mercoledì 13 aprile 2016

Cosa penso dell’Egitto e del caso Regeni in Formiche 14 aprile



Cosa penso dell’Egitto e del caso Regeni
Cosa penso dell’Egitto e del caso Regeni
Il corsivo dell'economista Giuseppe Pennisi
Per una volta intendo rompere la regola che mi sono dato di non scrivere di quei Paesi dove ha lavorato per conto della Banca Mondiale e per le agenzie delle Nazioni Unite.
Come ha ben detto Giancarlo Loquenzi su questa testata, “non si saprà mai la verità” sul caso Regeni, non tanto perché il Presidente Abd al-Fattah al-Sisi e il suo entourage non vogliano scoprire i colpevoli , ma perché il Capo di Stato e di Governo ha poteri limitati . Il generale poco più di un “primus inter pares”, un coordinatore-moderatore del Consiglio Supremo Militare, diviso a sua volta in varie fazioni (con strutture di supporto), unite essenzialmente dall’essere sunniti moderati o anche laici, e dal detestare i Fratelli Mussulmani. E’ indubbio che il Governo ha un’idea particolare della democrazia e un’opinione ancora più peculiare dei diritti umani.
Da quanto traspare dalla stampa, le indagini e i sospetti, tanto degli inquirenti egiziani quanto di quelli italiani, sono indirizzati verso i vari apparati di polizia. A mio avviso, però, è impossibile che le autorità competenti riescano a trarre un ragno dal buco, anche a causa della vecchia regola per cui topo non mangia topo. Nonostante le differenze ideologiche, che molto spesso hanno dato origine a veri e propri scontri, separino le varie fazioni, queste condividono non solo la brama di potere, ma anche la volontà di impedire all’estremismo islamico di avanzare in Egitto.
Oltre questo, va anche messo in conto che gli apparati di cui si servono le varie fazioni politiche non avrebbero avuto alcun interesse a fare ritrovare il cadavere martoriato del giovane ricercatore proprio nei giorni in cui si sarebbero svolti importanti incontri di natura economica tra la delegazione di casa e quella italiana. Sarebbe convenuto, poi, ancor meno far ritrovare i documenti della vittima. Gli oltre cinquecento ‘”desparicidos” egiziani dimostrano che non è difficile fare sparire cadaveri, bruciandoli, buttandone i resti nel Nilo, o in pasto agli squali del Mar Rosso, o anche nel Mediterraneo. Ancor più semplice far sparire passaporto, carta di credito e tessera di identità universitaria.
Ciò dovrebbe indurre a indirizzare le indagini altrove. Il Governo guidato da Abd al-Fattah al-Sisi non ha un’opposizione monolitica: la gamma è vasta, dai Fratelli Mussulmani a forze tendenzialmente modernizzatrici e liberali (sempre nel contesto che tali aggettivi hanno in Egitto). Regeni pare avesse contatti con queste forze: i sindacati liberi, il piccolo commercio, alcuni intellettuali. Non è da escludere che i gruppi più radicali avessero interesse a essere informati sulla struttura organizzativa delle opposizioni modernizzatici e liberali e che, a torto o ragione, pensassero che Regeni ne fosse informato. I loro apparati hanno professionalità di torturatori non inferiori a quelle delle fazioni governative. Se il torturato muore, il corpo e i documenti possono essere un’arma per causare imbarazzo al Governo.
A mio avviso, si dovrebbe indagare anche in questa direzione. Anche se si potrebbe raggiungere qualche risultato solo se la nostra Rappresentanza al Cairo avesse almeno una mappa delle varie opposizioni.
L’Italia, nel contempo, non dovrebbe certo diminuire la pressioni sul Governo egiziano, specialmente nelle varie sedi internazionali. Il Cairo probabilmente questa mappa ce l’ha, ma più passa il tempo più è difficile trovarne una prova

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