lunedì 11 aprile 2016

COME NEI SECOLI LA MUSICA INTERPRETÒ GIOVANNA D’ARCO in La Nuova Anrologia marzo 2016

Tra musica e politica
COME NEI SECOLI LA MUSICA
INTERPRETÒ GIOVANNA D’ARCO


Premessa
Il Teatro alla Scala ha inaugurato la stagione 2015-2016 con Giovanna
d’Arco, opera poco rappresentata di Giuseppe Verdi del 1845, pensata e
composta, quindi, oltre quattro secoli dopo gli eventi in essa raccontati. Il
libretto è tratto da una tragedia di Friedrich Schiller, Die Jungfrau von
Orléans, del 1801, lavoro che ispirò altri compositori, per lo più italiani e
francesi, ma anche, alcuni decenni più tardi, lo stesso Čajkovskij. Ho trattato
dello spettacolo scaligero in sede di critica musicale in testate italiane
e britanniche, ed intendo ritornare solo brevemente sul tema.
Tuttavia, Giovanna d’Arco non è un personaggio storico qualsiasi.
Nella sua breve vita (1414-31) ebbe un ruolo centrale nella guerra dei
Cent’anni. Condannata al rogo, come strega, nella piazza di Rouen, al
termine di un complesso suo processo, dichiarato nullo già da papa Callisto
III nel 1456, è stata beatificata nel 1909 e canonizzata nel 1920. È la
santa protettrice della Francia in quanto simbolo della lotta di un’unità
nazionale, raggiunta dall’Esagono, molto prima di quanto riuscirono a
fare altre nazioni europee. Quindi, la produzione scenica della rara opera
verdiana rappresenta uno spunto per esaminare come la musica, sempre
riflesso della società, e della politica in cui viene composta, tratta nei secoli
il personaggio. È, per molti aspetti, una dimensione più interessante,
e meno esplorata, di un esame di come il cinema (c’è una produzione
molto ricca) presenta Giovanna d’Arco; per ragioni tecnologiche (il cinema
si sviluppa all’inizio del Novecento), la settima arte tratta Giovanna d’Arco
quando il processo di beatificazione prima, e di canonizzazione poi,
sono già in corso; quando la «Pulzella d’Orléans» è già generalmente con-
siderata eroina ed ha un’aureola di santità. I saggi raccolti nel bel programma
di sala della Scala – specialmente quelli di Riccardo Mondello, Vito
Mancuso e Carlo Pagetti – svolgono
parte di questi temi, ponendo l’accento
sulle dimensioni drammaturgiche e musicali, più che su quelle storico
politiche; sfiorano soltanto la lettura spirituale più recente ed il suo forte
contenuto politico. Inoltre, non toccano l’aspetto di Giovanna come eroina
nazionale, argomento particolarmente di rilievo in una fase, come
l’attuale, di forte rilancio dei nazionalismi in Europa.
Questo articolo è diviso in quattro parti: la figura di Giovanna d’Arco
nel teatro in musica dei secoli precedenti i movimenti di unità nazionale, in
particolare di Germania ed Italia; in quello del Risorgimento italiano e di
altri movimenti di unità nazionale; nella lettura russa di Čajkovskij e nel
postcanonizzazione.
Il tema è vasto; abbraccia oltre cinque secoli di storia europea. Quindi,
non si ha la pretesa di essere esaurienti ma di sviluppare unicamente punti
considerati particolarmente rilevanti.
Teatro in musica su Giovanna d’Arco prima dell’Ottocento: fattucchiera
o eroina?
La vicenda della giovine guerriera vergine (Pulzella) condannata al rogo
al termine di un processo che, solo un quarto di secolo dopo gli avvenimenti,
la stessa Chiesa di Roma considerò nullo, non poteva non attirare l’attenzione
della letteratura. Naturalmente, da parte francese, si scrissero poemi
quasi subito dopo il rogo – ad esempio, il Ditié di Christine de Pizan ed i
20.000 versi del Mystère du Siège d’Orléans e la Ballade des Dames du
Temps Jadis di François Villon – in cui si esaltava l’amazzone guerriera morta
per la patria. Poca letteratura da parte inglese, specialmente dopo la presa
di posizione di papa Callisto III. Almeno sino alla riforma, ed al distacco
della Chiesa anglicana da Roma in 1534, quando la figura di Giovanna d’Arco,
compare sulle scene britanniche per mano di William Shakespeare.
