. Ciò non vuol dire – si badi bene – non utilizzare più ampiamente strumenti come i “contratti di solidarietà”, che hanno già dato buona prova nella recessione a cavallo tra la fine degli Anni 80 e l’inizio degli Anni 90. Prima di pensare ad una riduzione generalizzata degli orari, occorre, però, rimuovere la balcanizzazione del mercato del lavoro che (con circa 50 fattispecie contrattuali) pone un peso regolatorio su tutti gli italiani ed uno molto forte sulle categorie più fragili (titolai di varie forme di contratti a termine). Occorre anche trovare le risorse per rendere davvero di standard europeo gli ammortizzatori sociali (ancora basati su una concezione d’economia corporativa – di cui l’elemento tipico è la cassa integrazione).
Pur tamponando questa o quella situazione con la cassetta degli attrezzi esistente, occorre delineare un percorso che consenta agli italiani di lavorare in più, di lavorare di più, di lavorare meglio (ossia con una migliore distribuzione del rischio di perdere l’occupazione).
Lo si può fare operando simultaneamente su due fronti a) la normativa sul lavoro e b) la normativa sulla previdenza. Il complesso di norme che vanno sotto il nome di “legge Biagi” hanno rotto molti tabù e meglio codificato varie fattispecie; hanno, però, volenti o nolenti, contribuito alla balcanizzazione del mercato del lavoro italiano. Occorre andare verso un contratto unico con ( se necessario) periodi di prova più lunghe e tutele indennitorie in caso di licenziamento. Riforme di questa natura sono state proposte in Francia a fine 2006 in un saggio d’Etienne Wasmer dell’Observatoire Français de Conjonctures Economique. Sarkozy le ha già attuate. Le hanno fatte proprie alcuni economisti e giuristi italiani. Dovrebbero essere alla base di una proposta di legge a cui sta lavorando Pietro Ichino: mi auguro che sia bipartisan e che abbia un iter accelerato. Il Governo ha perso un’occasione importante di dare leadership in questo campo.
Può riacquistarla, prendendo il grimaldello offertogli da Renato Brunetta. Al di là degli aspetti legali (ottemperare ad una sentenza della Corte di Giustizia europea), la proposta di uniformare l’età di pensionamento delle lavoratrici di genere femminile a quella dei lavoratori di genere maschile non ha grande un impatto immediato. I dati indicano che in Italia l’età effettiva di pensionamento è in pratica già molto simile per i lavorati di genere femminile e per quelli di genere maschile. Inoltre, la transizione verso il sistema di calcolo contributivo per le spettanze e la crescente consapevolezza che l’indicizzazione copre soltanto parte dell’aumento del costo della vita inducono le donne a restare nel mercato del lavoro molto di più di quanto non lo faccia l’età legale per la pensione di vecchiaia. Come già sottolineato su “Libero Mercato”, le donne italiane non entrano nell’impiego perché a casa fanno il 73% del lavoro domestico (compresa la cura dei figli) rispetto al 62% delle americane (il resto è affidato ai mariti). La proposta di Brunetta, però, fornisce al Governo ed al Parlamento un grimaldello per aprire la scatola delle riforme previdenziali proprio quando l’impongono tre determinanti: a) le riforme iniziate nel 1995 sono incompiute e specialmente perché prevedono una transizione molto lunga (18 anni , e circa 30 anni per le pensioni di reversibilità, mentre in altri Paesi, ad esempio in Svezia, processi analoghi sono state effettuati in tre anni); b) la “riforma Damiano”, dal nome del Ministro del Governo Prodi, ha aumentato i costi del sistema ; c) la crisi finanziaria mondiale ed il rallentamento dell’economia reale ci pongono di migliorare gli ammortizzatori sociali.
Aprendo la scatola per adeguare l’età legale per le pensioni di vecchiaia per le donne, si ha l’opportunità di scorciare la durata della transizione (da meccanismo “retributivo” a meccanismo “contributivo” per il calcolo delle spettanze) e rivedere i “coefficienti di trasformazione”) per convertire in assegni annuali i montanti di contributi contabilizzati. Altrimenti non si rimette l’Italia a lavorare e non si da sollievo a chi perde il lavoro.
mercoledì 24 dicembre 2008
NESSUNO LO DICE MA IL 2009 SARA’ L’ANNO DELLE PENSIONI L'Occidentale 24 dicembre
La proposta del Ministro dell’Innovazione e della Funzione Pubblica, Renato Brunetta (sull’età legale per il pensionamento di vecchiaia delle donne), avrebbe avuto un’accoglienza fredda in Consiglio dei Ministri (CdM). Nella conferenza stampa di fine anno, lo stesso Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi ha affermato , con risolutezza, che il programma del Governo non prevede un’ulteriore riforma della previdenza, dopo la mezza dozzina che si sono susseguite dal 1993. Berlusconi ricorda ancora con preoccupazione quanto avvenne nell’inverno 1994 quando una serie di manifestazioni su uno schema di riassetto della previdenza (peraltro ancora non varato dal CdM) portò alla sua defenestrazione in seguito allo scollarsi della maggioranza. Il 2008 si chiude con una maggioranza in cui non mancano le tensioni: la fusione tra Forza Italia ed Alleanza Nazionale nel Popolo delle Libertà è meno semplice di quanto non sembrasse un anno fa, la Lega teme che altre priorità (riforma dell’ordinamento giudiziario , presidenzialismo) comportino ritardi sul piano del federalismo- l’obiettivo principale della partecipazione della Lega e alla coalizione e al Governo.
Senza dubbio studi recenti (ad esempio, quelli dell’Eurostat e del Laboratorio Revelli del Collegio Carlo Alberto di Moncalieri, nonché il freschissimo Iza Discussion Paper n. 3821 di cui sono autori Tito Boeri e Agar Brugiavini) indicano che in Italia l’età effettiva di pensionamento è in pratica già molto simile per i lavorati di genere femminile e per quelli di genere maschile. Inoltre, la transizione verso il sistema di calcolo contributivo per le spettanze e la crescente consapevolezza che l’indicizzazione copre soltanto parte dell’aumento del costo della vita inducono le donne a restare nel mercato del lavoro molto più di quanto non lo faccia l’età legale per la pensione di vecchiaia. Dati alla mano, le donne italiane non entrano nell’impiego perché a casa fanno il 73% del lavoro domestico (compresa la cura dei figli) rispetto al 62% delle americane (il resto è affidato ai mariti); se non si cambiano prassi in questo campo, quali che siano le sentenze della Corte di Giustizia Europea e le modifiche legislative, sarà difficile aumentare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro nell’età più produttiva. In effetti, senza smuovere le acque ed utilizzare la parola proibita che inizia con la “p” (“pensioni”), basterebbe applicare gradualmente (nei Palazzi si parla di scansionarla su cinque anni, allungando ciascun anno di un anno l’età legale di pensionamento delle donne) la sentenza della Corte Europea ed essere in regola felici e contenti.
Tuttavia, la vera portata dell’indicazione di Brunetta (nel pubblico impiego, di cui è responsabile, le donne vanno in pensione generalmente prima di quanto lo facciano nel lavoro dipendente privato) non è l’adeguamento alla sentenza della Corte di Giustizia Europea ed evitare una procedura d’infrazione. Non è neanche la possibilità, nel breve periodo, di potenziali risparmi di spesa e di una maggiore partecipazione femminile nel mercato del lavoro. La proposta fornisce al Governo ed al Parlamento un grimaldello per scoperchiare la scatola delle riforme previdenziali in una fase in cui lo impongono tre elementi: a) le riforme iniziate nel 1995 sono incompiute, specialmente perché prevedono una transizione molto lunga (18 anni , e circa 30 anni per le pensioni di reversibilità, mentre in altri Paesi, ad esempio in Svezia, processi analoghi sono state effettuati in tre anni); b) la “riforma Damiano”, dal nome del Ministro del Governo Prodi, ha aumentato i costi del sistema ; c) la crisi finanziaria mondiale ed il rallentamento dell’economia reale ci pongono di fronte ad uno scenario molto differente rispetto a quello di alcuni fa quando si pensava (a mio parere a torto) di poter tenere un atteggiamento “soft” e molto gradualista (ove non temporeggiatore) in materia. Nell’immediato siamo di fronte ad un dilemma: migliorare gli ammortizzatori sociali per alleviare il peso della crisi sulle categorie più fragili (e più esposte al rischio di disoccupazione) oppure mantenere una struttura della spesa sociale (unica al mondo) che dedica alle pensioni circa due terzi di quanto disponibile.
Non utilizzare il grimaldello offerto da Brunetta vuole dire porre il costo del riassetto necessario interamente sulle categorie più deboli oggi e sulle generazioni più giovani domani, facendo fruire rendite alle fasce più avanti con l’età e meglio protette sotto il profilo sindacale (per i due terzi di genere maschile).
Sotto il profilo normativo, il punto centrale non è l’età legale per le pensioni di vecchiaia per le donne ma la durata della transizione (da meccanismo “retributivo” a meccanismo “contributivo” per il calcolo delle spettanze) ed i “coefficienti di trasformazione”) per convertire in assegni annuali i montanti di contributi contabilizzati.
Piaccia o non piaccia questi nodi sono venuti al pettine a ragione della crisi finanziaria. Ci è stato detto chiaro e tondo a Bruxelles quando abbiamo chiesto di utilizzare (per gli ammortizzatori sociali) risorse destinate ai fondi strutturali (specialmente quelle del Fondo sociale europeo- Fse).
Anche per chi non lo gradisce, il 2009 sarà l’anno delle pensioni. E’ non è che una delle tante riforme difficili da realizzare.
Senza dubbio studi recenti (ad esempio, quelli dell’Eurostat e del Laboratorio Revelli del Collegio Carlo Alberto di Moncalieri, nonché il freschissimo Iza Discussion Paper n. 3821 di cui sono autori Tito Boeri e Agar Brugiavini) indicano che in Italia l’età effettiva di pensionamento è in pratica già molto simile per i lavorati di genere femminile e per quelli di genere maschile. Inoltre, la transizione verso il sistema di calcolo contributivo per le spettanze e la crescente consapevolezza che l’indicizzazione copre soltanto parte dell’aumento del costo della vita inducono le donne a restare nel mercato del lavoro molto più di quanto non lo faccia l’età legale per la pensione di vecchiaia. Dati alla mano, le donne italiane non entrano nell’impiego perché a casa fanno il 73% del lavoro domestico (compresa la cura dei figli) rispetto al 62% delle americane (il resto è affidato ai mariti); se non si cambiano prassi in questo campo, quali che siano le sentenze della Corte di Giustizia Europea e le modifiche legislative, sarà difficile aumentare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro nell’età più produttiva. In effetti, senza smuovere le acque ed utilizzare la parola proibita che inizia con la “p” (“pensioni”), basterebbe applicare gradualmente (nei Palazzi si parla di scansionarla su cinque anni, allungando ciascun anno di un anno l’età legale di pensionamento delle donne) la sentenza della Corte Europea ed essere in regola felici e contenti.
Tuttavia, la vera portata dell’indicazione di Brunetta (nel pubblico impiego, di cui è responsabile, le donne vanno in pensione generalmente prima di quanto lo facciano nel lavoro dipendente privato) non è l’adeguamento alla sentenza della Corte di Giustizia Europea ed evitare una procedura d’infrazione. Non è neanche la possibilità, nel breve periodo, di potenziali risparmi di spesa e di una maggiore partecipazione femminile nel mercato del lavoro. La proposta fornisce al Governo ed al Parlamento un grimaldello per scoperchiare la scatola delle riforme previdenziali in una fase in cui lo impongono tre elementi: a) le riforme iniziate nel 1995 sono incompiute, specialmente perché prevedono una transizione molto lunga (18 anni , e circa 30 anni per le pensioni di reversibilità, mentre in altri Paesi, ad esempio in Svezia, processi analoghi sono state effettuati in tre anni); b) la “riforma Damiano”, dal nome del Ministro del Governo Prodi, ha aumentato i costi del sistema ; c) la crisi finanziaria mondiale ed il rallentamento dell’economia reale ci pongono di fronte ad uno scenario molto differente rispetto a quello di alcuni fa quando si pensava (a mio parere a torto) di poter tenere un atteggiamento “soft” e molto gradualista (ove non temporeggiatore) in materia. Nell’immediato siamo di fronte ad un dilemma: migliorare gli ammortizzatori sociali per alleviare il peso della crisi sulle categorie più fragili (e più esposte al rischio di disoccupazione) oppure mantenere una struttura della spesa sociale (unica al mondo) che dedica alle pensioni circa due terzi di quanto disponibile.
Non utilizzare il grimaldello offerto da Brunetta vuole dire porre il costo del riassetto necessario interamente sulle categorie più deboli oggi e sulle generazioni più giovani domani, facendo fruire rendite alle fasce più avanti con l’età e meglio protette sotto il profilo sindacale (per i due terzi di genere maschile).
Sotto il profilo normativo, il punto centrale non è l’età legale per le pensioni di vecchiaia per le donne ma la durata della transizione (da meccanismo “retributivo” a meccanismo “contributivo” per il calcolo delle spettanze) ed i “coefficienti di trasformazione”) per convertire in assegni annuali i montanti di contributi contabilizzati.
Piaccia o non piaccia questi nodi sono venuti al pettine a ragione della crisi finanziaria. Ci è stato detto chiaro e tondo a Bruxelles quando abbiamo chiesto di utilizzare (per gli ammortizzatori sociali) risorse destinate ai fondi strutturali (specialmente quelle del Fondo sociale europeo- Fse).
Anche per chi non lo gradisce, il 2009 sarà l’anno delle pensioni. E’ non è che una delle tante riforme difficili da realizzare.
martedì 23 dicembre 2008
L’EUROPA PUO’ DIVENTARE LEADER SE CAMBIA LA PRODUZIONE, Libero 23 dicembre
Il numero doppio di Natale e di fine 2008 del settimanale “The Economist” è correttamente impostato su un fenomeno a cui in Italia si sta dando scarsa attenzione: l’ascesa del protezionismo e la frammentazione del commercio mondiale (per la prima volta in contrazione dal lontano 1982). A nostro avviso – “The Economist” non ne parla probabilmente poiché già in stampa quando sono state prese le ultime decisioni della Casa Bianca – la dimostrazione, al tempo stesso più completa e più insidiosa, del neo-protezionismo è il programma di aiuti di stato che si sta attuando negli Usa a favore dell’industria automobilistica; è un programma fortemente distorsivo del commercio internazionale a cui (lo si è già visto a fine novembre) l’Europa minaccia di rispondere con un accresciuto protezionismo agricolo e le altre maggiori aree commerciali con dazi, contingenti quantitativi e restrizioni di ogni tipo (spesso mascherate dietro regole lavoristiche ed ambientali od interventi urgenti per questo o quel comparto produttivo). Nel contempo, gli investimenti diretti esteri espongono una caduta a picco: secondo gli ultimi dati della Banca Mondiale per il 2009 il loro ammontare complessivo sarà la metà del record storico (l’equivalente di un milione di miliardi di dollari Usa) segnato nel 2007. Si tengano ben presenti le due date: consuntivo 2007, stima 2009. Nell’arco di due anni, uno dei principali indicatori d’integrazione economica internazionale (gli investimenti diretti all’estero) ha fatto una brusca virata. La storia economica insegna che ciò potrebbe essere il preludio di altri segnali, di cui la contrazione dell’eximport mondiale ne è uno eloquente. Meno palpabile sotto il profilo qualitativo, ma già in atto se si scorrono le nuove norme in cantiere in numerosi Paesi, è la riduzione dei movimenti migratori- nei Paesi d’immigrazione dove la disoccupazione è in aumento, è normale che, soprattutto dalle fasce più deboli, s’innalzino grida di dolore nei confronti degli immigranti e si chiedano controlli più rigorosi sui flussi. La redazione di “Libero Mercato” è fermamente convinta che la libertà degli scambi, degli investimenti, dei flussi di capitale, di circolazione di persone, famiglie ed imprese è la premessa per un mondo più libero anche sotto il profilo delle libertà civili ed individuali; non ne è la conseguenza. Sin dalla primavera scorsa, “Libero Mercato” avverte i lettori dei crescenti rischi (pure politici) associati al neoprotezionismo.
La storia economica insegna che negli Anni 30 , il neo-protezionismo – guidato dalla normativa Usa sull’incremento dei dazi (convenzionalmente chiamato lo Smoot-Haley Act) ha aggravato la depressione invece di alleviarla ed è stato uno degli elementi che hanno portato al secondo conflitto mondiale. La storia fornisce importanti lezioni ma non si ripete. Per questa ragione, la risposta al neoprotezionismo che il settimanale britannico suggerisce ai politici di tutto il mondo non mi pare adeguata poiché troppo generica . Tale risposta è imperniata su questi punti: a) rinnovata leadership libero-scambista da parte dei maggiori partner commerciali (Usa e Cina); b) una conclusione positiva del negoziato multilaterale Doha developent agenda (Dda) in corso in seno all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc-Wto) dal novembre 2001; c) una politica macro-economica espansionista da parte delle aree economiche più importanti (Usa, Ue, Giappone, Cina, India).
In primo luogo, il programma elettorale sulla cui base Barack Obama è stato eletto Presidente degli Stati Uniti è marcatamente protezionista. La Cina, inoltre, è per la prima volta alle prese con serie difficoltà nelle sua maggiori imprese ed aree industriali. E’ illusorio pensare che l’afflato libero-scambista venga da Washington e da Pechino. Potrebbe venire dall’Ue se le anime pie temperassero i loro ardori di volere fare del bene ad ogni costo e sapessero trovare una miscela adeguata tra libero scambismo radicale ed effettiva situazione internazionale. In secondo luogo, meglio cedere all’evidenza: la Dda è defunta. Occorre rivedere le regole Omc-Wto per impostare un negoziato non tra singoli Stati/Parti contraenti ma tra le grandi zone regionali di libero scambio ed i grandi mercati comuni che si sono formati e si vanno formando in tutto il mondo. In quarto luogo, la politica macro-economica espansionista ha risultati modesti o nulli (si guardi al Giappone degli Anni Novanta) se più che la domanda aggregata, fa difetto la fiducia tra i soggetti economici, in particolare tra gli intermediari finanziari.
