Gli accordi ci sono ma non si riesce a
metterli in atto
Circa quattro anni fa, mentre l’Inter-national Consortium of
Investigative Journalists non stava ancora raccogliendo carte su carte per le
proprie analisi, Roberto J. Santillián Saigado della Egade Business School a
Monterrey, una delle migliori università del Messico, ha pubblicato uno studio
sui paradisi fiscali nella rivista scientifica 'Journal of Global Economy'.
Nella ricerca, riassunti i vari tentativi di Banca mondiale, Fmi, Ocse e dello
stesso G20 e riconosciute le buone intenzioni di maggiore efficacia e
trasparenza nelle regolazione finanziaria internazionale, concludeva che ci
sarebbero voluti diversi anni prima che le varie convenzioni internazionali
cominciassero a mordere.
Le ragioni presentate nello studio sono numerose: la scarsa
rilevanza della classificazione della regolazione finanziaria degli Stati in
'buoni, brutti e cattivi', il delicato equilibrio tra normative nazionali e
regole internazionali, la capacità delle stesse istituzioni internazionali di
poter fare applicare i trattati e le convenzioni in mancanza di adeguati poteri
ispettivi e di personale per esercitarli. E, soprattutto, la scarsa
comprensione di come funzionano effetti-vamente i 'financial off shore
centers'. La capacità di far applicare quanto pattuito è sempre l’anello più
debole: si pensi, per fare un esempio, che ancora alla metà degli anni novanta
il World Labour Report dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil)
indicava l’Italia tra i Paesi non in grado di fare applicare le convenzioni in
materia di lavoro minorile, tra le più antiche della quasi centenaria
organizzazione. Più di recente, la sezione speciale dell’agenzia delle entrate
americane incaricata di monitorare il Facta (il Trattato sulla fiscalità degli
americani residenti all’estero) pare sia paralizzato dalla marea di carte I
nodi essenziali dei Panama Papers sono due. In primo luogo, il diritto norma
l’esistente ed ha scarsa contezza dell’evoluzione futura. Negli anni in cui
Banca mondiale, Fondo monetario, OCSE e G20 faticavano quattro camice per
giungere a convenzioni internazionali, c’era poca contezza delle trasformazioni
tecnologiche in atto, trasformazioni che rendevano facilissimo trasferire somme
ingenti (sia di provenienza legittima sia di origine illegale). In secondo
luogo, in regime di libertà di movimenti dei capitali, raramente ha rilevanza
penale il collocamento e l’investimento al-l’estero, anche in Paesi di cattiva
reputazione. Si può fare molto con la collaborazione nel piccolo gruppo di
Paesi ancora considerati 'paradisi fiscali'. Così come sono state la società e
la pubblica amministrazione italiana – non le convenzioni e le grida Oil – a
debellare la piaga del lavoro minorile. I 'paradisi' devono diventare
'purgatori fiscali'. Hanno incentivo a farlo? Non proprio. Nel 1854, il
Principe Florestano I di Monaco legalizzò il gioco d’azzardo (clandestino nella
vicina Francia) e costruì un nuovo quartiere chiamato Montecarlo perché il Principato
(perso l’80% del territorio con la seconda guerra d’indipendenza italiana) era
poverissimo ed indebitato sino al collo.
Giuseppe Pennisi
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