Credo che il teatro elisabettiano e, quindi, shakespeariano abbia tutti i
titoli per essere considerato uno dei primi esempi di teatro in musica oltre
Manica. L’azione scenica era accompagnata da brani ed intermezzi musicali
e spesso il coro cantava. C’è poca documentazione in materia. Verso il
1970, tuttavia, la casa discografica americana Nonesuch Records ha pubblicato
un album di due dischi in vinile intitolati Music in Shakespeare’s
Time, da cui si ricava che, con l’eccezione di trame molto più complesse e
del «recitar cantando», il teatro in musica dell’epoca elisabettiana non dif-
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feriva eccessivamente da quello che si praticava alla Corte di Mantova ed,
in via commerciale, cominciava ad apparire a Venezia ed a Napoli. Una
strumentazione essenziale, con basso continuo, strumenti a percussione ed
a corda e ottoni, e (dato che alle donne era vietato di solcare il palcoscenico
e non era invalsa la prassi dell’uso dei castrati), nel canto registri di
centro, o bassi, e voci bianche.
Giovanna d’Arco ha un ruolo centrale in una delle «storie», a mia memoria
mai rappresentate in Italia (tranne una versione radiofonica curata
negli anni Sessanta, da Gabriele Baldini): Enrico Sesto – Parte Prima. Mentre
la «storia» precedente Enrico Quinto è notissima anche grazie a film
come quelli di Laurence Olivier e Kenneth Branagh, la scarsa fortuna di
Enrico Sesto è da attribuirsi non solo alla sua qualità drammaturgica (inferiore
a quella del grande dramma patriottico Enrico Quinto) ma anche alla
sua durata: tre parti, ciascuna di cinque atti, con oltre trenta personaggi e
circa dieci ore di spettacolo (quale messa in scena alla Community Playhouse
a Pasadena in California). Lo stesso Edmund Kean organizzò, tra il dicembre
1817 ed il gennaio 1818, al teatro Drury Lane di Londra una sintesi
delle tre parti che potesse avere una durata «normale» (circa quattro
ore). Questo spiega perché la Giovanna d’Arco shakespeariana è praticamente
ignota in Italia.
In Enrico Sesto – Parte Prima, la fanciulla non è affatto una vergine,
ma ha numerosi amanti, è incinta (o si professa tale per ritardare la pena o
perché ha una gravidanza isterica) quando viene portata al rogo, intriga tra
varie fazioni inglesi e con i borgognoni. Ha poteri sovrannaturali ma di
origine diabolica; in breve, è una strega che anche nella traduzione «rondiana
» di Baldini indulge in blasfemie e male parole. Quindi, l’opposto
della versione francese, dove cominciavano a pullulare, invece, lavori e
poemi eroici (come La Pucelle ou la France Délivrée di Jean Chapelain) che
esaltavano, a volte in modo anche goffo, il ruolo della ragazza nell’unificazione
nazionale. Un voce distante dal coro è quella di Voltaire che nel 1730
scrisse non un dramma ma un poema irriverente e quasi satirico in 21
canti La Pucelle d’Orléans con toni ancora più crudi di quelli di Shakespeare.
A mio giudizio, però, la versione di Voltaire non voleva accarezzare gli inglesi
ma da illuminista, anticattolico ed universalista (passò anni alla Corte
del re di Prussia e viveva a pochi chilometri della calvinista Ginevra; il suo
Candide si volge in tutti i continenti allora conosciuti) considerava genuinamente
riprovevole quella che riteneva una leggenda medioevale ed oscurantista
della pastorella diventata conduttrice di eserciti, «ascoltando le
voci». Non mancarono repliche, anche pedanti (come i tre volumi di Nicolas
Lenglet du Fresnoy). Ma, dopo il sommo Shakespeare, Giovanna d’Ar-
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co parve interessare principalmente gli autori di libri di storia o di pamphlet
in chiave o antifrancese o antinglese. Con forte vis polemica per soddisfare
la politica politicante.
Curiosamente, la prima opera lirica sul tema non fu francese ma italiana
e venne, per pura coincidenza, rappresentata a Vicenza, nel teatro d’opera
appena completato, proprio nei giorni della presa della Bastiglia. È rimasto
il libretto (di Antonio Sografi) e parte della musica (di Gaetano Andreozzi).