Allora, come rispondere ? Antoni Estevaldeordal della Banca Interamericana per lo Sviluppo ed Alan Taylor dell’Università della California a Davis hanno appena completato uno studio interessante sulla “morte” di quel “Washington Consensus” (l’intesa tra istituzioni finanziarie internazionale e think tanks di marca “liberal”) alla base di quella che chiamano “la grande liberalizzazione 1970-200”9 (Cepr Discussion Paper N. DP6942). Una serie di verifiche econometriche conclude che l’assunto dei benefici della liberalizzazione generalizzata degli scambi ha una dimostrazione fragile, mentre c’è una relazione robusta tra la liberalizzazione di beni strumentali e beni di consumo intermedio e la crescita del pil. Quindi in una fase in cui la liberalizzazione è sotto attacco, meglio puntare sulle categorie merceologiche che promettono di più. Lo conferma implicitamente un lavoro del servizio studi della Bce (Ecb Occasional Paper n. 97). L’Ue può, nel contesto odierno, essere protagonista se cambia la propria specializzazione produttiva passando tra produzioni ad alta intensità di lavoro a produzioni con forte contenuto innovativo. Questa strategia- aggiunge uno studio d’alcune università tedesche ed Usa (Nber Working Paper n. w14527)- può favorire anche le fasce più deboli e quindi smorzare una delle forze sociali tendenzialmente più neo-protezioniste.
L’Europa, quindi, può tentare di svegliarsi dal proprio torpore di bella addormentare e ritrovare la leadership se punta su alta tecnologia, formula proposte concrete di riforma dell’Omc/Wto, indica (dato che è meno afflitta degli Usa dai titoli “tossici”) come ritrovare la fiducia tra istituzioni (principalmente quelle finanziarie) che sembrano averla persa.
Buon Natale.
La storia economica insegna che negli Anni 30 , il neo-protezionismo – guidato dalla normativa Usa sull’incremento dei dazi (convenzionalmente chiamato lo Smoot-Haley Act) ha aggravato la depressione invece di alleviarla ed è stato uno degli elementi che hanno portato al secondo conflitto mondiale. La storia fornisce importanti lezioni ma non si ripete. Per questa ragione, la risposta al neoprotezionismo che il settimanale britannico suggerisce ai politici di tutto il mondo non mi pare adeguata poiché troppo generica . Tale risposta è imperniata su questi punti: a) rinnovata leadership libero-scambista da parte dei maggiori partner commerciali (Usa e Cina); b) una conclusione positiva del negoziato multilaterale Doha developent agenda (Dda) in corso in seno all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc-Wto) dal novembre 2001; c) una politica macro-economica espansionista da parte delle aree economiche più importanti (Usa, Ue, Giappone, Cina, India).
In primo luogo, il programma elettorale sulla cui base Barack Obama è stato eletto Presidente degli Stati Uniti è marcatamente protezionista. La Cina, inoltre, è per la prima volta alle prese con serie difficoltà nelle sua maggiori imprese ed aree industriali. E’ illusorio pensare che l’afflato libero-scambista venga da Washington e da Pechino. Potrebbe venire dall’Ue se le anime pie temperassero i loro ardori di volere fare del bene ad ogni costo e sapessero trovare una miscela adeguata tra libero scambismo radicale ed effettiva situazione internazionale. In secondo luogo, meglio cedere all’evidenza: la Dda è defunta. Occorre rivedere le regole Omc-Wto per impostare un negoziato non tra singoli Stati/Parti contraenti ma tra le grandi zone regionali di libero scambio ed i grandi mercati comuni che si sono formati e si vanno formando in tutto il mondo. In quarto luogo, la politica macro-economica espansionista ha risultati modesti o nulli (si guardi al Giappone degli Anni Novanta) se più che la domanda aggregata, fa difetto la fiducia tra i soggetti economici, in particolare tra gli intermediari finanziari.
Allora, come rispondere ? Antoni Estevaldeordal della Banca Interamericana per lo Sviluppo ed Alan Taylor dell’Università della California a Davis hanno appena completato uno studio interessante sulla “morte” di quel “Washington Consensus” (l’intesa tra istituzioni finanziarie internazionale e think tanks di marca “liberal”) alla base di quella che chiamano “la grande liberalizzazione 1970-200”9 (Cepr Discussion Paper N. DP6942). Una serie di verifiche econometriche conclude che l’assunto dei benefici della liberalizzazione generalizzata degli scambi ha una dimostrazione fragile, mentre c’è una relazione robusta tra la liberalizzazione di beni strumentali e beni di consumo intermedio e la crescita del pil. Quindi in una fase in cui la liberalizzazione è sotto attacco, meglio puntare sulle categorie merceologiche che promettono di più. Lo conferma implicitamente un lavoro del servizio studi della Bce (Ecb Occasional Paper n. 97). L’Ue può, nel contesto odierno, essere protagonista se cambia la propria specializzazione produttiva passando tra produzioni ad alta intensità di lavoro a produzioni con forte contenuto innovativo. Questa strategia- aggiunge uno studio d’alcune università tedesche ed Usa (Nber Working Paper n. w14527)- può favorire anche le fasce più deboli e quindi smorzare una delle forze sociali tendenzialmente più neo-protezioniste.
L’Europa, quindi, può tentare di svegliarsi dal proprio torpore di bella addormentare e ritrovare la leadership se punta su alta tecnologia, formula proposte concrete di riforma dell’Omc/Wto, indica (dato che è meno afflitta degli Usa dai titoli “tossici”) come ritrovare la fiducia tra istituzioni (principalmente quelle finanziarie) che sembrano averla persa.
Buon Natale.
DONNE E PENSIONI, IL GRIMALDELLO DI BRUNETTA, Il Tempo 23 dicembre
Chi ha partecipato al Consiglio dei Ministri del 18 dicembre sussurra che la proposta del Ministro dell’Innovazione e della Funzione Pubblica, Renato Brunetta (sull’età legale per il pensionamento di vecchiaia delle donne), ha avuto un’accoglienza fredda, ove non gelida. Lo stesso Presidente del Consiglio, nella conferenza stampa di fine anno, ha affermato che il tema verrà affrontato con gradualità. Lo spettro dell’inverno 1994 (e delle manifestazioni sullo schema di riassetto della previdenza) incombe ancora su Palazzo Chigi ; come diceva Jean Paul Sartre, molte parole che iniziano con la “p” non si pronunciano in pubblico. “Pensioni” è una di queste.
Sono stati sciorinati studi ( dell’Eurostat e del Laboratorio Revelli del Collegio Carlo Alberto di Moncalieri) per indicare che in Italia l’età effettiva di pensionamento è in pratica molto simile per i lavorati di genere femminile e per quelli di genere maschile; la transizione verso il sistema di calcolo contributivo per le spettanze e la crescente consapevolezza che l’indicizzazione copre soltanto parte dell’aumento del costo della vita inducono le donne a restare nel mercato del lavoro molto più di quanto non lo faccia l’età legale per la pensione di vecchiaia. Dati alla mano, si è sostenuto che le donne italiane non entrano nell’impiego perché a casa fanno il 73% del lavoro domestico (compresa la cura dei figli) rispetto al 62% delle americane (il resto è affidato ai mariti); se non si cambiano prassi in questo campo, sarà difficile aumentare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro nell’età più produttiva.
Tutto corretto (e confermato da un’analisi prodotta la settimana prima di Natale dall’Istituto federale tedesco di studi sul lavoro). Ciò nonostante, la vera portata della proposta non è nel rispondere positivamente ad una sentenza della Corte di Giustizia Europea o nell’aprire la strada a potenziali risparmi di spesa ed a maggiore partecipazione femminile nel mercato del lavoro ma nel fornire al Governo ed al Parlamento un grimaldello per scacciare lo spettro dell’inverno 1994 e riaprire la scatola delle riforme previdenziali.
Lo impongono due elementi: a) le riforme iniziate nel 1995 sono incompiute, specialmente perché prevedono una transizione molto lunga (18 anni , e circa 30 anni per le pensioni di reversibilità, mentre in altri Paesi, ad esempio in Svezia, processi analoghi sono state effettuati in tre anni); b) la crisi finanziaria mondiale ed il rallentamento dell’economia reale ci pongono di fronte ad uno scenario molto differente rispetto a qualche anno fa. Non riaprire la scatola delle riforme previdenziali vuole dire porre il costo del riassetto necessario interamente sulle generazioni più giovani e sulle fasce più deboli (tra cui le donne) facendo fruire rendite alle categorie più avanti con l’età e meglio protette sotto il profilo sindacale (per i due terzi di genere maschile).
Sono stati sciorinati studi ( dell’Eurostat e del Laboratorio Revelli del Collegio Carlo Alberto di Moncalieri) per indicare che in Italia l’età effettiva di pensionamento è in pratica molto simile per i lavorati di genere femminile e per quelli di genere maschile; la transizione verso il sistema di calcolo contributivo per le spettanze e la crescente consapevolezza che l’indicizzazione copre soltanto parte dell’aumento del costo della vita inducono le donne a restare nel mercato del lavoro molto più di quanto non lo faccia l’età legale per la pensione di vecchiaia. Dati alla mano, si è sostenuto che le donne italiane non entrano nell’impiego perché a casa fanno il 73% del lavoro domestico (compresa la cura dei figli) rispetto al 62% delle americane (il resto è affidato ai mariti); se non si cambiano prassi in questo campo, sarà difficile aumentare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro nell’età più produttiva.
Tutto corretto (e confermato da un’analisi prodotta la settimana prima di Natale dall’Istituto federale tedesco di studi sul lavoro). Ciò nonostante, la vera portata della proposta non è nel rispondere positivamente ad una sentenza della Corte di Giustizia Europea o nell’aprire la strada a potenziali risparmi di spesa ed a maggiore partecipazione femminile nel mercato del lavoro ma nel fornire al Governo ed al Parlamento un grimaldello per scacciare lo spettro dell’inverno 1994 e riaprire la scatola delle riforme previdenziali.
Lo impongono due elementi: a) le riforme iniziate nel 1995 sono incompiute, specialmente perché prevedono una transizione molto lunga (18 anni , e circa 30 anni per le pensioni di reversibilità, mentre in altri Paesi, ad esempio in Svezia, processi analoghi sono state effettuati in tre anni); b) la crisi finanziaria mondiale ed il rallentamento dell’economia reale ci pongono di fronte ad uno scenario molto differente rispetto a qualche anno fa. Non riaprire la scatola delle riforme previdenziali vuole dire porre il costo del riassetto necessario interamente sulle generazioni più giovani e sulle fasce più deboli (tra cui le donne) facendo fruire rendite alle categorie più avanti con l’età e meglio protette sotto il profilo sindacale (per i due terzi di genere maschile).
ASTE ALLA VICKREY E PROJECT FINANCING CONTRO IL MALAFFARE, Amministrazione Civile n. 3 2008
L’”economia della criminalità” (comparto che ha avuto notevole sviluppo anche in Italia- al tema è stata dedicato un congresso scientifico della Società Italiana degli Economisti che ha tra l’altro prodotto un’interessante raccolta di saggi a cura di Stefano Zamagni) pare avere perso smalto e lustro. Un lavoro prodotto nell’ autunno 2009 presso le Università di Harvard e di Mercer ( Dills A., Miron J., Summers G.“What do economists know about crime” Nber Working Paper No. W13759) conclude sconsolatamente che gli economisti hanno conoscenze approfondite in materia di reati (specialmente di quelli contro la pubblica amministrazione – quali varie forme di corruzione e di concussione), sanno costruire modelli sui comportamenti di chi li commette (che dovrebbero fornire indicazione su come prevenirli e controllarli) , riescono a stimare i costi derivanti dall’illegalità ma non riescono a formulare proposte concrete. Il lavoro citato si basa su una rassegna di 40 anni di letteratura economica sulla criminalità in una vasta gamma di Paesi (sia ad alto reddito sia in via di sviluppo). L’analisi conclude che gli economisti sanno molto poco in materia del punto centrale: le determinanti empiriche dalla criminalità. Di conseguenza il loro lavoro è di scarso rilievo.
Un’impressione parimenti sconsolata e scoraggiante si ha leggendo nel fascicolo d’ottobre 2008 della rivista “Public Money & Management” il saggio i Chris Painter dell’University of Central England intitolato "A Government Department in Meltdown: Crisis at the Home Office" (“Come si squaglia un Ministero: la crisi del Ministero dell’Interno”, della Gran Bretagna). Painter è un economista ed analizza, con la strumentazione professionale della categoria, una serie di reati che nel 2006 e 2007 hanno coinvolto proprio il dicastero responsabile della sicurezza nel Regno di Sua Maestà Britannica ; gli economisti (pur in servizio presso il Ministero) non sono stati in grado di prevederli , e quindi di contribuire a prevenirli. Ove non bastassero queste indicazioni che vengono dal resto del mondo, interessanti alcune stime puntuali nella raccolta di saggi, curata da Antonio La Spina, “I costi dell’illegalità_ Mafia ed estorsioni in Sicilia” pubblicata all’inizio dell’estate da Il Mulino: soltanto in Sicilia , unicamente le estorsioni assorbono oltre l’1,3% del pil generato ogni anno nell’isola – questa stima è compatibile con quelle dell’Ocse sull’economia “informale” in Italia, secondo cui l’illegalità sarebbe responsabile per transazioni pari al 5% del reddito nazionale.
Queste analisi e queste cifre smentiscono una rubrica che oltre 40 anni è stata pubblicata ogni sera sul quotidiano popolare parigino “France Soir”: “Le crime ne paye pas” (“Il delitto non paga”). Divertenti fumetti in cui ad ogni puntata un astuto poliziotto catturava l’autore di quello che sarebbe dovuto essere un delitto perfetto. Eppure da economista (scettico e dubbioso sui meriti della categoria) mi azzardo a fare , dalle pagine di “Amministrazione Civile”, due modeste proposte che potrebbero contenere il malaffare in uno dei campi dove si annida più frequentemente: le opere pubbliche. “A Modest Proposal” – vale la pena ricordarlo – è il titolo di un pamphlet pubblicato nel lontano 1729 da Jonathan Swift : con la consueta vena satirica suggeriva di risolvere i problemi della carestie che tormentavano frequentemente l’Irlanda inducendo i prolifici irlandesi di mangiarsi i propri bambini, riducendo così sia la loro fame attuale sia quelle delle generazioni future (necessariamente meno numerose). Non arrivo, naturalmente, a tanto. Le modeste proposte riguardano due strumenti: l’utilizzazione di finanza di progetto (associando i privati nel finanziamento e nella gestione delle opere) e la modernizzazione delle gare (introducendo quelle che noi economisti chiamiamo “aste alla Vickrey”, dal nome del Premio Nobel che le ha teorizzate).
Andiamo con ordine. Il programma triennale approvato dal Parlamento all’inizio d’agosto pone enfasi sull’investimento pubblico (specialmente in infrastrutture) come strumento per rimettere in moto l’Italia, nel breve periodo, e aumentare, nel medio e lungo, la produttività pure dell’investimento privato e dei fattori di produzione in generale. Sono obiettivi condivisibili, soprattutto a ragione della qualità delle infrastrutture italiane (riconosciuta inadeguata in tutta la documentazione Ue e Ocse) e della riduzione della spesa pubblica in conto capitale effettuata nel 1996-2001 e, di nuovo, nel 2006-2007.
L’Italia – come molti altri Paesi europei (la Francia è la principale eccezione) – è stata piuttosto carente di studi retrospettivi sia sui rendimenti dell’investimento pubblico sia sugli effetti di spiazzamento (crowding out, nel lessico degli economisti) rispetto al potenziale investimento privato (l’investimento pubblico richiede gettito fiscale od indebitamento pubblico, riducendo le risorse disponibili per i privati) sia sugli effetti, invece, di attrazione (crowing in) del privato (fornendo le strutture di base). Ci sono stati numerosi studi sul crowding out della spesa pubblica negli Anni 70 ed 80; tali studi hanno, però, riguardato in gran parte gli aspetti macro-economici generali (senza differenziare tra spesa di parte corrente e spesa in conto capitale). Che io sappia c’è stato un unico studio empirico della produttività marginale dell’investimento pubblico: quello di Maurizio Tenenbaum dell’Università La Sapienza di Roma, condotto all’inizio degli Anni 80 su incarico del Ministero del Bilancio, e, in seguito, pubblicato dalla casa editrice Il Mulino. Fuori catalogo da anni, il saggio esaminava l’investimento pubblico nel periodo 1950-80 con metodo aggregato (una funzione di produzione Cobb-Douglas integrata con la modellistica di Solow per tenere conto del progresso tecnico) concludeva che la spesa pubblica in conto capitale aveva una produttività-marginale dell’8-12% - parametro utilizzato per lustri come riferimento (ad esempio, come tasso di attualizzazione per rendere omogenee entrate ed uscite che si verificano su archi di tempo a volte molto lunghi) nella valutazione di piani e progetti. Occorre tenere presente che il periodo analizzato da Tenenbaum copre in larga misura gli anni del “miracolo economico” (1959-1958) quando, secondo analisi di Charles Kindleberger e Ferenc Janossy (due numi del pensiero economico, uno liberista ed uno marxista, distinti e distanti dalle nostre beghe) l’investimento pubblico (e quello privato) in Italia avevano rendimenti particolarmente elevati in quanto attivavano l’utilizzazione di capitale umano potenzialmente molto ben addestrato e molto produttivo, ma costretto ad una relativa improduttività dal 1936 (guerra d’Africa) alla fine della seconda guerra mondiale.