È una Giovanna più filorivoluzionaria e antimonarchica che eroina dell’unità
nazionale. Una popolana combattente e leader del «terzo stato» – ciò
colorerà la sua immagine in gran parte delle versioni operistiche dell’Ottocento.
Se ne discosterà, come vedremo, solo Čajkovskij, pur utilizzando la
stessa matrice di gran parte degli altri compositori dell’Ottocento.
La Giovanna d’Arco dell’unità nazionale
La matrice comune delle opere su Giovanna d’Arco nel XIX secolo è
la tragedia romantica in cinque atti di Friedrich Schiller Die Jungfrau von
Orléans (La Pulzella d’Orléans o La vergine d’Orléans) scritta nel 1801 a
Lipsia, rappresentata frequentemente nei Paesi di lingua tedesca, tradotta
e ripresa anche in Francia e in Italia. La trama ripercorre la vita di Giovanna
d’Arco, seguendo a grandi linee la storiografia francese. Nel prologo
vengono presentati i protagonisti (ben 27 personaggi nel lavoro complessivo);
nei cinque atti sono messi in scena altrettanti momenti salienti della
vita della Pulzella. Nel finale, Giovanna è condannata al rogo ma, contrariamente
a quanto accaduto in realtà, riesce a liberarsi dai vincoli che la
tengono legata al palo ove avrebbe dovuto subire il supplizio, lanciandosi
nella battaglia che si è scatenata sulla piazza di Rouen; qui è tuttavia colpita
a morte mentre combatte. C’è anche una storia d’amore, tra Giovanna
ed un militare inglese, che lei starebbe per uccidere in battaglia, ma presa
dalla sua bellezza gli salva la vita, senza, però, darsi a lui e perdere la verginità.
In effetti, ci sono tutti gli elementi per un grande spettacolo, con
parate militari, incoronazioni, battaglie, cavalli sul palcoscenico, roghi. A
Schiller interessava, da un lato, il conflitto tra pubblico e privato, e, dall’altro,
la lotta per l’unità della nazione (poco contava se francese o tedesca:
la Francia del 1400 equivaleva alla Germania del secolo appena iniziato).
Inoltre, la tragedia aveva una forte connotazione libertaria.
Il lavoro di Schiller venne tradotto in italiano nel 1819 da Pompeo
Rizzuti ed era stato l’argomento di un ballo pantomimico di Salvatore Viganò
che ebbe un grande successo alla Scala nel 1821, nonché di opere li-
Come nei secoli la musica interpretò Giovanna d’Arco 139
riche di Nicola Vaccaj nel 1827 e di Giovanni Pacini nel 1830. Naturalmente,
non mancò un forte riscontro in Francia. Michele Carafa nel 1821 presentò
con successo Jeanne d’Arc à Orléans alla Opéra-Comique, Charles
Gounod scrisse le musiche di scena per un adattamento del testo schilleriano
di Jules Barbier. Dopo la débacle francese da parte della Prussia, nel 1876
debuttò un’opera di Auguste Mermet, sempre in chiave patriottica e revanchista
in cui veniva ancora una volta proposto il testo (modificato) di
Schiller. Gran parte di questi lavori sono spariti dalla circolazione da decenni.
In essi, Giovanna (non ancora né beata né santa) era un personaggio
un po’ come un’Anita Garibaldi o una Pasionaria, innovativo all’epoca
quando alle donne non era ancora consentito di votare, ma un po’ ridicolo
oggigiorno. Lo comprese bene George Bernard Shaw che nel 1923 fece
Saint Joan un prototipo del women lib, liberale perché rivoluzionaria.
La Giovanna d’Arco di Verdi si inserisce in questo contesto nazionalpopolare
molto presente in quegli anni nell’Europa dei movimenti di unificazione
nazionale. Occorre dare atto al librettista Temistocle Solera di
avere fatto un buon lavoro di sintesi nel ridurre i cinque atti di Schiller in
quattro (brevi) atti e nel far diminuire il numero dei personaggi da 27 a
cinque (o meglio a tre protagonisti, più due comprimari). Come in altre
opere verdiane di quel periodo, un quarto protagonista è il coro. Verdi, lo
si è scritto nel fascicolo 2258 della «Nuova Antologia», non è mai stato (se
non all’epoca della breve Repubblica Romana) un patriota convinto, ma lo
era Solera. Dalla morte della sua prima moglie e dei figli, la religiosità del
compositore è stata, quanto meno, dubbia. Quindi, i due temi di fondo
dell’opera gli sfuggivano, oppure venivano sentiti in modo epidermico. In
effetti, tanto sotto il profilo drammaturgico quanto sotto quello musicale,
il centro dell’opera diventò il rapporto tra padre (Giacomo, nel libretto) e
figlia. Nella fretta di sintetizzare Schiller e di dare al libretto un tono patriottico-
rivoluzionario, Solera scrisse una vicenda improbabile imperniata
sull’amore casto tra Giovanna e Carlo VII di Francia ed i tormenti del padre
che la considera un’indemoniata tanto da consegnarla agli inglesi ma, pentitosi,
di liberarla prima della battaglia finale.
Pochi musicologi considerano Giovanna d’Arco tra le opere di rilievo
di Verdi. Massimo Mila utilizza aggettivi come lavoro «affrettato», «trasandato
» e composto su commissione «senza coscienza artistica». Durissimo
anche Claudio Casini: Verdi «infilò una dietro l’altra la serie di pezzi chiusi,
di ensemble e di recitativi allo scopo di soddisfare il Merelli (l’impresario
che la aveva commissionata) e di far ben figurare due cantati amici: Erminia
Frezzolini e suo marito Antonio Poggi». Molte monografie su Verdi si limitano
a citarla. Senza commentarla.
140 Giuseppe Pennisi
Giovanna d’Arco ha, però, alcuni estimatori tra i direttori d’orchestra.
Uno è James Levine, che non è mai riuscito a convincere la Metropolitan
Opera House di New York a metterla in scena ma che ha prodotto la migliore
registrazione in studio nel 1973 (con Caballé, Domingo e Milnes nei
ruoli principali). È stata proposta in versione da concerto da Sarah Caldwell
e Eve Queler che, nell’America degli anni Settanta, si sono dedicate alla riscoperta
di opere rare (e «dalla parte di lei»). È un’opera-mito per Riccardo
Chailly che, prima di imporla per il Sant’Ambrogio 2015, la ha diretta a
Bologna nel 1989 (con un’improbabile regia di Herzog) e la ha portata in
versione semiscenica a Salisburgo nel 2013 per due recite. Si è anche vista
al Festival verdiano di Parma nel 2008 con Bruno Bartoletti sul podio (ed
una regia tradizionale di Lavia) ed al festival di Martina Franca con la bacchetta
di Riccardo Frizza. Il festival Verdi ha messo in scena tutte (o quasi)
le opere di Verdi in vista del bicentenario del 2013. Quello di Martina Franca
è dedicato a riscoperte di lavori obliati. Ho avuto l’occasione di studiare
l’edizione di Levine e di vedere Giovanna d’Arco dal vivo quattro volte (a
Washington circa 35 anni fa, a Bologna, a Parma ed ora alla Scala). Il mio
giudizio non è mutato; nonostante un grande ruolo per soprano, un ruolo
per baritono che anticipa i Germont ed i Boccanegra, nonché ottimi cori, il
tenore è di vecchio stile (dalla pessima cavatina iniziale) e brilla solo nei
duetti. L’inverosimile libretto di Solera non aiuta di certo la rappresentazione.
Nell’operistica verdiana è senza dubbio un passo indietro rispetto ai due
lavori che la precedono (Nabucco e I Lombardi alla Prima Crociata).
Alla Scala, la serata di gran gala del 7 dicembre 2015 è stata coronata
da applausi e vere e proprie ovazioni per il direttore d’orchestra Riccardo
Chailly e per la protagonista Anna Netrebko. Il successo è, a mio parere, da
attribuirsi alla drammaturgia e alla regia del belga Moshe Leiser e del parigino
Patrice Caurier (duo artistico dal 1983), ma anche alla scenografia di
Christian Fenouillat, ai costumi di Agostino Cavalca e alle luci di Christophe
Forey che hanno, invece, suscitato qualche protesta dalla platea, dai palchi
e dal loggione. Non seguono affatto le intenzioni che l’impresario della
Scala, il librettista e lo stesso Verdi avevano nel 1845: fare una grand opéra
all’italiana con tableau decorativi. Ed hanno ragione.