Di recente, il servizio studi della Banca europea degli investimenti ha completato un’analisi (Antonio Afonso e Miguel St Aubyn “Macro-economic rates of returns of public and private investment – Crowding- in and crowing-out effects” Ebc Working Paper n. 864) che merita di essere meditata non solamente nei Ministeri dell’Economia e delle Finanze, dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture. E’, infatti, nonostante il lessico tecnico, un’analisi ricca di lezioni operative per tutti, anche e soprattutto per le Regioni, le Province ed i Comuni – quindi l’amministrazione civile in generale.
In primo luogo, lo studio riguarda il periodo 1960-2005 – sui suoi risultati, dunque, l’eccezionalità del “miracolo economico” conta relativamente poco ma pesano molto più periodi di quella che i giornalisti chiamano “la notte della Repubblica” – crescita bassa, inflazione. In secondo luogo, è un’analisi comparata che include 14 Paesi dell’Ue, il Canada, Giappone e Stati Uniti. In terzo luogo, utilizza una metodologia VAR (una tecnica econometrica per esaminare serie storiche da non confondere con VaR – Value at Risk una tecnica finanziaria per quantizzare valorizzazioni di titoli tenendo conto dell’elemento di rischio) sviluppata, in applicazioni operative, a partire dalla metà degli Anni 90. Quindi, il lavoro ha un contenuto informativo molto più aggiornato e molto più utile di quello condotto all’inizio degli Anni 80.
Vediamo, in linguaggio non tecnico, quali sono le conclusioni principali dello studio e quali le implicazioni per l’amministrazione civile italiana. Innanzitutto, nel lungo periodo di tempo considerato, l’investimento pubblico ha contratto quello privato (crowding-out) in Belgio, Irlanda, Canada, Regno Unito e Paesi Bassi. Ha invece dato un impulso attivo agli investimenti privati (crowding-.in) in Austria, Danimarca, Germania, Grecia, Portogallo, Spagna e Svezia.
L’Italia è l’unico Paese per il quale, sulla base dei disponibili, l’investimento pubblico non pare avere spiazzato od attivato investimento privato. Un effetto “neutro”? Non esattamente. L’analisi entra anche nei tassi di rendimenti medi (tanto “parziali”, quindi del solo investimento pubblico, quanto “totali”, computando anche l’investimento privato attivato dalla mano pubblica). In Italia, Finlandia, Giappone e Svezia, i tassi di rendimento “parziali” dell’investimento pubblico sono negativi. Il quadro cambia se si guarda ai tassi di rendimento “totali”; il tasso dei rendimenti privati diventa più basso se associato al pubblico generalmente in tutti i Paesi (la sola eccezione è la Francia) e diventa addirittura negativo in Austria, Finlandia, Grecia, Portogallo e Svezia. Questa seconda conclusione mette l’investimento pubblico in Italia in una luce migliore di quanto non lo faccia la prima; infatti, se associato al privato aumenta. Ci sono implicazioni operative?. E’ importante tenere presente che proprio in questa estate 2008 il Governo ha proposto, ed il Parlamento approvato, modifiche alla normativa sulla finanza di progetto per rendere più facile la partnership tra pubblico e privato nel finanziamento e nella realizzazione di opere di utilità generale. E’ utile ricordare che da alcuni anni la Scuola superiore della pubblica amministrazione realizza corsi sulla finanza di progetto specialmente mirati alle amministrazioni del Mezzogiorno (non solamente a quelle periferiche dell’amministrazione centrale dello Stato ma particolarmente diretti a dirigenti e funzionari di Regioni, Province e Comuni). Corsi analoghi potrebbero essere tenuti alla Scuola del Ministero dell’Interno ed alla Scuola Superiore delle pubbliche amministrazioni locali. Se ben gestita, l’alleanza tra pubblico e privato nel finanziamento e nella realizzazione di opere pubbliche non solo riduce i costi a carico della pubblica amministrazione ma introduce criteri imprenditoriali privatistici sia a livello della concezione del programma e del progetto sia nella fase di attuazione e funzionamento.
Lo studio non spiega le ragioni dell’”eccezione francese” (ossia perché l’investimento pubblico in Francia renda generalmente meglio che altrove). Non era uno dei suoi obiettivi trattandosi di un’analisi econometrica non istituzionale od amministrativa. Una spiegazione possibile è nelle implicazioni di lungo periodo del “programma di razionalizzazione delle scelte di bilancio” per diversi anni in vigore Oltralpe. Non solamente ai Ministeri si richiedeva di effettuare analisi sia dei costi sia dei benefici sia degli effetti dell’investimento pubblico di rispettiva competenza ma una rivista semestrale de “La Documentation Française” ne pubblicava le migliori ed incoraggiava il dibattito. Negli Anni 90, ho riprodotto alcuni di questi studi nel libro da me curato (ed edito dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato) “Tecniche di valutazione degli investimenti pubblici”. La prassi stimolava le amministrazioni non solamente a condurre analisi “degne di pubblicazioni” ma le metteva in competizione ed a confronto. In Italia una norma del 1999 (circa dieci anni fa) ha previsto appositi nuclei di valutazione verifica dell’investimento pubblico in tutte le amministrazioni. Non solo è stata applicata parzialmente ma ha spesso prevalso un approccio socio-organizzativo privo del necessario rigore economico e finanziario (tipico, carte alla mano, dell’esperienza e dell’eccezione francese). E’ tema su cui il Governo dovrebbe riflettere. Dovrebbe soprattutto farlo il Sottosegretario incaricato della Segretaria del Cipe , il Comitato di Ministri che il compito di approvare gran parte dei programmi e dei progetti d’investimento pubblico.
Veniamo adesso alla seconda modesta proposta: le aste. Ove non ben congegnate, possono essere lo strumento non per aumentare la trasparenza ma per celare il malaffare. William Spencer Vickrey, un economista canadese che ha insegnato per anni alla Columbia University di New York, ha ricevuto nel 1996 (solo tre giorni prima di morire) il Nobel per l’Economia , a ragione dei suoi lavori teorici ed empirici sulle aste. Nel 1961 il “Journal of Finance” pubblicò un suo articolo fondamentale, "Counterspeculation, auctions and competitive sealed tenders" ("Controspeculazione, aste e offerte competitive in busta chiusa"): era il primo tentativo da parte di un economista di utilizzare gli strumenti propri della teoria dei giochi per meglio capire ed organizzare le aste. Nell'articolo, più avanzato di almeno venti anni rispetto al dibattito dell'epoca, non solo Vickrey deriva vari equilibri nello svolgimento delle aste, ma forniva un teorema oggi al centro della teoria delle aste. L'”asta alla Vickrey”, che dai lui prende il nome, è ancora poco applicata in Italia, nonostante che proprio nel nostro Paese ci sia ispirati a suoi lavori in materia di “congestion pricing” per l’Ecopass di Milano. Il congestion pricing si basa sull’idea che servizi come le strade ed altri dovrebbero essere venduti ad un prezzo tale che gli utenti notino i costi che aumentano per via dell'utilizzo pieno del servizio. In tal modo, si dà un duplice segnale: uno agli utenti, volto a modificarne i comportamenti, e uno agli investitori, volto a far sì che questi espandano il servizio per rimuovere questo vincolo.
Cerchiamo di illustrare in termini non tecnici cosa è “un’asta alla Vickrey” (se ne parlò nel 2007 a proposito della gara per la privatizzazione di Alitaia). Se la stazione appaltante ha come obiettivo principale l’efficienza (come dovrebbe essere sempre quando si tratta di opere pubbliche), il teorema analitico e le dimostrazioni empiriche di Vickrey dimostrano che il meccanismo per garantirne il raggiungimento ed ottenere, al tempo stesso, la massima trasparenza è quello della “second-price sealed auction”, in cui tutti le offerte vengono comunicate contemporaneamente in busta sigillata. Vince l’offerente con la massima offerta, in cambio, però, del pagamento del secondo prezzo più alto. L’efficienza è garantita, in quanto il bene viene allocato al compratore che ne dà la massima valutazione. In aggiunta, chi presenta offerte non ha incentivo a fare il bracconiere dichiarando il falso. Si evitano bracconieri e corsari, in cerca di prede da acquistare (possibilmente a basso costo), spezzettare e rivendere a pezzi e bocconi. I dettagli vengono illustrati tra l’altro nel volume curato da Nicola Dimitri, Gustavo Piga Giancarlo Spagnolo “Handbook of Procurement Fostering Participation in Competitive Procurement” appena pubblicato dalla Cambridge University Press. Un libro di grande spessore internazionale ( anche se i suoi autori sono tutti italiani) e già riconosciuto tale nelle recensioni apparse sulle maggiori riviste scientifiche mondiali. In Italia non mancano esperti d’”aste alla Vickrey”. Aste di questo tipo, ad esempio, sono previste nella transizione da televisione analogica a digitale terrestre. Naturalmente un’”asta alla Vickrey” richiede un capitolato acconcio e molto dettagliato tale da incoraggiare imprese serie dotate della necessaria capacità finanziaria ed industriale. Amava sottolinearlo Vickrey in persona nelle serate, a base di dry sherry, che si passavano al caminetto nel suo villino a Hastings-on-Hudson nei pressi di New York.
Giuseppe Pennisi è professore stabile alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. E’ stato Dirigente generale presso i Ministeri del Bilancio e del Lavoro e per 15 anni funzionario e dirigente della Banca Mondiale. E’ autore di vari libri di analisi economica e collabora assiduamente a quotidiani e periodici.
Un’impressione parimenti sconsolata e scoraggiante si ha leggendo nel fascicolo d’ottobre 2008 della rivista “Public Money & Management” il saggio i Chris Painter dell’University of Central England intitolato "A Government Department in Meltdown: Crisis at the Home Office" (“Come si squaglia un Ministero: la crisi del Ministero dell’Interno”, della Gran Bretagna). Painter è un economista ed analizza, con la strumentazione professionale della categoria, una serie di reati che nel 2006 e 2007 hanno coinvolto proprio il dicastero responsabile della sicurezza nel Regno di Sua Maestà Britannica ; gli economisti (pur in servizio presso il Ministero) non sono stati in grado di prevederli , e quindi di contribuire a prevenirli. Ove non bastassero queste indicazioni che vengono dal resto del mondo, interessanti alcune stime puntuali nella raccolta di saggi, curata da Antonio La Spina, “I costi dell’illegalità_ Mafia ed estorsioni in Sicilia” pubblicata all’inizio dell’estate da Il Mulino: soltanto in Sicilia , unicamente le estorsioni assorbono oltre l’1,3% del pil generato ogni anno nell’isola – questa stima è compatibile con quelle dell’Ocse sull’economia “informale” in Italia, secondo cui l’illegalità sarebbe responsabile per transazioni pari al 5% del reddito nazionale.
Queste analisi e queste cifre smentiscono una rubrica che oltre 40 anni è stata pubblicata ogni sera sul quotidiano popolare parigino “France Soir”: “Le crime ne paye pas” (“Il delitto non paga”). Divertenti fumetti in cui ad ogni puntata un astuto poliziotto catturava l’autore di quello che sarebbe dovuto essere un delitto perfetto. Eppure da economista (scettico e dubbioso sui meriti della categoria) mi azzardo a fare , dalle pagine di “Amministrazione Civile”, due modeste proposte che potrebbero contenere il malaffare in uno dei campi dove si annida più frequentemente: le opere pubbliche. “A Modest Proposal” – vale la pena ricordarlo – è il titolo di un pamphlet pubblicato nel lontano 1729 da Jonathan Swift : con la consueta vena satirica suggeriva di risolvere i problemi della carestie che tormentavano frequentemente l’Irlanda inducendo i prolifici irlandesi di mangiarsi i propri bambini, riducendo così sia la loro fame attuale sia quelle delle generazioni future (necessariamente meno numerose). Non arrivo, naturalmente, a tanto. Le modeste proposte riguardano due strumenti: l’utilizzazione di finanza di progetto (associando i privati nel finanziamento e nella gestione delle opere) e la modernizzazione delle gare (introducendo quelle che noi economisti chiamiamo “aste alla Vickrey”, dal nome del Premio Nobel che le ha teorizzate).
Andiamo con ordine. Il programma triennale approvato dal Parlamento all’inizio d’agosto pone enfasi sull’investimento pubblico (specialmente in infrastrutture) come strumento per rimettere in moto l’Italia, nel breve periodo, e aumentare, nel medio e lungo, la produttività pure dell’investimento privato e dei fattori di produzione in generale. Sono obiettivi condivisibili, soprattutto a ragione della qualità delle infrastrutture italiane (riconosciuta inadeguata in tutta la documentazione Ue e Ocse) e della riduzione della spesa pubblica in conto capitale effettuata nel 1996-2001 e, di nuovo, nel 2006-2007.
L’Italia – come molti altri Paesi europei (la Francia è la principale eccezione) – è stata piuttosto carente di studi retrospettivi sia sui rendimenti dell’investimento pubblico sia sugli effetti di spiazzamento (crowding out, nel lessico degli economisti) rispetto al potenziale investimento privato (l’investimento pubblico richiede gettito fiscale od indebitamento pubblico, riducendo le risorse disponibili per i privati) sia sugli effetti, invece, di attrazione (crowing in) del privato (fornendo le strutture di base). Ci sono stati numerosi studi sul crowding out della spesa pubblica negli Anni 70 ed 80; tali studi hanno, però, riguardato in gran parte gli aspetti macro-economici generali (senza differenziare tra spesa di parte corrente e spesa in conto capitale). Che io sappia c’è stato un unico studio empirico della produttività marginale dell’investimento pubblico: quello di Maurizio Tenenbaum dell’Università La Sapienza di Roma, condotto all’inizio degli Anni 80 su incarico del Ministero del Bilancio, e, in seguito, pubblicato dalla casa editrice Il Mulino. Fuori catalogo da anni, il saggio esaminava l’investimento pubblico nel periodo 1950-80 con metodo aggregato (una funzione di produzione Cobb-Douglas integrata con la modellistica di Solow per tenere conto del progresso tecnico) concludeva che la spesa pubblica in conto capitale aveva una produttività-marginale dell’8-12% - parametro utilizzato per lustri come riferimento (ad esempio, come tasso di attualizzazione per rendere omogenee entrate ed uscite che si verificano su archi di tempo a volte molto lunghi) nella valutazione di piani e progetti. Occorre tenere presente che il periodo analizzato da Tenenbaum copre in larga misura gli anni del “miracolo economico” (1959-1958) quando, secondo analisi di Charles Kindleberger e Ferenc Janossy (due numi del pensiero economico, uno liberista ed uno marxista, distinti e distanti dalle nostre beghe) l’investimento pubblico (e quello privato) in Italia avevano rendimenti particolarmente elevati in quanto attivavano l’utilizzazione di capitale umano potenzialmente molto ben addestrato e molto produttivo, ma costretto ad una relativa improduttività dal 1936 (guerra d’Africa) alla fine della seconda guerra mondiale.
Di recente, il servizio studi della Banca europea degli investimenti ha completato un’analisi (Antonio Afonso e Miguel St Aubyn “Macro-economic rates of returns of public and private investment – Crowding- in and crowing-out effects” Ebc Working Paper n. 864) che merita di essere meditata non solamente nei Ministeri dell’Economia e delle Finanze, dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture. E’, infatti, nonostante il lessico tecnico, un’analisi ricca di lezioni operative per tutti, anche e soprattutto per le Regioni, le Province ed i Comuni – quindi l’amministrazione civile in generale.
In primo luogo, lo studio riguarda il periodo 1960-2005 – sui suoi risultati, dunque, l’eccezionalità del “miracolo economico” conta relativamente poco ma pesano molto più periodi di quella che i giornalisti chiamano “la notte della Repubblica” – crescita bassa, inflazione. In secondo luogo, è un’analisi comparata che include 14 Paesi dell’Ue, il Canada, Giappone e Stati Uniti. In terzo luogo, utilizza una metodologia VAR (una tecnica econometrica per esaminare serie storiche da non confondere con VaR – Value at Risk una tecnica finanziaria per quantizzare valorizzazioni di titoli tenendo conto dell’elemento di rischio) sviluppata, in applicazioni operative, a partire dalla metà degli Anni 90. Quindi, il lavoro ha un contenuto informativo molto più aggiornato e molto più utile di quello condotto all’inizio degli Anni 80.
Vediamo, in linguaggio non tecnico, quali sono le conclusioni principali dello studio e quali le implicazioni per l’amministrazione civile italiana. Innanzitutto, nel lungo periodo di tempo considerato, l’investimento pubblico ha contratto quello privato (crowding-out) in Belgio, Irlanda, Canada, Regno Unito e Paesi Bassi. Ha invece dato un impulso attivo agli investimenti privati (crowding-.in) in Austria, Danimarca, Germania, Grecia, Portogallo, Spagna e Svezia.
L’Italia è l’unico Paese per il quale, sulla base dei disponibili, l’investimento pubblico non pare avere spiazzato od attivato investimento privato. Un effetto “neutro”? Non esattamente. L’analisi entra anche nei tassi di rendimenti medi (tanto “parziali”, quindi del solo investimento pubblico, quanto “totali”, computando anche l’investimento privato attivato dalla mano pubblica). In Italia, Finlandia, Giappone e Svezia, i tassi di rendimento “parziali” dell’investimento pubblico sono negativi. Il quadro cambia se si guarda ai tassi di rendimento “totali”; il tasso dei rendimenti privati diventa più basso se associato al pubblico generalmente in tutti i Paesi (la sola eccezione è la Francia) e diventa addirittura negativo in Austria, Finlandia, Grecia, Portogallo e Svezia. Questa seconda conclusione mette l’investimento pubblico in Italia in una luce migliore di quanto non lo faccia la prima; infatti, se associato al privato aumenta. Ci sono implicazioni operative?. E’ importante tenere presente che proprio in questa estate 2008 il Governo ha proposto, ed il Parlamento approvato, modifiche alla normativa sulla finanza di progetto per rendere più facile la partnership tra pubblico e privato nel finanziamento e nella realizzazione di opere di utilità generale. E’ utile ricordare che da alcuni anni la Scuola superiore della pubblica amministrazione realizza corsi sulla finanza di progetto specialmente mirati alle amministrazioni del Mezzogiorno (non solamente a quelle periferiche dell’amministrazione centrale dello Stato ma particolarmente diretti a dirigenti e funzionari di Regioni, Province e Comuni). Corsi analoghi potrebbero essere tenuti alla Scuola del Ministero dell’Interno ed alla Scuola Superiore delle pubbliche amministrazioni locali. Se ben gestita, l’alleanza tra pubblico e privato nel finanziamento e nella realizzazione di opere pubbliche non solo riduce i costi a carico della pubblica amministrazione ma introduce criteri imprenditoriali privatistici sia a livello della concezione del programma e del progetto sia nella fase di attuazione e funzionamento.