La scena è un’unica stanza da letto di metà Ottocento. Una donna sta
morendo e nel dormiveglia rivive la vicenda della Pulzella di Orléans. Con
un abile gioco di proiezioni viene rievocata la guerra dei Cent’Anni e l’episodio
centrale di Giovanna d’Arco. Il libretto di Solera acquista credibilità
presentato come sogno (ed incubo) nella mente di una donna la cui vita è
stata travagliata dal dilemma tra passione (anche sensuale per il bel re di
Francia), voto di castità e amor patrio. Indubbiamente, mescolare Freud e
Come nei secoli la musica interpretò Giovanna d’Arco 141
Jung con il passaggio da Medioevo a Rinascimento non è un’impresa facile,
ma il tentativo rende bene l’essenza dell’opera. Ma la drammaturgia e regia
di Leiser e Caurier (e del loro team di scenografi e costumisti) non hanno
convinto tutti, specialmente il maestro concertatore e direttore d’orchestra
e coloro che si aspettano un trattamento agiografico della materia.
La scrittura musicale e vocale di Verdi, interpretata con grande amore
da Chailly e dal cast, è diseguale. Nella prima parte, eccellono l’ouverture
(una vera e propria breve sinfonia in quattro movimenti), la cavatina di Giovanna
(Anna Netrebko) ed il duetto d’amore tra la protagonista e Carlo VII
(Francesco Meli). Il resto è frammentario e la stessa figura del padre (Devid
Cecconi) non assume una forte connotazione. Più coesa la seconda parte, dal
concertato iniziale alla dolente conclusione con la morte di Giovanna.
Il ruolo della protagonista è stato scritto da Verdi per un soprano «anfibio
», Erminia Frezzolini, (ossia con una vocalità molto estesa) e per lei
sono composte le pagine più belle, pagine in cui Anna Netrebko sfoggia la
maturità vocale di soprano drammatico a cui è giunta in questi ultimi anni.
Alcune di queste pagine sono impervie; Anna Netrebko si è meritata applausi
a scena aperta. Più semplici i ruoli degli altri due protagonisti. Francesco
Meli ha messo in luce il proprio timbro chiaro e la facilità di ascendere
a registri molto alti. Dopo qualche incertezza iniziale, Devid Cecconi
(che ha sostituito Carlos Alvarez, ammalato) è stato un padre a tutto tondo.
Protagonista di gran rilievo (come in numerose opere verdiane del periodo
1840-50) il coro diretto da Bruno Casoni. Chailly ha cesellato la partitura
come un ricamo, dilatando leggermente i tempi nella prima parte, e trovando
le tinte giuste per i vari momenti del lavoro.
Nell’Italia del Risorgimento, c’è un’altra Giovanna d’Arco, che nulla
ha a che fare con il movimento di unità nazionale e che, composta nel 1832,
ha avuto la sua prima esecuzione a Parigi in un salotto privato (quello del
compositore) solo nel 1859. È un lavoro di Gioacchino Rossini, composto
come dono alla sua seconda moglie Olympe Pélissier (si è molto fantasticato
sull’ipotesi che fosse un brano di un’opera mai completata). Dimenticata
per anni, la «cantata» è stata riproposta dal Rossini Opera Festival, dove
ha avuto grandi interpreti come Violetta Urmana e Marylin Horne. Ne
esistono due versioni con accompagnamento orchestrale, rispettivamente
di Salvatore Sciarrino e di Marco Taralli.
Distante, ovviamente, da Schiller e da librettisti e compositori che a lui
si ispirarono, è una cantata per mezzo soprano o contralto, strutturata in
due arie ciascuna preceduta da un recitativo. La voce tende a riprendere il
«canone», ribaltato al femminile, del «bel canto» dei personaggi femminili
delle opere serie di Rossini. Nel primo recitativo ed aria, Giovanna medita
142 Giuseppe Pennisi
sul valore della missione che si accinge a compiere soffermandosi a riflettere
sui luoghi natii e sulla «dolce famiglia» specialmente sulla madre. Nel
secondo recitativo ed aria, i pensieri di guerra sono portati da «un angiol di
morte»; da un maestoso iniziale alla cabaletta finale, si lascia ampio spazio
al virtuosismo dell’interprete. La cantata rossiniana è un gioiello di poco
più di un quarto d’ora, lontanissima dalle letture politiche dell’epoca. Per
Rossini, cattolicissimo, Giovanna è una diciannovenne di fronte al mistero
della morte. Non in stile, ma in spirito, anticipa Claudel e Honegger.