Lo studio non spiega le ragioni dell’”eccezione francese” (ossia perché l’investimento pubblico in Francia renda generalmente meglio che altrove). Non era uno dei suoi obiettivi trattandosi di un’analisi econometrica non istituzionale od amministrativa. Una spiegazione possibile è nelle implicazioni di lungo periodo del “programma di razionalizzazione delle scelte di bilancio” per diversi anni in vigore Oltralpe. Non solamente ai Ministeri si richiedeva di effettuare analisi sia dei costi sia dei benefici sia degli effetti dell’investimento pubblico di rispettiva competenza ma una rivista semestrale de “La Documentation Française” ne pubblicava le migliori ed incoraggiava il dibattito. Negli Anni 90, ho riprodotto alcuni di questi studi nel libro da me curato (ed edito dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato) “Tecniche di valutazione degli investimenti pubblici”. La prassi stimolava le amministrazioni non solamente a condurre analisi “degne di pubblicazioni” ma le metteva in competizione ed a confronto. In Italia una norma del 1999 (circa dieci anni fa) ha previsto appositi nuclei di valutazione verifica dell’investimento pubblico in tutte le amministrazioni. Non solo è stata applicata parzialmente ma ha spesso prevalso un approccio socio-organizzativo privo del necessario rigore economico e finanziario (tipico, carte alla mano, dell’esperienza e dell’eccezione francese). E’ tema su cui il Governo dovrebbe riflettere. Dovrebbe soprattutto farlo il Sottosegretario incaricato della Segretaria del Cipe , il Comitato di Ministri che il compito di approvare gran parte dei programmi e dei progetti d’investimento pubblico.
Veniamo adesso alla seconda modesta proposta: le aste. Ove non ben congegnate, possono essere lo strumento non per aumentare la trasparenza ma per celare il malaffare. William Spencer Vickrey, un economista canadese che ha insegnato per anni alla Columbia University di New York, ha ricevuto nel 1996 (solo tre giorni prima di morire) il Nobel per l’Economia , a ragione dei suoi lavori teorici ed empirici sulle aste. Nel 1961 il “Journal of Finance” pubblicò un suo articolo fondamentale, "Counterspeculation, auctions and competitive sealed tenders" ("Controspeculazione, aste e offerte competitive in busta chiusa"): era il primo tentativo da parte di un economista di utilizzare gli strumenti propri della teoria dei giochi per meglio capire ed organizzare le aste. Nell'articolo, più avanzato di almeno venti anni rispetto al dibattito dell'epoca, non solo Vickrey deriva vari equilibri nello svolgimento delle aste, ma forniva un teorema oggi al centro della teoria delle aste. L'”asta alla Vickrey”, che dai lui prende il nome, è ancora poco applicata in Italia, nonostante che proprio nel nostro Paese ci sia ispirati a suoi lavori in materia di “congestion pricing” per l’Ecopass di Milano. Il congestion pricing si basa sull’idea che servizi come le strade ed altri dovrebbero essere venduti ad un prezzo tale che gli utenti notino i costi che aumentano per via dell'utilizzo pieno del servizio. In tal modo, si dà un duplice segnale: uno agli utenti, volto a modificarne i comportamenti, e uno agli investitori, volto a far sì che questi espandano il servizio per rimuovere questo vincolo.
Cerchiamo di illustrare in termini non tecnici cosa è “un’asta alla Vickrey” (se ne parlò nel 2007 a proposito della gara per la privatizzazione di Alitaia). Se la stazione appaltante ha come obiettivo principale l’efficienza (come dovrebbe essere sempre quando si tratta di opere pubbliche), il teorema analitico e le dimostrazioni empiriche di Vickrey dimostrano che il meccanismo per garantirne il raggiungimento ed ottenere, al tempo stesso, la massima trasparenza è quello della “second-price sealed auction”, in cui tutti le offerte vengono comunicate contemporaneamente in busta sigillata. Vince l’offerente con la massima offerta, in cambio, però, del pagamento del secondo prezzo più alto. L’efficienza è garantita, in quanto il bene viene allocato al compratore che ne dà la massima valutazione. In aggiunta, chi presenta offerte non ha incentivo a fare il bracconiere dichiarando il falso. Si evitano bracconieri e corsari, in cerca di prede da acquistare (possibilmente a basso costo), spezzettare e rivendere a pezzi e bocconi. I dettagli vengono illustrati tra l’altro nel volume curato da Nicola Dimitri, Gustavo Piga Giancarlo Spagnolo “Handbook of Procurement Fostering Participation in Competitive Procurement” appena pubblicato dalla Cambridge University Press. Un libro di grande spessore internazionale ( anche se i suoi autori sono tutti italiani) e già riconosciuto tale nelle recensioni apparse sulle maggiori riviste scientifiche mondiali. In Italia non mancano esperti d’”aste alla Vickrey”. Aste di questo tipo, ad esempio, sono previste nella transizione da televisione analogica a digitale terrestre. Naturalmente un’”asta alla Vickrey” richiede un capitolato acconcio e molto dettagliato tale da incoraggiare imprese serie dotate della necessaria capacità finanziaria ed industriale. Amava sottolinearlo Vickrey in persona nelle serate, a base di dry sherry, che si passavano al caminetto nel suo villino a Hastings-on-Hudson nei pressi di New York.
Giuseppe Pennisi è professore stabile alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. E’ stato Dirigente generale presso i Ministeri del Bilancio e del Lavoro e per 15 anni funzionario e dirigente della Banca Mondiale. E’ autore di vari libri di analisi economica e collabora assiduamente a quotidiani e periodici.
lunedì 22 dicembre 2008
PUCCINI E LA RAI , Il Velino 22 -23 dicembre
Roma, 22 dic (Velino) - Oggi 22 dicembre ricorrono i 150 anni dalla nascita di Giacomo Puccini. Se fosse nato in Austria, Germania o Francia, le televisioni pubbliche avrebbero dedicato a uno dei maggiori compositori internazionali la prima serata. In effetti, il canale franco-tedesco Arte (in chiaro e gratuito) ha organizzato nelle ultime settimane un vero e proprio festival di tutte le opere pucciniane che in Italia hanno potuto gustare (a pagamento) gli abbonati del canale “Classica” di Sky. La Rai ha relegato in seconda serata (con inizio alle 23,10) una vecchia e discutibile edizione di “Tosca nei luoghi e nelle ore di Tosca”. La mediocre trasmissione inizierà quando a Londra, il maestro Nicola Luisotti starà dirigendo le ultime battute di “Turandot” in un Covent Garden esaurito da mesi per l’importante ricorrenza. Tutto ciò è un’ulteriore indicazione dell’urgenza di dare un colpo d’ala alla Rai, mandando a casa chi ha ridotto la tv pubblica a televisione provinciale. Il Comitato per le celebrazioni ha lavorato alacremente per quattro anni. Oggi, a Firenze verrà conferito a Woody Allen il Premio Puccini per la regia di “Gianni Schicchi”a Los Angeles. I festeggiamenti in onore di Puccini culmineranno in serata con il grande concerto “Buon Compleanno Maestro!” al Teatro del Giglio di Lucca organizzato dal Comitato Nazionale Celebrazioni Pucciniane e dai Teatri della Terra di Puccini. Si tratta di una grande serata di musica che vedrà protagonisti la Royal Philharmonic Orchestra diretta da M.A. Gomez Martinez, Amarilli Nizza, Maria Luigia Borsi e Marcello Giordani. Quasi in contemporanea, il soprano cileno Cristina Gallardo-Domas riceverà a Las Palmas, il Puccini International Awards, lo speciale riconoscimento istituito dalla Fondazione Festival Pucciniano assieme al ministero degli Affari esteri. Dalla Cina, all’Australia, dal Canada agli Stati Uniti passando per l’Africa e l’Europa, la Fondazione Festival Pucciniano di Torre del Lago ha partecipato e promosso produzioni liriche, concerti, mostre, concorsi internazionali di canto, in un corale tributo del mondo intero al compositore lucchese. L’anno pucciniano è stato scandito da diversi eventi. In Cina c’è stata la rappresentazione della “Turandot al Beijing Grand Theatre, mentre in questi gironi al Winland International Finance Centre di Pechino è in programma un concerto di Gala di Natale dal titolo “Recondita Armonia”: si tratta di un’antologia che vedrà impegnati i migliori 18 artisti lirici cinesi nell’interpretazione delle più celebri arie per soprano e tenore delle dodici opere composte da Puccini. A Tokyo, l’anniversario è stato celebrato con una maratona pucciniana che ha visto insieme artisti italiani e giapponesi interpretare per più di sei ore l’intero repertorio del compositore lucchese. Sempre in Giappone, a Nagasaki, è stata allestita una mostra dedicata a “Madama Butterfly”. In Corea c’è stata la rappresentazione di “Tosca” affidata al giovane direttore del Festival di Torre del Lago Valerio Galli. In Australia, ad Adelaide e Melbourne, si è tenuto un importante concorso di canto dedicato a Puccini dove è stato selezionato il miglior artista pucciniano del continente. La RAI ha replicato ed io ho controreplicatoCelebrazioni si sono svolte anche in Medio Oriente con un grande concerto a Tel Aviv e in Africa con eventi e concerti a Tripoli e Pretoria. In Canada, a Montreal, cinquemila spettatori sono accorsi a un teatro all’aperto per vedere la "Bohème". In Europa la Fondazione Festival Pucciniano e l’Opera di Nizza hanno realizzato la rappresentazione de “La Rondine”, mentre la Bulgaria ha reso omaggio a “La Fanciulla del West”. Numerosissime comunque le città e capitali europee che hanno scelto di dedicare un evento a Puccini: Lubiana, Vilnius, Riga, Marsiglia, Kiev, Stoccolma, Amsterdam, Strasburgo, Londra, Bruxelles, Berlino, Avignone, Vienna. In breve solo viale Mazzini, in tutt’altre vicende affaccendata, ha marcato visita. Viene da chiedersi perché pagare ancora il canone…
Roma, 22 dic (Velino) - In riferimento all’articolo di Hans Sachs pubblicato stamane dal “Velino” e intitolato “Lirica, la Rai dimentica Puccini”, in Viale Mazzini fanno rilevare “che l’articolista deve essere un distratto se non si è accorto di quanto ha fatto la Rai sulle sue reti televisive, radiofoniche e satellitari per l’anno del centenario della nascita di Giacomo Puccini. Senza fare l’elenco – aggiunge la nota - ricordiamo che la conclusione sarà la trasmissione su RaiUno in gennaio dello sceneggiato ‘Puccini’ che è stato presentato in anteprima mondiale negli Stati Uniti, prima all’ambasciata italiana a Washington il 6 ottobre e il giorno dopo a New York alla Carnegie Hall. Sinceramente era un evento da ricordare nella lista delle iniziative internazionali da lui puntigliosamente elencate. Per quanto riguarda il suo giudizio personale sulla ‘Tosca nei luoghi e nelle ore di Tosca’, definita ‘vecchia e discutibile’ e ‘mediocre’, crediamo siano di maggiore importanza e valore – aggiunge l’Azienda - gli articoli scritti dai più autorevoli critici musicali dei più importanti giornali italiani e internazionali. ‘Le Monde’ e ‘New York Times’, tra gli altri, hanno elogiato il live-film prodotto per la Rai da Andrea Andermann che è stato visto e applaudito in 107 nazioni. Se fosse stato meno distratto, dunque, non avrebbe sicuramente scritto – conclude la nota Rai - che ‘Viale Mazzini ha marcato visita’, perché falso”. Hans Sachs replica: "La precisazione conferma i fatti. I giudizi sullo sceneggiato e sul vecchio film sulla Tosca appartengono ai critici. Noto che 'Avvenire' ha espresso riserve. La Rai forse non ha marcato visita ma ha comunque ignorato Puccini (rispetto a quanto fatto nel resto del mondo). Quindi, merita di essere ignorata".
Roma, 22 dic (Velino) - In riferimento all’articolo di Hans Sachs pubblicato stamane dal “Velino” e intitolato “Lirica, la Rai dimentica Puccini”, in Viale Mazzini fanno rilevare “che l’articolista deve essere un distratto se non si è accorto di quanto ha fatto la Rai sulle sue reti televisive, radiofoniche e satellitari per l’anno del centenario della nascita di Giacomo Puccini. Senza fare l’elenco – aggiunge la nota - ricordiamo che la conclusione sarà la trasmissione su RaiUno in gennaio dello sceneggiato ‘Puccini’ che è stato presentato in anteprima mondiale negli Stati Uniti, prima all’ambasciata italiana a Washington il 6 ottobre e il giorno dopo a New York alla Carnegie Hall. Sinceramente era un evento da ricordare nella lista delle iniziative internazionali da lui puntigliosamente elencate. Per quanto riguarda il suo giudizio personale sulla ‘Tosca nei luoghi e nelle ore di Tosca’, definita ‘vecchia e discutibile’ e ‘mediocre’, crediamo siano di maggiore importanza e valore – aggiunge l’Azienda - gli articoli scritti dai più autorevoli critici musicali dei più importanti giornali italiani e internazionali. ‘Le Monde’ e ‘New York Times’, tra gli altri, hanno elogiato il live-film prodotto per la Rai da Andrea Andermann che è stato visto e applaudito in 107 nazioni. Se fosse stato meno distratto, dunque, non avrebbe sicuramente scritto – conclude la nota Rai - che ‘Viale Mazzini ha marcato visita’, perché falso”. Hans Sachs replica: "La precisazione conferma i fatti. I giudizi sullo sceneggiato e sul vecchio film sulla Tosca appartengono ai critici. Noto che 'Avvenire' ha espresso riserve. La Rai forse non ha marcato visita ma ha comunque ignorato Puccini (rispetto a quanto fatto nel resto del mondo). Quindi, merita di essere ignorata".
sabato 20 dicembre 2008
NELLA VITA D’IMPRESA SIAMO TUTTI COME "IL BARBIERE DI STALIN” Il Tempo 20 dicembre
Il barbiere di Stalin – è noto, anzi notorio – faceva barba e capelli al “piccolo padre” e non si curava di purghe, stragi e genocidi che avvenivano attorno a lui, quasi sempre su indicazione diretto di colui che lui stesso acconciava. In questo saggio, Paolo D’Anselmi, ingegnere diventato consulente aziendale e, successivamente, specialista di comunicazione e grande conoscitori della pubblica amministrazione, traccia, con penna brillante (in nove capitoli) un quadro dell’Italia di oggi in cui saremmo un po’ tutti dei barbieri di Stalin. In altri termini, inseguiamo il nostro “particolare”, senza darci peso delle sue implicazioni sociali. Gli esempi sono numerosissimi e spesso pure divertenti (anche se non mancano lungaggini – come nel lungo capitolo 4 sulla “politica che non conta” ed accenti che a volte possono sembrare qualunquisti- come nel capitolo 8 sulla “mistica della responsabilità”). Il libro non ha, però, la pretesa di essere un saggio sociologico con il quale aprire un nuovo sentiero alla disciplina. E’ un veicolo di divulgazione e di sensibilizzazione perché si sia tutti più responsabili nella nostra vita e soprattutto nel nostro lavoro quotidiano. A tratti ha il tono del predicozzo, con la bonarietà, però, del parroco di campagna.
Nonostante questi limiti, è una lettura utile per chi voglia sapere qualcosa di più di uno dei nuovi miti della vita d’impresa : la “corporate social responsibility” (CRS), responsabilità sociale d’impresa (e la strumentazione, quale la redazione di “bilanci sociali” che l’accompagna). Sono temi su cui esiste una letteratura fiorentissima – basta consultare un motore di ricerca specializzato come www.dogpile.com – ed anche una buona dose di confusione. A volte, pure in buona fede, si commettono gravi errori in nome della CRS – la gestione prodiana dell’Iri e della stessa Alitalia ne sono casi di studio concreti. La CRS (e il bilancio sociale) vanno maneggiati con cura. La responsabilità primaria d’impresa – come sottolineano vari lavori prodotti, in Italia, principalmente dall’Istituto Bruno Leoni (IBL) – è nei confronti dei propri azionisti a cui deve portare utili, nel rispetto delle norme e degli standard dei Paesi e delle collettività in cui opera. Naturalmente, se reca utile, buon senso vuole che ne faccia fruire tutti coloro che hanno contribuito al successo. Occorre evitare, però, quel “capitalismo renano” (la definizione è di Michel Albert) tanto amato da Prodi & Co. , all’insegna di una co-responsabilità (che porta alla de-responsabilizzazione) e di aziende considerate come ammortizzatori sociali (a spese di Pantalone) per i propri dipendenti.
Paolo D’Anselmi “Il Barbiere di Stalin- Critica del lavoro (ir)responsabile” Milano , Università Bocconi Editore pp. 306
Nonostante questi limiti, è una lettura utile per chi voglia sapere qualcosa di più di uno dei nuovi miti della vita d’impresa : la “corporate social responsibility” (CRS), responsabilità sociale d’impresa (e la strumentazione, quale la redazione di “bilanci sociali” che l’accompagna). Sono temi su cui esiste una letteratura fiorentissima – basta consultare un motore di ricerca specializzato come www.dogpile.com – ed anche una buona dose di confusione. A volte, pure in buona fede, si commettono gravi errori in nome della CRS – la gestione prodiana dell’Iri e della stessa Alitalia ne sono casi di studio concreti. La CRS (e il bilancio sociale) vanno maneggiati con cura. La responsabilità primaria d’impresa – come sottolineano vari lavori prodotti, in Italia, principalmente dall’Istituto Bruno Leoni (IBL) – è nei confronti dei propri azionisti a cui deve portare utili, nel rispetto delle norme e degli standard dei Paesi e delle collettività in cui opera. Naturalmente, se reca utile, buon senso vuole che ne faccia fruire tutti coloro che hanno contribuito al successo. Occorre evitare, però, quel “capitalismo renano” (la definizione è di Michel Albert) tanto amato da Prodi & Co. , all’insegna di una co-responsabilità (che porta alla de-responsabilizzazione) e di aziende considerate come ammortizzatori sociali (a spese di Pantalone) per i propri dipendenti.
Paolo D’Anselmi “Il Barbiere di Stalin- Critica del lavoro (ir)responsabile” Milano , Università Bocconi Editore pp. 306
PAESE CHE VAI, PORTAFOGLIO CHE TROVI: LE ZIE DI PAOLINO ORA COMPRANO Libero 20 dicembre
Quali sono le buone azioni da offrire questo Natale, al termine di un anno in cui il più noto indice dei mercati mondiali- lo MSCI- ha segnato una contrazione del 50% e in tutti i continenti individui famiglie ed imprese si percepiscono (a torto od a ragione) più poveri di quanto si sentivano quando si apprestavano a tagliare il panettone per la Vigilia del 2007?
Se lo chiedono (a suon di e-mail) le zie di Paolino, che ha appena compiuto 12 anni ed a cui da quando è nato hanno fatto ogni anno un regalino di buone azioni (ed obbligazioni) l’utile con il dilettevole. Il frugoletto imparava i rudimenti di cosa è un portafoglio finanziario, divertendosi a pensare cosa ne avrebbe fatto una volta raggiunta la maggiore età. Le zie di Paolino hanno tutte sposato (ah!, le vicende della vita) stranieri e vivono da lustri lontane dall’Italia. Comunicano intensamente e frequentemente tra loro, specialmente quando devono coordinare le loro azioni (in vista di azioni ed obbligazioni) per le strenne natalizie.
Zia Sarah (ha preso lo spelling della City, pur avendo origini brianzole) è sempre stata la più ardimentosa del gruppo. Sposata ad un baronetto britannico, è riuscita a restaurare il castello avito grazie alle delizie che le hanno dato gli heddge fund:- proprio quelli che si pensa di regolare e vigilare in quanto troppo rischiosi. “Per le casalinghe analfabete”, scrive Sarah alle altre zie , che le hanno fatto notare come i più comuni indicatori di valorizzazione degli hedge funds abbiamo perso il 23% dal primo gennaio (nonostante l’affare “Madoff” che ne ha provocato uno scivolone proprio nell’ultima settimana). “Sempre meglio del 50% del MSCI – puntualizza nel suo mail- e i macro funds sistemici (che utilizzano complicati modelli econometrici per battere i mercati mondiali) hanno visto aumentare la loro valorizzazione, nello stesso periodo, circa del 17%”. Zia Sarah ha messo gli occhi sul fondo “Keynes” (un nome che è tutto un programma) che utilizza modelli a breve, medio e lungo termine per contenere il rischio. Ha reso un buon 14% dall’inizio dell’anno (e la sua versione con forte leva finanziaria, allestita per chi adora le montagne russe, oltre il 40%).
Più prudente zia Katherine, in quel di Boston. Se l’è vista brutta perché aveva orientato il proprio portafogli sui titoli del settore finanziario (che, all’apex della bolla creditizia, contava per ben il 40% degli utili societari Usa ed ora è quasi sul lastrico. Sa, quindi, da dove tenersi a distanza. Ovviamente, occorre tenere lei stesse e Paolino anche alla larga della metalmeccanica e della chimica di base. Dove puntare? Azioni ed obbligazioni di aziende specializzate in “corporate restracturing” (riorganizzazione aziendale- la crisi del secolo ha dimostrato che “corporate Usa” ne avrà disperatamente bisogno per diversi anni). Inoltre, l’agro-alimentare che, in seguito anche al fallimento del negoziato multilaterale sugli scambi Doha development agenda, l’Ammistrazione Obama proteggerà a denti stretti (a suon di dazi e sussidi).
Anche zia Genéviève in quel di Parigi sorride al neoprotezionismo ed alle azioni che lo caratterizzeranno. Per Paolino ha confezionato una bûche de Noël (tronco al cioccolato, equivalente francese del nostro panettone) ed una couronne des rois (da aprire per l’Epifania) in piena regola con accanto azioni di aziende della difesa, le prime che riceveranno gli “incentivi” – chiamiamoli così- a valere sul “fondo sovrano Sarkozy” creato a fine Novembre. E’ certa che andranno alla grande e, quando Paolino avrà 18 anni, vedrà molto aumentata la loro valorizzazione.
Zia Olga militava, da ragazza, per il Pci. E’ quindi naturale che abbia sposato un “compagno” sovietico e si sia trasferita a Mosca. Se la passava bene allora – lui apparteneva alla nomenklatura. Se la passa meglio oggi , come coniuge di un oligarca le cui preci mattutine sono rivolte al libero mercato (e poco s’intende di Pope e Patriarca). Non ha nessuna intenzione di dare a Paolino delle azioni della Borsa di Mosca (il cui indice è crollato del 70% negli ultimi 12 mesi). Sa, però, per esperienza personale che ci saranno sempre i ricchi – c’erano pure nell’Urss- con i gusti dei ricchi. Quindi, se si deve puntare su qualcosa di nazionale, è bene guardare con attenzione alle società che estraggono diamanti dal Polo Artico russo; hanno già fatto la fortuna di Lev Leviel, un ubzeco amico di famiglia, presso cui si approvvigionano la De Beers e Graff. Si può anche puntare su aziende-boutique come il Jewellery Theatre sul Kutuzobsky Prospekt di Mosca dove disegnatori russi lavorano per il mercato del superlusso interno ed internazionale.
In Giappone, zia Suzuki (prima di spostare e trasferirsi nel Celeste Impero, si chiamava Angelina) ha un punto di vista molto differente. Ormai nipponizzata, vede gli investimenti dalla prospettiva di un Arcipelago la cui popolazione sta, al tempo stesso, invecchiando e diminuendo . E’, quindi, convinta che le buone azioni sono di quel manifatturiero in grado di restare tecnologicamente all’avanguardia: non per nulla, pur nel mezzo della crisi, nel porto di Sakai la Sharp sta costruendo un impianto (al costo dell’equivalente di circa 10 miliardi di euro) che nel 2010 produrrà 13 milioni televisori a cristallo liquido l’anno – gioia e delizia per il digitale , allora la norma in tutte del case dei Paesi (asiatici, europei e latino americano) ad alto livello di reddito pro-capite. Un ritorno agli Anni 60 quando la Sony riempiva l’universo globo di transistor? Non proprio. Per Zia Suzuki il sempre più anziano Giappone prima e molti altri Paesi, poi, (tra cui l’Italia di Paolino) avrà bisogno di aiuto domestico alle persone e non vorrà essere invaso da stranieri con lingue e culture così differenti dalle loro. Quindi, tra le buone azioni occorre includere quelle della robotica.
E zia Rosetta di Busto Arsizio (“Non confondetemi con la Jervolino !” è scritto automaticamente., in sei lingue, in calce a tutti i suoi mail)? Di azioni ha poco da suggerire, ma è in attesa dei superbonds tremontiani: Forse dirà a Paolino di attendere con pazienza (ed in linea con le italiche tradizioni) la notte dell’Epifania.
Se lo chiedono (a suon di e-mail) le zie di Paolino, che ha appena compiuto 12 anni ed a cui da quando è nato hanno fatto ogni anno un regalino di buone azioni (ed obbligazioni) l’utile con il dilettevole. Il frugoletto imparava i rudimenti di cosa è un portafoglio finanziario, divertendosi a pensare cosa ne avrebbe fatto una volta raggiunta la maggiore età. Le zie di Paolino hanno tutte sposato (ah!, le vicende della vita) stranieri e vivono da lustri lontane dall’Italia. Comunicano intensamente e frequentemente tra loro, specialmente quando devono coordinare le loro azioni (in vista di azioni ed obbligazioni) per le strenne natalizie.
Zia Sarah (ha preso lo spelling della City, pur avendo origini brianzole) è sempre stata la più ardimentosa del gruppo. Sposata ad un baronetto britannico, è riuscita a restaurare il castello avito grazie alle delizie che le hanno dato gli heddge fund:- proprio quelli che si pensa di regolare e vigilare in quanto troppo rischiosi. “Per le casalinghe analfabete”, scrive Sarah alle altre zie , che le hanno fatto notare come i più comuni indicatori di valorizzazione degli hedge funds abbiamo perso il 23% dal primo gennaio (nonostante l’affare “Madoff” che ne ha provocato uno scivolone proprio nell’ultima settimana). “Sempre meglio del 50% del MSCI – puntualizza nel suo mail- e i macro funds sistemici (che utilizzano complicati modelli econometrici per battere i mercati mondiali) hanno visto aumentare la loro valorizzazione, nello stesso periodo, circa del 17%”. Zia Sarah ha messo gli occhi sul fondo “Keynes” (un nome che è tutto un programma) che utilizza modelli a breve, medio e lungo termine per contenere il rischio. Ha reso un buon 14% dall’inizio dell’anno (e la sua versione con forte leva finanziaria, allestita per chi adora le montagne russe, oltre il 40%).
Più prudente zia Katherine, in quel di Boston. Se l’è vista brutta perché aveva orientato il proprio portafogli sui titoli del settore finanziario (che, all’apex della bolla creditizia, contava per ben il 40% degli utili societari Usa ed ora è quasi sul lastrico. Sa, quindi, da dove tenersi a distanza. Ovviamente, occorre tenere lei stesse e Paolino anche alla larga della metalmeccanica e della chimica di base. Dove puntare? Azioni ed obbligazioni di aziende specializzate in “corporate restracturing” (riorganizzazione aziendale- la crisi del secolo ha dimostrato che “corporate Usa” ne avrà disperatamente bisogno per diversi anni). Inoltre, l’agro-alimentare che, in seguito anche al fallimento del negoziato multilaterale sugli scambi Doha development agenda, l’Ammistrazione Obama proteggerà a denti stretti (a suon di dazi e sussidi).
Anche zia Genéviève in quel di Parigi sorride al neoprotezionismo ed alle azioni che lo caratterizzeranno. Per Paolino ha confezionato una bûche de Noël (tronco al cioccolato, equivalente francese del nostro panettone) ed una couronne des rois (da aprire per l’Epifania) in piena regola con accanto azioni di aziende della difesa, le prime che riceveranno gli “incentivi” – chiamiamoli così- a valere sul “fondo sovrano Sarkozy” creato a fine Novembre. E’ certa che andranno alla grande e, quando Paolino avrà 18 anni, vedrà molto aumentata la loro valorizzazione.
Zia Olga militava, da ragazza, per il Pci. E’ quindi naturale che abbia sposato un “compagno” sovietico e si sia trasferita a Mosca. Se la passava bene allora – lui apparteneva alla nomenklatura. Se la passa meglio oggi , come coniuge di un oligarca le cui preci mattutine sono rivolte al libero mercato (e poco s’intende di Pope e Patriarca). Non ha nessuna intenzione di dare a Paolino delle azioni della Borsa di Mosca (il cui indice è crollato del 70% negli ultimi 12 mesi). Sa, però, per esperienza personale che ci saranno sempre i ricchi – c’erano pure nell’Urss- con i gusti dei ricchi. Quindi, se si deve puntare su qualcosa di nazionale, è bene guardare con attenzione alle società che estraggono diamanti dal Polo Artico russo; hanno già fatto la fortuna di Lev Leviel, un ubzeco amico di famiglia, presso cui si approvvigionano la De Beers e Graff. Si può anche puntare su aziende-boutique come il Jewellery Theatre sul Kutuzobsky Prospekt di Mosca dove disegnatori russi lavorano per il mercato del superlusso interno ed internazionale.
In Giappone, zia Suzuki (prima di spostare e trasferirsi nel Celeste Impero, si chiamava Angelina) ha un punto di vista molto differente. Ormai nipponizzata, vede gli investimenti dalla prospettiva di un Arcipelago la cui popolazione sta, al tempo stesso, invecchiando e diminuendo . E’, quindi, convinta che le buone azioni sono di quel manifatturiero in grado di restare tecnologicamente all’avanguardia: non per nulla, pur nel mezzo della crisi, nel porto di Sakai la Sharp sta costruendo un impianto (al costo dell’equivalente di circa 10 miliardi di euro) che nel 2010 produrrà 13 milioni televisori a cristallo liquido l’anno – gioia e delizia per il digitale , allora la norma in tutte del case dei Paesi (asiatici, europei e latino americano) ad alto livello di reddito pro-capite. Un ritorno agli Anni 60 quando la Sony riempiva l’universo globo di transistor? Non proprio. Per Zia Suzuki il sempre più anziano Giappone prima e molti altri Paesi, poi, (tra cui l’Italia di Paolino) avrà bisogno di aiuto domestico alle persone e non vorrà essere invaso da stranieri con lingue e culture così differenti dalle loro. Quindi, tra le buone azioni occorre includere quelle della robotica.
E zia Rosetta di Busto Arsizio (“Non confondetemi con la Jervolino !” è scritto automaticamente., in sei lingue, in calce a tutti i suoi mail)? Di azioni ha poco da suggerire, ma è in attesa dei superbonds tremontiani: Forse dirà a Paolino di attendere con pazienza (ed in linea con le italiche tradizioni) la notte dell’Epifania.
giovedì 18 dicembre 2008
CIAK SI GIRA A SANTA CECILIA, Milano Finanza 19 dicembre
La programmazione del Parco della Musica di Roma unisce ai drammi il cinemaDopo Honneger e Mendelssohn in scena Haydn e Händel con effetti speciali Dopo una breve pausa natalizia, all'inizio di gennaio il primo spettacolo del 2009 dell'Accademia di Santa Cecilia è La Creazione di Franz Joseph Haydn, un oratorio fortemente drammatico che ricalca fedelmente Il Paradiso Perduto di Milton e che, in Germania, viene presentato in forma scenica, ossia come vero e proprio teatro in musica (se ne ricorda anche una rappresentazione all'Opera di Roma negli anni 90). In aprile, invece, è la volta de I sette peccati capitali di Kurt Weill, concepito proprio per la scena; si tratta in effetti, un balletto cantato in 7 quadri. Tornano poi Händel e Haydn. A metà aprile è la volta di La resurrezione di Georg F. Händel, a maggio un'azione scenica colossale: Il ritorno di Tobia di Haydn (di cui il 31 maggio 2009 ricorre il secondo centenario dalla morte). È un lavoro biblico che richiede cinque solisti, doppio coro e grande orchestra. Questa programmazione indica la presenza di un crescendo del teatro in musica, in forma scenica o concertistica. Ciò corrisponde sia al gusto del pubblico sia a una predilezione del direttore musicale Antonio Pappano, che è anche direttore musicale della Royal Opera House a Londra e deve la sua fama all'innovazione portata al Théâtre de la Monnaie a Bruxelles.
Nella prima parte della stagione 2008-2009 si sono susseguiti tre drammi musicali di rilievo. Si è iniziato con la produzione semi-scenica di Jeanne d'Arc au Bûcher di Arthur Honneger su testo di Paul Claudel, concertata da Antonio Pappano per la regia (ricca di elementi cinematografici) di Keith Warner, scene e costumi di Es Devil e un cast internazionale in cui, nei ruoli recitanti, figurano Romane Bohringer e Tchéky Karyo, due noti attori di cinema, e in quelli cantati, Susan Gritton, Maria Radner e Donald Kaash. In parallelo, si è svolta una vera e propria maratona cinematografica con 4 film ispirati alla Pulzella d'Orléans. Jeanne d'Arc au Bûcher narra l'incontro di due intellettuali di spicco del Novecento Storico; è stata anche tradotta in un film, all'epoca molto innovativo, di Roberto Rossellini, con Ingrid Bergman protagonista. Il libretto di Claudel (11 quadri in un'ora e mezza di spettacolo) ha un ritmo cinematografico e anche la partitura fu considerata, 60 anni fa, spregiudicata per l'uso di tecniche come le dissolvenze. Raro esempio d'oratorio romantico, ma con un ritmo quasi da film biblico hollywoodiano, anche Elia di Felix Mendelssohn-Bartholdy, di cui nel 2009 ricorre il bicentario dalla nascita (i suoi lavori sono presenti nella stagione della Filarmonica della Scala). Elia è eseguito raramente a causa dell'organico imponente: ha concertato con vigore l'ottantenne Kurt Masur, il protagonista d'eccezione è stato René Pape. Eccezionale il coro guidato da Norbert Balatsch anche per la perfetta dizione in tedesco. In otto parti narra, in modo grandioso e incalzante, la lotta del profeta contro i politeisti re Acab e regina Jezabel fino all'ascensione di Elia al cielo in un carro di fuoco tirato da cavalli (volanti) pure essi di fuoco. Si tratta di un finale caratterizzato quindi da super-effetti speciali. Cinematografico anche il terzo appuntamento Porgy and Bess di Gershwin, che ha portato Broadway (Wayne Marshall e un cast afroamericano) nella Sala Santa Cecilia. Per numero di spettatori (oltre un milione) e di eventi (più di 1.100), il Parco della Musica è una realtà musicale seconda al mondo soltanto al Lincoln Center di New York. Il Parco è sede dell'Accademia di Santa Cecilia, una delle rarissime fondazioni lirico-sinfoniche italiane (un'altra è il Teatro dell'Opera di Roma), i cui conti chiudono, da anni, in attivo. (riproduzione riservata)
Nella prima parte della stagione 2008-2009 si sono susseguiti tre drammi musicali di rilievo. Si è iniziato con la produzione semi-scenica di Jeanne d'Arc au Bûcher di Arthur Honneger su testo di Paul Claudel, concertata da Antonio Pappano per la regia (ricca di elementi cinematografici) di Keith Warner, scene e costumi di Es Devil e un cast internazionale in cui, nei ruoli recitanti, figurano Romane Bohringer e Tchéky Karyo, due noti attori di cinema, e in quelli cantati, Susan Gritton, Maria Radner e Donald Kaash. In parallelo, si è svolta una vera e propria maratona cinematografica con 4 film ispirati alla Pulzella d'Orléans. Jeanne d'Arc au Bûcher narra l'incontro di due intellettuali di spicco del Novecento Storico; è stata anche tradotta in un film, all'epoca molto innovativo, di Roberto Rossellini, con Ingrid Bergman protagonista. Il libretto di Claudel (11 quadri in un'ora e mezza di spettacolo) ha un ritmo cinematografico e anche la partitura fu considerata, 60 anni fa, spregiudicata per l'uso di tecniche come le dissolvenze. Raro esempio d'oratorio romantico, ma con un ritmo quasi da film biblico hollywoodiano, anche Elia di Felix Mendelssohn-Bartholdy, di cui nel 2009 ricorre il bicentario dalla nascita (i suoi lavori sono presenti nella stagione della Filarmonica della Scala). Elia è eseguito raramente a causa dell'organico imponente: ha concertato con vigore l'ottantenne Kurt Masur, il protagonista d'eccezione è stato René Pape. Eccezionale il coro guidato da Norbert Balatsch anche per la perfetta dizione in tedesco. In otto parti narra, in modo grandioso e incalzante, la lotta del profeta contro i politeisti re Acab e regina Jezabel fino all'ascensione di Elia al cielo in un carro di fuoco tirato da cavalli (volanti) pure essi di fuoco. Si tratta di un finale caratterizzato quindi da super-effetti speciali. Cinematografico anche il terzo appuntamento Porgy and Bess di Gershwin, che ha portato Broadway (Wayne Marshall e un cast afroamericano) nella Sala Santa Cecilia. Per numero di spettatori (oltre un milione) e di eventi (più di 1.100), il Parco della Musica è una realtà musicale seconda al mondo soltanto al Lincoln Center di New York. Il Parco è sede dell'Accademia di Santa Cecilia, una delle rarissime fondazioni lirico-sinfoniche italiane (un'altra è il Teatro dell'Opera di Roma), i cui conti chiudono, da anni, in attivo. (riproduzione riservata)
mercoledì 17 dicembre 2008
IL RITORNO DEL “BELCANTO”, L'Attimo Fuggente dicembre
La stagione lirica 2008-2009 appena iniziata (molti teatri hanno adottato la prassi di articolarla sull’anno solare) è cominciata all’insegna del “belcanto”. Ha dato il via la piccola Jesi, presentando in “prima mondiale” l’edizione originale (mai rappresentata nel 1732, a ragione della morte del protagonista (un castrato allora di grande fama) e riscrittura radicale degli aspetti vocali del lavoro per adattarlo ai cantanti disponibili nella compagnia ) de “La Salustia”, prima opera di Pergolesi. Ha continuato l’Accademia di Santa Cecilia con un Festival (12-29 settembre) di “belcanto” – una serie di concerti vocali ed una produzione di “Norma” di Vincenzo Bellini. Al Massimo di Palermo va in scena dal 21 al 28 settembre un nuovo allestimento del belliniano “I Puritani” (che sarà in scena a Bologna la prossima primavera, a Cagliari all’inizio dell’estate, al Festival di Savonlinna in Filandia in luglio ed al Bunka Kaikan di Tokio nell’autunno 2009 ). Con “I Puritani”, secondo la “Storia della Musica” di Giovanni Confalonieri, il “belcanto” tocca “zone più ed inaccese”. Pergolesi è ai primordi del “belcanto”, “I Puritani” sono alla vigilia del suo superamento, con il melodramma donizettiano, pur ancora carico di “belcanto” e soprattutto quello verdiano. Nel contempo, un’altra nuova produzione de “I Puritani” prende il via a Bergamo in ottobre per approdare a Sassari ed in altre città. A Napoli, dove il San Carlo è in restauro, il 2008 si è chiusa con la prima rappresentazione, il 27 settembre, de “L’Italiana in Algeri” di Rossini (altro esempio di “belcanto”) all’Auditorium Rai; le repliche sono proseguite in ottobre.
Il melomane itinerante ha potuto, in un mese, avere una panoramica abbastanza completa di uno stile, piuttosto che di una scuola, di teatro in musica che ha caratterizzato oltre secolo (dall’inizio del Settecento alla seconda decade dell’Ottocento) ma le cui caratteristiche permeano anche alcuni aspetti del melodramma ottocentesco. Dimenticato in gran misura sino al 1950 o giù di lì, è in corso una graduale rivalutazione, specialmente presso il pubblico più giovane: si pensi in Italia alla “renaissance” del Rossini “serio”, a Londra alle file di spettatori per gli spettacoli della Händel Society, a Zurigo al successo inaspettato (tra i trentenni) della messa in scena dell’händeliano “Il Trionfo del Tempo sul Disinganno”, un “oratorio quaresimale” rappresentato come un dramma odierno di rapporti tra due giovani coppie nonché all’applauso nel Nord America ed in Estremo Oriente .
Nel 2009, in Italia, si ascolterà “belcanto” alla Scala (dove viene presentato un altro vertice del “belcantismo”: “Il Viaggio a Reims” di Rossini), a Firenze (“L’Elisir d’Amore” di Donizetti), a Venezia (“Maria Stuarda” di Donizetti) , a Bologna (“La Gazza Ladra” di Rossini oltre a “I Puritani” già ricordati), a Bari (“Norma” di Bellini), a Catania (“Don Gregorio” di Donizetti), a Torino (“L’Italiana in Algeri di Rossini, “Don Pasquale” di Donizetti, “Aci, Galateo e Poliremo” di Händel), a Parma (“Lucia di Lamermoor” di Donizetti). Questi sono unicamente alcuni titoli dei molti in programma. Si tenga presente che, al momento in cui viene scritta questa nota, alcune fondazioni liriche e quasi tutti i “teatri di tradizione” non hanno ancora presentato la loro programmazione per il 2009. Se si scorre il principale sito internazionale dedicato alla lirica www.operabase.com (dove sono riportati i cartelloni di tutti i maggiori teatri d’opera al mondo) ci si accorge che il fenomeno non è unicamente italiano: anzi, è molto più diffuso in Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti e sta prendendo piede in Estremo Oriente (specialmente in Giappone e da quella Corea da cui provengono molti “belcantisti” che negli ultimi anni hanno mietuto successo sui palcoscenici internazionali)-
In primo luogo, cosa s’intende per “belcanto”? E’ una tecnica di canto virtuosistico caratterizzata dal passaggio omogeneo dalle note gravi alle acute e da agilità nell'ornamentazione e nel fraseggio. E’ caratterizzato dalla perfetta uniformità della voce, da un eccellente legato, da un registro lievemente più alto del consueto, da un'incredibile flessibilità e da un timbro morbido. La maggiore enfasi posta sulla tecnica, rispetto al volume, fa sì che il “belcanto” sia associato ad un esercizio atto a dimostrare la bravura: il cantante sarebbe in grado di reggere una candela accesa davanti alla bocca e di cantare senza far oscillare la fiamma. Sparisce anche se non completamente con il melodramma verdìano, ma, ancor prima, è travolto dal teatro in musica di Mozart – dalle stesse “opere serie” come “Idomeneo” e “La Clemenza di Tito” (il cui libretto era stato scritto da Metastasio cinquanta anni prima che il Salisburghese ci mettesse le mani e che era già stato messo in musica più volte, nel Settecento, da compositori “belcantisti”).
Perché l’autunno italiano 2008 all’insegna del “belcanto” è sintomo di una nuova primavera di questo stile di teatro in musica (che inizia con Maria Callas negli Anni 50, si afferma negli Anni 60 e 70 con cantanti americani – Marylin Horne, Lella Cuberli, Beverly Sills, Chris Merrit, Rockwell Blake – e australiani – Joan Sutherland - rifiorisce con voci italiane negli Anni 80 – Lucia Valentini Terrani, Cecilia Gasdia - si incardina in voci giovani – Juan Diego Flòrez, Daniela Barcellona, Francesco Meli, Maxim Miranov – nel primo scorcio di XXI secolo ed attira (utile consultare i blogs specialistici) nuove generazioni che spesso tengono a distanza altre forme di teatro in musica?
A mio avviso alla base dell’interesse del pubblico giovane ci sono due elementi. Il primo è socio-politica: il “bel canto” è connaturato ad un secolo circa, al tempo stesso, di trasformazioni e d’ambiguità – dall’inizio del Settecento alla vigilia della formazione dello Stato nazionale (in Italia), passando attraverso illuminismo e rivoluzioni. Lo coglie bene l’allestimento de “La Salustia” (del francese Jean-Paul Scarpetta): una Roma (ma il riferimento è alla Napoli settecentesca) formalmente austera, ma dove s’intriga per il potere sotto la doccia ed i mariti più virtuosi non esitano ad amoreggiare, bisessualmente, con giovinetti. Trasformazioni ed ambiguità (intrise d’incertezza pure sulla propria sessualità) non sono molto distanti dal clima che le nuove generazioni respirano oggi. Il secondo elemento è probabilmente più tecnica: il virtuosismo del “belcanto” non è così lontano (i musicologi non si adombrino) da quello dei cantanti pop, ossia dalla musica giovane.
Soffermiamoci sul nuovo allestimento de “I Puritani”, che – come si è detto- dopo Palermo andrà in altre città italiane, nonché in Finlandia e Giappone. E’ un’opera in cui la melodia belliniana rifulge in tutto il suo splendore e nella sua ricchezza di sfumature. E’ stata, per lustri, raramente rappresentata proprio per le difficoltà vocali (le acrobazie del soprano nella “scena della pazzia”, i do acuti ed i re maggiore del tenore, i duetti, terzetti e quartetti che scivolano in concertati). Ultima opera di Bellini, “I Puritani” è basata su un libretto piuttosto improbabile in cui amori, intrighi, tradimenti (finti o presunti), e pazzia ai tempi delle guerre Cromwell con colpo di scena e lieto fine. De Chirico ne firmò un allestimento (rivisto a Roma alla fine degli Anni Ottanta) in cui l’astrusa vicenda era trasformata in un gioco di carte - una fazione erano i “quadri” e l’altra i”cuori”- quasi a sottolineare l’irrilevanza del testo del Conte Pepoli, patriota in esilio a Parigi. Trasformare in gioco di carte il conflitto tra i protestanti e i cattolici di Stuart vuole dire quasi ridurre la storia ad un computer game, di quelli che appassionano anche i più giovani.
L’allestimento di Pier’Alli non segue la lezione di De Chirico; concepito per una lunga tournée (e per un pubblico, come quello giapponese, che ama messe in scena tradizionali), nonché pensato all’insegna dell’economia dei costi e dell’”esportar cantando” del “made in Italy”, il grigio di una Plymouth nebbiosa domina i primi due atti, mentre il verde e l’azzurro ne caratterizzano il terzo. Veloci siparietti e proiezioni facilitano l’adattamento a palcoscenici di varie dimensioni.
Sotto il profilo musicale, la concertazione di Friederich Haider (autore di una buona incisione dell’opera), dilata i tempi per dare risalto all’atmosfera melanconica (di un Bellini 35nne ma già molto malato). Grande successo della protagonista la bella e giovanissima Désirée Rancatore che debuttava nel ruolo e già da diversi anni è sulla scena internazionale tra gli astri del “belcantismo” della nuova generazione; palermitana, il pubblico le concede più applausi a scena aperta di quelli che le attribuirebbe il critico. Sublime in certi momenti, ma un po’ sciatta in altri; sulla cresta dell’onda da quando aveva 20 anni (e debuttò all’improvviso a Palermo nel “Rosenkavalier” nel 1998 ) dovrebbe contenere le offerte che le giungono da tutto il mondo ed evitare ruoli (quelli verdiani- è stata Gilda nel “Rigoletto” a Verona e riprenderà questo ruolo nel Festival dedicato da Parma al Cigno di Busseto) ancora poco adatti alla sua vocalità così delicatamente “belcantistica”. Ottimo il registro, la tessitura, il fraseggio e la sparata dei “do” e dei “re” di José Bros nel primo atto, ma una stecca nel duetto del terzo atto lo ha costretto a rifuggiarsi nel falsetto, scontentando, e scatenando, il pubblico. Nelle repliche ed in tournée, senza lo stress della “prima”, dovrà evitare i numerosi trabocchetti di un ruolo terrificante. Carlo Colombara conferma di essere un basso di coloratura di livello. Marco De Felice di essere un baritono di cui si parlerà nei prossima anni. Buoni gli altri, specialmente il coro guidato da Miguel Fabián Martínez. Chi ha perso lo spettacolo a Palermo (in scena sino al 28 settembre) potrà gustarlo a Bologna, a Cagliari. Oppure in Filandia od in Giappone – prima che nel 2010 ritornerà in Italia.
Il melomane itinerante ha potuto, in un mese, avere una panoramica abbastanza completa di uno stile, piuttosto che di una scuola, di teatro in musica che ha caratterizzato oltre secolo (dall’inizio del Settecento alla seconda decade dell’Ottocento) ma le cui caratteristiche permeano anche alcuni aspetti del melodramma ottocentesco. Dimenticato in gran misura sino al 1950 o giù di lì, è in corso una graduale rivalutazione, specialmente presso il pubblico più giovane: si pensi in Italia alla “renaissance” del Rossini “serio”, a Londra alle file di spettatori per gli spettacoli della Händel Society, a Zurigo al successo inaspettato (tra i trentenni) della messa in scena dell’händeliano “Il Trionfo del Tempo sul Disinganno”, un “oratorio quaresimale” rappresentato come un dramma odierno di rapporti tra due giovani coppie nonché all’applauso nel Nord America ed in Estremo Oriente .
Nel 2009, in Italia, si ascolterà “belcanto” alla Scala (dove viene presentato un altro vertice del “belcantismo”: “Il Viaggio a Reims” di Rossini), a Firenze (“L’Elisir d’Amore” di Donizetti), a Venezia (“Maria Stuarda” di Donizetti) , a Bologna (“La Gazza Ladra” di Rossini oltre a “I Puritani” già ricordati), a Bari (“Norma” di Bellini), a Catania (“Don Gregorio” di Donizetti), a Torino (“L’Italiana in Algeri di Rossini, “Don Pasquale” di Donizetti, “Aci, Galateo e Poliremo” di Händel), a Parma (“Lucia di Lamermoor” di Donizetti). Questi sono unicamente alcuni titoli dei molti in programma. Si tenga presente che, al momento in cui viene scritta questa nota, alcune fondazioni liriche e quasi tutti i “teatri di tradizione” non hanno ancora presentato la loro programmazione per il 2009. Se si scorre il principale sito internazionale dedicato alla lirica www.operabase.com (dove sono riportati i cartelloni di tutti i maggiori teatri d’opera al mondo) ci si accorge che il fenomeno non è unicamente italiano: anzi, è molto più diffuso in Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti e sta prendendo piede in Estremo Oriente (specialmente in Giappone e da quella Corea da cui provengono molti “belcantisti” che negli ultimi anni hanno mietuto successo sui palcoscenici internazionali)-
In primo luogo, cosa s’intende per “belcanto”? E’ una tecnica di canto virtuosistico caratterizzata dal passaggio omogeneo dalle note gravi alle acute e da agilità nell'ornamentazione e nel fraseggio. E’ caratterizzato dalla perfetta uniformità della voce, da un eccellente legato, da un registro lievemente più alto del consueto, da un'incredibile flessibilità e da un timbro morbido. La maggiore enfasi posta sulla tecnica, rispetto al volume, fa sì che il “belcanto” sia associato ad un esercizio atto a dimostrare la bravura: il cantante sarebbe in grado di reggere una candela accesa davanti alla bocca e di cantare senza far oscillare la fiamma. Sparisce anche se non completamente con il melodramma verdìano, ma, ancor prima, è travolto dal teatro in musica di Mozart – dalle stesse “opere serie” come “Idomeneo” e “La Clemenza di Tito” (il cui libretto era stato scritto da Metastasio cinquanta anni prima che il Salisburghese ci mettesse le mani e che era già stato messo in musica più volte, nel Settecento, da compositori “belcantisti”).
Perché l’autunno italiano 2008 all’insegna del “belcanto” è sintomo di una nuova primavera di questo stile di teatro in musica (che inizia con Maria Callas negli Anni 50, si afferma negli Anni 60 e 70 con cantanti americani – Marylin Horne, Lella Cuberli, Beverly Sills, Chris Merrit, Rockwell Blake – e australiani – Joan Sutherland - rifiorisce con voci italiane negli Anni 80 – Lucia Valentini Terrani, Cecilia Gasdia - si incardina in voci giovani – Juan Diego Flòrez, Daniela Barcellona, Francesco Meli, Maxim Miranov – nel primo scorcio di XXI secolo ed attira (utile consultare i blogs specialistici) nuove generazioni che spesso tengono a distanza altre forme di teatro in musica?
A mio avviso alla base dell’interesse del pubblico giovane ci sono due elementi. Il primo è socio-politica: il “bel canto” è connaturato ad un secolo circa, al tempo stesso, di trasformazioni e d’ambiguità – dall’inizio del Settecento alla vigilia della formazione dello Stato nazionale (in Italia), passando attraverso illuminismo e rivoluzioni. Lo coglie bene l’allestimento de “La Salustia” (del francese Jean-Paul Scarpetta): una Roma (ma il riferimento è alla Napoli settecentesca) formalmente austera, ma dove s’intriga per il potere sotto la doccia ed i mariti più virtuosi non esitano ad amoreggiare, bisessualmente, con giovinetti. Trasformazioni ed ambiguità (intrise d’incertezza pure sulla propria sessualità) non sono molto distanti dal clima che le nuove generazioni respirano oggi. Il secondo elemento è probabilmente più tecnica: il virtuosismo del “belcanto” non è così lontano (i musicologi non si adombrino) da quello dei cantanti pop, ossia dalla musica giovane.
Soffermiamoci sul nuovo allestimento de “I Puritani”, che – come si è detto- dopo Palermo andrà in altre città italiane, nonché in Finlandia e Giappone. E’ un’opera in cui la melodia belliniana rifulge in tutto il suo splendore e nella sua ricchezza di sfumature. E’ stata, per lustri, raramente rappresentata proprio per le difficoltà vocali (le acrobazie del soprano nella “scena della pazzia”, i do acuti ed i re maggiore del tenore, i duetti, terzetti e quartetti che scivolano in concertati). Ultima opera di Bellini, “I Puritani” è basata su un libretto piuttosto improbabile in cui amori, intrighi, tradimenti (finti o presunti), e pazzia ai tempi delle guerre Cromwell con colpo di scena e lieto fine. De Chirico ne firmò un allestimento (rivisto a Roma alla fine degli Anni Ottanta) in cui l’astrusa vicenda era trasformata in un gioco di carte - una fazione erano i “quadri” e l’altra i”cuori”- quasi a sottolineare l’irrilevanza del testo del Conte Pepoli, patriota in esilio a Parigi. Trasformare in gioco di carte il conflitto tra i protestanti e i cattolici di Stuart vuole dire quasi ridurre la storia ad un computer game, di quelli che appassionano anche i più giovani.
L’allestimento di Pier’Alli non segue la lezione di De Chirico; concepito per una lunga tournée (e per un pubblico, come quello giapponese, che ama messe in scena tradizionali), nonché pensato all’insegna dell’economia dei costi e dell’”esportar cantando” del “made in Italy”, il grigio di una Plymouth nebbiosa domina i primi due atti, mentre il verde e l’azzurro ne caratterizzano il terzo. Veloci siparietti e proiezioni facilitano l’adattamento a palcoscenici di varie dimensioni.
Sotto il profilo musicale, la concertazione di Friederich Haider (autore di una buona incisione dell’opera), dilata i tempi per dare risalto all’atmosfera melanconica (di un Bellini 35nne ma già molto malato). Grande successo della protagonista la bella e giovanissima Désirée Rancatore che debuttava nel ruolo e già da diversi anni è sulla scena internazionale tra gli astri del “belcantismo” della nuova generazione; palermitana, il pubblico le concede più applausi a scena aperta di quelli che le attribuirebbe il critico. Sublime in certi momenti, ma un po’ sciatta in altri; sulla cresta dell’onda da quando aveva 20 anni (e debuttò all’improvviso a Palermo nel “Rosenkavalier” nel 1998 ) dovrebbe contenere le offerte che le giungono da tutto il mondo ed evitare ruoli (quelli verdiani- è stata Gilda nel “Rigoletto” a Verona e riprenderà questo ruolo nel Festival dedicato da Parma al Cigno di Busseto) ancora poco adatti alla sua vocalità così delicatamente “belcantistica”. Ottimo il registro, la tessitura, il fraseggio e la sparata dei “do” e dei “re” di José Bros nel primo atto, ma una stecca nel duetto del terzo atto lo ha costretto a rifuggiarsi nel falsetto, scontentando, e scatenando, il pubblico. Nelle repliche ed in tournée, senza lo stress della “prima”, dovrà evitare i numerosi trabocchetti di un ruolo terrificante. Carlo Colombara conferma di essere un basso di coloratura di livello. Marco De Felice di essere un baritono di cui si parlerà nei prossima anni. Buoni gli altri, specialmente il coro guidato da Miguel Fabián Martínez. Chi ha perso lo spettacolo a Palermo (in scena sino al 28 settembre) potrà gustarlo a Bologna, a Cagliari. Oppure in Filandia od in Giappone – prima che nel 2010 ritornerà in Italia.
martedì 16 dicembre 2008
DECENTRAMENTO AMMINISTRATIVO PER CONTROLLARE I TERRORISTI, Libero 16 dicembre
Pochi sanno che da alcuni lustri i servizi anti-terrorismo dei maggiori Paesi industrializzati ad economia di mercato hanno “ruoli” specifici per economisti con il duplice scopo di a) individuare come il terrorismo si finanzia e b) utilizzare la strumentazione della disciplina economica per combattere il terrorismo. Le nuove indicazioni dell’esistenza di focolai terroristici a Milano dovrebbero indurre a pensare all’istituzione di un apposito ruolo per gli specialisti di finanza e di economia al Vicinale. Da tempo si sa che l’economia “sommersa” è una delle fonti privilegiate perché il terrorismo trovi finanziamenti anche in Europa (ed in Italia in particolare, a ragione della dimensione del sommerso nel pil). Un’analisi recentissima di Tolga Koker (Yale University) e Karlos Yordan (Drew University) traccia la geografia economica di un fenomeno poco studiato: la micro-finanza del terrorismo che spesso di annida in una rete articolata e molto diffusa (orchestrata da El-Quaeda) dietro il paravento di fondazioni ed associazioni ufficialmente a scopo caritatevole. Ciò non vuol dire – si badi bene – che tutte le moschee sono ruscelli che alimentano il fiume ed il mulino di Bin Laden. Ciò significa, però, che attorno a moschee si sviluppano fonti di finanziamento singolarmente forse modeste ma che rappresentano un sostegno importante per una rete disseminata sul territorio. La strumentazione economica , aiutando a comprendere come funzione il sistema (ci sono molte analogie con l’impresa-rete su cui proprio in Italia sono stati effettuati lavori pionieristici) è un ausilio importante agli “operativi” che devono cercare (anche infiltrandosi nella rete) di bloccarne tempestivamente le azioni.
L’”economia del terrorismo” (nel senso di sviluppo della teoria economica del terrorismo e applicazioni d’analisi economica alla prevenzione dal terrorismo) ha avuto, per decenni, il suo centro all’Università di Chicago. Grazie a lavori effettuati a pochi chilometri dal Magnificent Mile (il lungo lago della città dell’Illinois) è stato, ad esempio, possibile simulare, con l’ausilio della “teoria dei giochi” (specialmente dei “giochi a più livelli” ormai nella prassi delle scuole militari) le strategie e le tattiche di dirottamento aereo e ridurne, nell’arco di meno di un lustro, il numero dei dirottamenti da 30 a circa due l’anno. Gli “economisti del terrorismo” di Chicago hanno sviscerato l’”effetto di sostituzione” nelle strategie e nelle tattiche: a fronte dell’argine ai dirottamenti aerei, i terroristi si sono rivolti ad altri comparti, che, però, comportano costi maggiori e per essere attuati, richiedono risorse più ampie e risultati attesi molto più consistenti di quelli dei dirottamenti aerei.
In tempi più recenti, l’Università della California del Sud è diventato il fulcro americano più importante in materia: la figura di spicco è Todd Sandler. I lavori degli ultimi anni coniugano la “teoria dei giochi” con “la teoria economica dell’informazione e della comunicazione” e con paradigmi tratti dall’analisi dei mercati finanziari, quali la teoria delle opzioni e dei derivati. Da un lato, grazie ad elaborati modelli esplicativi, questi studi documentano come il “terrorista razionale” cerchi risultati con vasto contenuto mediatico . Da un altro, le ricerche sugli “obiettivi anti-terroristi mirati” mostrano come un “anti-terrorismo a vasto raggio od a pioggia” avrebbe costi elevatissimi a fronte di risultati modesti; sono preferibili – affermano Todd Sandler e colleghi- strategie di prevenzione incentrate sulla decodificazione di segnali indiretti.
In Italia l’economia dell’informazione della comunicazione ha gradualmente trovato posto, negli ultimi tre lustri, tra le discipline insegnate nelle Facoltà di Economia delle maggiori università. Inoltre nel 2000-2006 si sono tenuti presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione (SSPA) corsi e percorsi formativi d’economia dell’informazione e comunicazione che, con contenuti appropriati potrebbero essere organizzati dalla Scuola Superiore del Ministero dell’Interno, anche in quanto seminari in materia vengono periodicamente tenuti al Nato Defense College a Roma ed allo Staff College delle Nazioni Unite a Torino..
In Europa, il centro più importante di ricerche su questi temi è l’Università di Zurigo dove gli studi economici sul terrorismo sono guidati da quel Bruno Frey che è anche uno dei maggiori teorici dell’”economia della felicità” ed in passato ha contribuito in misura significativa alla teoria economica delle cultura e dei mercati delle arti sceniche . Altre sedi di rilievo sono quelle guidate da Mats Lundhal della Università di Stoccolma e da Kurt Konrad della Libera Università di Berlino.
Le analisi di più immediato effetto riguardano la strumentazione economica per disinnescare la rete finanziaria del terrorismo. Circa sei anni fa, un documento dell’amministrazione finanziaria degli Stati Uniti sui capitali all’estero della rete terroristica, ha documentato che almeno tre miliardi di dollari appartenuti al Governo di Saddam Hussein erano depositati in banche controllate dal Governo di Damasco, soprattutto in Siria, Libano e Giordania. Di questo totale, 0,5 miliardi di dollari erano depositati in banche libanesi ed una somma analoga in banche giordane. Degli altri due miliardi si sa poco o niente. Secondo lo studio, al momento dell’apertura delle ostilità, Saddam ed i suoi avevano ben 1,7 miliardi di dollari in banche commerciali degli Stati Uniti, circa 600 presso la Banca dei Regolamenti Internazionali (Brs) a Basilea ed in istituti di credito giapponesi. Di questi 2.45 miliardi di dollari, 300 milioni – ossia la metà di quanto trovato alla Brs – è stato restituito al (nuovo) Governo irakeno; il resto è sotto sequestro. Queste risorse finanziarie sono state accantonate per uno scopo preciso che va ben oltre il supporto alla guerriglia in Irak; unitamente ad altre riserve e flussi (di cui è difficile stimare l’entità), servono al terrorismo che oggi richiede molto di più delle bombe, celate sotto i cappelli (chiamati a bombetta) nei nichilisti all’inizio del Novecento.
Un campo relativamente nuovo e di grande interesse è quello dell’analisi economica dell’impiego di kamizake reclutati tra giovani cresciuti in ambiente occidentale oppure “occidentalizzato” (i palestinesi nati e diventati adulti in Israele). Murihaf Jouejati della Università George Washington nella capitale Usa sottolinea come la scelta del suicidio-eccidio abbia determinanti economiche: i giovani mussulmani, cresciuti negli Usa od in Europa oppure nelle aree più occidentalizzate del Medio Oriente, lo compiono non per andare in un Paradiso (in cui spesso non credono affatto) ma per sconfiggere il nemico in una guerra millenaria in cui l’intrusione occidentale avrebbe, agli occhi loro e dei loro maestri, tolto il primato economico, scientifico e culturale dell’Islam. Lo scontro con le libertà- e della democrazia e del mercato rende più acuta la decisione di commettere gesti estremi come il suicidio-eccidio. Ciò spiega – come si è accennato in precedenza- la scelta di terroristi maturi e istruiti (oltre che probabilmente laicizzati) per le missioni più importanti. Attenzione: il suicidio-eccidio è contrario al Corano dove si prescrive che l’uomo non deve uccidere “neanche una formica” e la “guerra santa” è consentita unicamente per la riconquista e difesa dei “luoghi sacri”. Il kamikaze o è imbevuto di eresia, ossia di un’interpretazione distorta del Corano, oppure considera il suicidio-eccedio come strumento di una guerra laica tra civiltà necessariamente in forte contrapposizione.
Quali alcune delle principali lezioni che si traggono dall’”economia dell’antiterrosismo”, ad esempio dai tre volumi i 1700 pagine curati da Todd Sandler e Keith Hartley, dai lavori di Bruno Frey della Università di Zurigo e da quelli di Mats Lundhal della Università di Stoccolma e di Kurt Konrad della Libera Università di Berlino?
In primo luogo, il contenimento del terrorismo è un “bene pubblico internazionale”, che non può essere fornito da un solo Paese e di cui beneficia tutta la comunità mondiale; dopo le risoluzioni Onu, anche Siria e Libano hanno dato la loro disponibilità a operare di concerto con il resto del mondo per bloccare i soldi del terrore. In secondo luogo, ciò implica vigilare su conti sospetti di “cellule” terroristiche dovunque esse siano; questa attività ha ramificazione per quanto riguarda la vigilanza bancaria;: negli Stati Uniti, sono state potenziate, negli ultimi due anni e mezzo, le funzioni e le risorse a disposizione del Tesoro – tramite l’Irsa-(l’agenzia delle entrate) Usa ed il Comptroller of Currency (una direzione generale di del Ministero del Tesoro). Anche in Italia si è creata una direzione generale presso il ministero dell’Economia e delle Finanze nell’ambito del Dipartimento del Tesoro. Dobbiamo chiederci se le nostre attività di vigilanza finanziaria siano attrezzate alla bisogna. In terzo luogo, occorre ridurre la capacità d’attrazione abbassando l’attenzione dei media ed aumentando, al tempo stesso, il costo opportunità ai terroristi, nonché “offrendo alternative” a potenziali reclute del terrorismo. Secondo Bruno Frey , il decentramento politico ed amministrativo può ridurre in misura significativa i benefici ai terroristi in quanto implica un più forte controllo sociale. Più complicato “offrire alternative” a potenziali terroristi: ciò vuole dire “strategie negoziali” o, in termini di gergo economico, “cooperative”. Percorso che pochi Governi sono pronti a seguire.
Per saperne di più
Brown E, Cloke J “Shadow Europe: Alternative European Financial Geographies”
Growth and Change, Vol. 38, No. 2, pp. 304-327, June 2007
Berman E. Laitin D. “Religion, Terrorism and Public Goods: Testing the Club Model” Nber Working Paper W13725
Cole D. “Terror Financing” in (a cura di Bianchi e Keller) “Countertrerrorism: Democracy’s Challenge” Hart Publishing New York 2008
Llussá F. , Tavares J. “Economics and Terrorism- What We Know, What We Should Know and the Data We Need CEPR Discussion Paper N. DP6509
Kokker T., Yordan “Microfinanincing Terrorism: a Study in Al Qaeda Financing Strategy” in (a cura di M. Cox) “State of Corruption, State of Chaos: The Terror of Political Malfesaance) Yale University Press pp. 167-188, New Haven 2008
L’”economia del terrorismo” (nel senso di sviluppo della teoria economica del terrorismo e applicazioni d’analisi economica alla prevenzione dal terrorismo) ha avuto, per decenni, il suo centro all’Università di Chicago. Grazie a lavori effettuati a pochi chilometri dal Magnificent Mile (il lungo lago della città dell’Illinois) è stato, ad esempio, possibile simulare, con l’ausilio della “teoria dei giochi” (specialmente dei “giochi a più livelli” ormai nella prassi delle scuole militari) le strategie e le tattiche di dirottamento aereo e ridurne, nell’arco di meno di un lustro, il numero dei dirottamenti da 30 a circa due l’anno. Gli “economisti del terrorismo” di Chicago hanno sviscerato l’”effetto di sostituzione” nelle strategie e nelle tattiche: a fronte dell’argine ai dirottamenti aerei, i terroristi si sono rivolti ad altri comparti, che, però, comportano costi maggiori e per essere attuati, richiedono risorse più ampie e risultati attesi molto più consistenti di quelli dei dirottamenti aerei.
In tempi più recenti, l’Università della California del Sud è diventato il fulcro americano più importante in materia: la figura di spicco è Todd Sandler. I lavori degli ultimi anni coniugano la “teoria dei giochi” con “la teoria economica dell’informazione e della comunicazione” e con paradigmi tratti dall’analisi dei mercati finanziari, quali la teoria delle opzioni e dei derivati. Da un lato, grazie ad elaborati modelli esplicativi, questi studi documentano come il “terrorista razionale” cerchi risultati con vasto contenuto mediatico . Da un altro, le ricerche sugli “obiettivi anti-terroristi mirati” mostrano come un “anti-terrorismo a vasto raggio od a pioggia” avrebbe costi elevatissimi a fronte di risultati modesti; sono preferibili – affermano Todd Sandler e colleghi- strategie di prevenzione incentrate sulla decodificazione di segnali indiretti.
In Italia l’economia dell’informazione della comunicazione ha gradualmente trovato posto, negli ultimi tre lustri, tra le discipline insegnate nelle Facoltà di Economia delle maggiori università. Inoltre nel 2000-2006 si sono tenuti presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione (SSPA) corsi e percorsi formativi d’economia dell’informazione e comunicazione che, con contenuti appropriati potrebbero essere organizzati dalla Scuola Superiore del Ministero dell’Interno, anche in quanto seminari in materia vengono periodicamente tenuti al Nato Defense College a Roma ed allo Staff College delle Nazioni Unite a Torino..
In Europa, il centro più importante di ricerche su questi temi è l’Università di Zurigo dove gli studi economici sul terrorismo sono guidati da quel Bruno Frey che è anche uno dei maggiori teorici dell’”economia della felicità” ed in passato ha contribuito in misura significativa alla teoria economica delle cultura e dei mercati delle arti sceniche . Altre sedi di rilievo sono quelle guidate da Mats Lundhal della Università di Stoccolma e da Kurt Konrad della Libera Università di Berlino.
Le analisi di più immediato effetto riguardano la strumentazione economica per disinnescare la rete finanziaria del terrorismo. Circa sei anni fa, un documento dell’amministrazione finanziaria degli Stati Uniti sui capitali all’estero della rete terroristica, ha documentato che almeno tre miliardi di dollari appartenuti al Governo di Saddam Hussein erano depositati in banche controllate dal Governo di Damasco, soprattutto in Siria, Libano e Giordania. Di questo totale, 0,5 miliardi di dollari erano depositati in banche libanesi ed una somma analoga in banche giordane. Degli altri due miliardi si sa poco o niente. Secondo lo studio, al momento dell’apertura delle ostilità, Saddam ed i suoi avevano ben 1,7 miliardi di dollari in banche commerciali degli Stati Uniti, circa 600 presso la Banca dei Regolamenti Internazionali (Brs) a Basilea ed in istituti di credito giapponesi. Di questi 2.45 miliardi di dollari, 300 milioni – ossia la metà di quanto trovato alla Brs – è stato restituito al (nuovo) Governo irakeno; il resto è sotto sequestro. Queste risorse finanziarie sono state accantonate per uno scopo preciso che va ben oltre il supporto alla guerriglia in Irak; unitamente ad altre riserve e flussi (di cui è difficile stimare l’entità), servono al terrorismo che oggi richiede molto di più delle bombe, celate sotto i cappelli (chiamati a bombetta) nei nichilisti all’inizio del Novecento.
Un campo relativamente nuovo e di grande interesse è quello dell’analisi economica dell’impiego di kamizake reclutati tra giovani cresciuti in ambiente occidentale oppure “occidentalizzato” (i palestinesi nati e diventati adulti in Israele). Murihaf Jouejati della Università George Washington nella capitale Usa sottolinea come la scelta del suicidio-eccidio abbia determinanti economiche: i giovani mussulmani, cresciuti negli Usa od in Europa oppure nelle aree più occidentalizzate del Medio Oriente, lo compiono non per andare in un Paradiso (in cui spesso non credono affatto) ma per sconfiggere il nemico in una guerra millenaria in cui l’intrusione occidentale avrebbe, agli occhi loro e dei loro maestri, tolto il primato economico, scientifico e culturale dell’Islam. Lo scontro con le libertà- e della democrazia e del mercato rende più acuta la decisione di commettere gesti estremi come il suicidio-eccidio. Ciò spiega – come si è accennato in precedenza- la scelta di terroristi maturi e istruiti (oltre che probabilmente laicizzati) per le missioni più importanti. Attenzione: il suicidio-eccidio è contrario al Corano dove si prescrive che l’uomo non deve uccidere “neanche una formica” e la “guerra santa” è consentita unicamente per la riconquista e difesa dei “luoghi sacri”. Il kamikaze o è imbevuto di eresia, ossia di un’interpretazione distorta del Corano, oppure considera il suicidio-eccedio come strumento di una guerra laica tra civiltà necessariamente in forte contrapposizione.
Quali alcune delle principali lezioni che si traggono dall’”economia dell’antiterrosismo”, ad esempio dai tre volumi i 1700 pagine curati da Todd Sandler e Keith Hartley, dai lavori di Bruno Frey della Università di Zurigo e da quelli di Mats Lundhal della Università di Stoccolma e di Kurt Konrad della Libera Università di Berlino?
In primo luogo, il contenimento del terrorismo è un “bene pubblico internazionale”, che non può essere fornito da un solo Paese e di cui beneficia tutta la comunità mondiale; dopo le risoluzioni Onu, anche Siria e Libano hanno dato la loro disponibilità a operare di concerto con il resto del mondo per bloccare i soldi del terrore. In secondo luogo, ciò implica vigilare su conti sospetti di “cellule” terroristiche dovunque esse siano; questa attività ha ramificazione per quanto riguarda la vigilanza bancaria;: negli Stati Uniti, sono state potenziate, negli ultimi due anni e mezzo, le funzioni e le risorse a disposizione del Tesoro – tramite l’Irsa-(l’agenzia delle entrate) Usa ed il Comptroller of Currency (una direzione generale di del Ministero del Tesoro). Anche in Italia si è creata una direzione generale presso il ministero dell’Economia e delle Finanze nell’ambito del Dipartimento del Tesoro. Dobbiamo chiederci se le nostre attività di vigilanza finanziaria siano attrezzate alla bisogna. In terzo luogo, occorre ridurre la capacità d’attrazione abbassando l’attenzione dei media ed aumentando, al tempo stesso, il costo opportunità ai terroristi, nonché “offrendo alternative” a potenziali reclute del terrorismo. Secondo Bruno Frey , il decentramento politico ed amministrativo può ridurre in misura significativa i benefici ai terroristi in quanto implica un più forte controllo sociale. Più complicato “offrire alternative” a potenziali terroristi: ciò vuole dire “strategie negoziali” o, in termini di gergo economico, “cooperative”. Percorso che pochi Governi sono pronti a seguire.
Per saperne di più
Brown E, Cloke J “Shadow Europe: Alternative European Financial Geographies”
Growth and Change, Vol. 38, No. 2, pp. 304-327, June 2007
Berman E. Laitin D. “Religion, Terrorism and Public Goods: Testing the Club Model” Nber Working Paper W13725
Cole D. “Terror Financing” in (a cura di Bianchi e Keller) “Countertrerrorism: Democracy’s Challenge” Hart Publishing New York 2008
Llussá F. , Tavares J. “Economics and Terrorism- What We Know, What We Should Know and the Data We Need CEPR Discussion Paper N. DP6509
Kokker T., Yordan “Microfinanincing Terrorism: a Study in Al Qaeda Financing Strategy” in (a cura di M. Cox) “State of Corruption, State of Chaos: The Terror of Political Malfesaance) Yale University Press pp. 167-188, New Haven 2008
lunedì 15 dicembre 2008
ALITALIA, CINECITTA' E TIRRENIA, IL GOVERNO SULLE PRIVATIZZAZIONI NON MOLLA, L'Occidentale 15 dicembre
Il 2008, che sta per terminare è stato un anno orribile per il processo di privatizzazione in tutto il mondo. Basta scorrere il sito www.privazation.org o www.privatizationbarometer.net, le fonti più complete e più aggiornate sui processi di privatizzazione per toccare con mano. La crisi finanziaria ha prosciugato il “private equity”, portato al fallimento alcuni tra i maggiori intermediari finanziari coinvolti (nell’ultimo quarto di secolo) nel processo di denazionalizzazione (in varie forme e guise), ed ha innescato una nuova ondata d’intervento pubblico, con varie forme di semi-nazionalizzazioni, a volte totale a volte parziale (in effetti “irizzazioni” più o meno mascherate), pure in Paesi a forte tradizione liberale, come gli Stati Uniti (dove il Tesoro ha preso in mano alcuni tra i maggiori istituti di credito e sta farlo pesantemente nel settore della metalmeccanica).
In questo quadro, l’Italia rappresenta un’anomalia, poco notata in Patria ma di cui si sono accorti i due siti citati ed alcuni economisti stranieri di rango. In effetti, nonostante la crisi del secolo incomba su noi come su altri, si sta completando in questi giorni non solamente il faticoso processo di privatizzazione dell’Alitalia (che sarebbe dovuto avvenire almeno otto anni ma che è stato dapprima ritardato e poi pasticciato, in modo parapsicologico, dal Governo Prodi) ma sono in atto denazionalizzazioni importanti ma poco notate (da gran parte della stampa e dall’opinione pubblica), proprio nella Roma che la vulgata, specialmente del Nord, dipinge come la roccaforte dello statalismo ( sempre annidato dietro l’angolo, in varie vesti e maschere).
Tra le più significative è quella di Cinecittà Studios s.p.a., il cui capitale sociale è 35 milioni di euro. La procedura è stata iniziata dalla capogruppo, Cinecittà Holding, una s.p.a. ad intero capitale pubblico che controlla, oltre agli studi, anche altri aspetti della cinematografia, con una richiesta di manifestazione d’interesse per pacchetti d’azioni dell’impresa. La denazionalizzazione è parte di un progetto più ampio con la creazione di un Centro Nazionale per la Cinematografia dove concentrare le attività a carattere non commerciale (cineteca nazionale, centro sperimentale) del settore. Lo Stato si disimpegnerebbe da quelle chiaramente industriali, pure da quella Cinecittà il cui nome è un’icona per la storia dell’arte cinematografica non solo in Italia ma nel mondo. Ora Cinecittà, o più precisamente i suoi studi cinematografici, dovranno competere sul mercato internazionale. Potranno fruire come unico incentivo di sgravi tributari approvati con la finanziaria 2008 ed assolutamente in linea con la normativa europea. Molti imprenditori del campo sono pronti a rispondere positivamente all’invito ed a manifestare il proprio interesse; si parla, tra i potenziali concorrenti, dei Gruppi Abete e Della Valle , Aurelio De Laurentis e Haggiag. Non si tratta, si può pensare, di una “grande partita” in termini di proventi che apporterà allo Stato. Molto significativi, invece, gli aspetti di politica economica: la privatizzazione di Cinecittà Studios in una fase di grave crisi internazionale vuol dire che la politica economica italiana riesce a tenere la barra ritta, evitando di trasgredire le regole europee ma portando avanti il programma di liberalizzazioni a cui il Governo si è impegnato di fronte agli elettori. E’ anche prova di vitalità dell’industria della creatività (di cui il cinema è un comparto importante).
Altra privatizzazione di cui parlano unicamente gli addetti ai lavoro e la loro stampa specializzata è quella della Tirrenia. E’ un caso di “delayed privatization” per mutuare il titolo di un bel saggio di Bernando Bortolotti (Università di Torino) e Paolo Pinotti (Banca d’Italia) apparso di recente sulla rivista scientifica “Public Choice” . Lo era anche quello dell’Alitalia. E’ strategicamente importante che, proprio mentre infuria la crisi dei mercati, il Governo abbia ripreso in mano un “dossier” (che sembrava destinato a raccogliere centimetri di polvere), e che la Fintecna, la holding a cui Tirrenia fa capo, abbia avviato la gara per la scelta dell’advisor; le offerte sono attese per il 17 dicembre . E’ presumibile che la scelta avvenga dopo Natale ma prima della fine dell’anno.
L’anno si chiuderebbe ancora meglio se ci fossero cenni in questa direzione nel “capitalismo municipale” (specialmente nelle conglomerate ancora a capitale prevalentemente pubblico). E’ un capitolo che L’Occidentale terrà sotto attenta osservazione nel 2009.
In questo quadro, l’Italia rappresenta un’anomalia, poco notata in Patria ma di cui si sono accorti i due siti citati ed alcuni economisti stranieri di rango. In effetti, nonostante la crisi del secolo incomba su noi come su altri, si sta completando in questi giorni non solamente il faticoso processo di privatizzazione dell’Alitalia (che sarebbe dovuto avvenire almeno otto anni ma che è stato dapprima ritardato e poi pasticciato, in modo parapsicologico, dal Governo Prodi) ma sono in atto denazionalizzazioni importanti ma poco notate (da gran parte della stampa e dall’opinione pubblica), proprio nella Roma che la vulgata, specialmente del Nord, dipinge come la roccaforte dello statalismo ( sempre annidato dietro l’angolo, in varie vesti e maschere).
Tra le più significative è quella di Cinecittà Studios s.p.a., il cui capitale sociale è 35 milioni di euro. La procedura è stata iniziata dalla capogruppo, Cinecittà Holding, una s.p.a. ad intero capitale pubblico che controlla, oltre agli studi, anche altri aspetti della cinematografia, con una richiesta di manifestazione d’interesse per pacchetti d’azioni dell’impresa. La denazionalizzazione è parte di un progetto più ampio con la creazione di un Centro Nazionale per la Cinematografia dove concentrare le attività a carattere non commerciale (cineteca nazionale, centro sperimentale) del settore. Lo Stato si disimpegnerebbe da quelle chiaramente industriali, pure da quella Cinecittà il cui nome è un’icona per la storia dell’arte cinematografica non solo in Italia ma nel mondo. Ora Cinecittà, o più precisamente i suoi studi cinematografici, dovranno competere sul mercato internazionale. Potranno fruire come unico incentivo di sgravi tributari approvati con la finanziaria 2008 ed assolutamente in linea con la normativa europea. Molti imprenditori del campo sono pronti a rispondere positivamente all’invito ed a manifestare il proprio interesse; si parla, tra i potenziali concorrenti, dei Gruppi Abete e Della Valle , Aurelio De Laurentis e Haggiag. Non si tratta, si può pensare, di una “grande partita” in termini di proventi che apporterà allo Stato. Molto significativi, invece, gli aspetti di politica economica: la privatizzazione di Cinecittà Studios in una fase di grave crisi internazionale vuol dire che la politica economica italiana riesce a tenere la barra ritta, evitando di trasgredire le regole europee ma portando avanti il programma di liberalizzazioni a cui il Governo si è impegnato di fronte agli elettori. E’ anche prova di vitalità dell’industria della creatività (di cui il cinema è un comparto importante).
Altra privatizzazione di cui parlano unicamente gli addetti ai lavoro e la loro stampa specializzata è quella della Tirrenia. E’ un caso di “delayed privatization” per mutuare il titolo di un bel saggio di Bernando Bortolotti (Università di Torino) e Paolo Pinotti (Banca d’Italia) apparso di recente sulla rivista scientifica “Public Choice” . Lo era anche quello dell’Alitalia. E’ strategicamente importante che, proprio mentre infuria la crisi dei mercati, il Governo abbia ripreso in mano un “dossier” (che sembrava destinato a raccogliere centimetri di polvere), e che la Fintecna, la holding a cui Tirrenia fa capo, abbia avviato la gara per la scelta dell’advisor; le offerte sono attese per il 17 dicembre . E’ presumibile che la scelta avvenga dopo Natale ma prima della fine dell’anno.
L’anno si chiuderebbe ancora meglio se ci fossero cenni in questa direzione nel “capitalismo municipale” (specialmente nelle conglomerate ancora a capitale prevalentemente pubblico). E’ un capitolo che L’Occidentale terrà sotto attenta osservazione nel 2009.
L’UFFICIO COMPLICAZIONI E’ SEMPRE APERTO, Il Tempo 15 dicembre
Uno dei maggiori umoristi del Novecento, Achille Campanile, avrebbe scritto una commedia esilarante se avesse letto lo stringato ma eloquente Focus n. 119 dell’Istituto Bruno Leoni (IBL) su come, prendendo l’avvio da un’idea buona (semplificare la ragnatela di regole con cui ogni giorno impattano uomini, donne, vecchi e bambini, nonché soggetti collettivi come le imprese), i barracuda-esperti annidati in ogni anfratto della Pa hanno creato un vero e proprio “ufficio complicazioni affari semplici” (Ucas). L’idea risale ai tempi della crisi valutaria del novembre 1992 quando anche i barracuda più voraci si resero conto che la valanga normativa (spesso confusa e sempre disorientante) era una delle palle al piede dell’Italia che produce (ma la delizia della miriade d’azzeccagarbugli sparsi per la Penisola). Occorreva, quindi, avere contezza dei suoi effetti economici (tramite l’Air. Analisi d’impatto della regolazione), e sfoltire drasticamente la selva oscura di leggi e regolamenti. Negli Usa – ricordiamolo- all’inizio degli Anni 80,l’Amministrazione Reagan varò una norma (mai modificata da allora) in base alla quale nessun disegno o proposta di legge potesse venire considerato dal Congresso de non accompagnato da una rigorosa analisi dei propri costi benefici e dei propri effetti (nonché della semplificazione nel panorama normativo esistente) ; tale analisi deve essere certificata dal General Accounting Office – l’equivalente, in parte, nella nostra Conte dei Conti. Misura analoga è stata introdotta in Francia durante la Presidenza Mitterand e da quasi tutti i Paesi Ocse. Si tratta di buon senso bipartisan, documentato in diverse pubblicazioni di fondazioni tedesche.
In Italia, dopo anni di dibattiti, è stata formalizzata una procedura che ambiva essere analoga a quelle ricordate. Lo si è fatto con la legge 246/2005 (uno degli atti meno noti della precedente legislatura) il cui regolamento è entrato in vigore il 18 novembre scorso (ma il Governo in carica non si è accorto di essersi reso mani e piedi ai barracuda-esperti?). La lettura del lavoro IBL (i cui dati e fatti non sono stati smentiti da nessuno) farebbe scoppiare dalle risa se non mostrasse chiaro e tondo come solo per la fase sperimentale si è messa in piedi una struttura barocca di comitati e consulenti che, per di più, non condurrà che marginalmente quell’analisi economica che dovrebbe essere il cuore dell’Air. Nessuna delle esperienze straniere ha nulla di simile. All’estero, anzi, ci ridono dietro. naturalmente con eleganza: basta leggere due recenti lavori del Centre for Europen Policy Studies (Ceps).
Che fare? Sbaraccare il complesso impianto rococò, eliminare incentivi a barracuda-esperti (rendendo tutti gli incarichi a titolo gratuito, come già fatto in alcuni Ministeri), e soprattutto introdurre una norma generalizzata in base al quale ciascuna legge “tramonta” dopo un certo numero di anni (7-10) se non viene di nuovo approvata (e aggiornata) dagli organi competenti. Gli Ucas sono più perniciosi dei fannulloni.
In Italia, dopo anni di dibattiti, è stata formalizzata una procedura che ambiva essere analoga a quelle ricordate. Lo si è fatto con la legge 246/2005 (uno degli atti meno noti della precedente legislatura) il cui regolamento è entrato in vigore il 18 novembre scorso (ma il Governo in carica non si è accorto di essersi reso mani e piedi ai barracuda-esperti?). La lettura del lavoro IBL (i cui dati e fatti non sono stati smentiti da nessuno) farebbe scoppiare dalle risa se non mostrasse chiaro e tondo come solo per la fase sperimentale si è messa in piedi una struttura barocca di comitati e consulenti che, per di più, non condurrà che marginalmente quell’analisi economica che dovrebbe essere il cuore dell’Air. Nessuna delle esperienze straniere ha nulla di simile. All’estero, anzi, ci ridono dietro. naturalmente con eleganza: basta leggere due recenti lavori del Centre for Europen Policy Studies (Ceps).
Che fare? Sbaraccare il complesso impianto rococò, eliminare incentivi a barracuda-esperti (rendendo tutti gli incarichi a titolo gratuito, come già fatto in alcuni Ministeri), e soprattutto introdurre una norma generalizzata in base al quale ciascuna legge “tramonta” dopo un certo numero di anni (7-10) se non viene di nuovo approvata (e aggiornata) dagli organi competenti. Gli Ucas sono più perniciosi dei fannulloni.
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