La Pulzella russa tra amore e guerra
Quasi a fine Ottocento, nel 1881, Giovanna ricompare alla grande in
un’opera di Čajkovskij a lungo dimenticata, anche essa tratta dalla tragedia
di Schiller. Un lavoro singolare, e di grande bellezza, ma sfortunato. Due
settimane dopo la trionfale «prima» a San Pietroburgo, lo zar Alessandro II
venne assassinato ed i teatri vennero chiusi per un lungo periodo. La Pulzella
d’Orléans (questo è il titolo) raggiunse Praga nel 1882, ma i teatri
occidentali non rischiarono la messa in scena di un titolo in russo con 12
solisti, coro, corpo di ballo, grandi tableau e via discorrendo. Inoltre, lo
stesso Čajkovskij aveva scritto due versioni per la parte della protagonista:
una con la vocalità di soprano tra il lirico ed il drammatico ed una per
mezzo soprano. È riapparsa al Bolshoi di Mosca negli anni Settanta del
Novecento per volontà di un mezzo soprano di rango, Irina Archipova. Ed
ha iniziato un lungo viaggio per le maggiori città della musica. In Italia, si
è vista ed ascoltata una bella coproduzione tra il Regio di Torino ed il Massimo
di Palermo nel 2002-2003 con Stefano Ranzani sul podio, Mirella
Freni come protagonista e la regia di Lamberto Puggelli, nonché una versione
da concerto alla Sagra malatestiana.
È l’unica opera di Čajkovskij che non ha un argomento russo e non si
svolge in Russia. La tragedia di Schiller circolava in traduzione nei teatri
russi ma Čajkovskij, pur seguendone abbastanza fedelmente la traccia (riprendendo,
però, spesso l’adattamento di Barbier per il pubblico francese),
non recepì lo spirito del lavoro del poeta e drammaturgo tedesco nel redigere
di proprio pugno il libretto. Giovanna non era ancora neanche beata,
nonostante i governi francesi dell’epoca promuovessero la sua causa, ma
l’unità della nazione non era, a fine Ottocento, tema di rilievo nell’Impero
Russo. Il nodo centrale dell’opera, quindi, diventa l’amore impossibile tra
Giovanna e Lionel (in Schiller soldato inglese ma in Čajkovskij duca della
Borgogna). Il Delfino, poi re di Francia è uno smidollato, comandato a
Come nei secoli la musica interpretò Giovanna d’Arco 143
bacchetta dalla propria amante, il padre di Giovanna un dubbioso il cui
ruolo si affievolisce man mano che l’opera avanza. Quindi, un amore impossibile,
come nell’Eugenio Oneghin, la cui versione definitiva aveva debuttato
al Bolshoi pochi mesi prima. Non, però, in un contesto intimo
(come in Oneghin) ma in quadro di grand opéra. Un grand opéra, tuttavia,
più padano che francese con momenti (il duetto tenore-baritono al secondo
atto) che ricordano il Don Carlos di Verdi, quasi accanto a momenti (sempre
al secondo atto, la narrativa di Giovanna) che sembrano Musorgskij (il
racconto di Pimen in Boris Godunov).
I momenti meno interessanti del lavoro sono proprio quelli in cui viene
imitato il grand opéra, mentre la fusione tra musica occidentale e musica
russa (Čajkovskij era il più occidentale tra i compositori russi dell’Ottocento
e l’opera venne composta, in gran parte, durante un lungo soggiorno in Svizzera)
sono di grande fascino. I momenti migliori sono la magnifica ouverture
con un ruolo di solista per il flauto e l’anticipo del coro angelico (nel finale
del primo atto, il grande duetto d’amore tra Giovanna e Lionel al quarto atto
e le descrizioni di foreste, castelli e guerre. Per alcuni aspetti, l’amore impossibile
de La Pulzella d’Orléans ha punti in comune con quello di Eugenio
Oneghin. Nella prima delle due opere, il protagonista rinuncia ad un amore
«a portata di mano» perché teme che freni la sua vita di giovane dandy. Nella
seconda, la rinuncia della Pulzella dipende dalla guerra dei Cent’Anni e
dalla difesa della propria verginità. Un grand opéra tutto interiore, quindi,
come si addiceva ad un Čajkovskij tormentato dalla propria identità sessuale
e già nel percorso che dieci anni più tardi lo avrebbe portato al suicidio.
Giovanna d’Arco al rogo
Giovanna d’Arco al rogo di Paul Claudel (testo) e Arthur Honegger
(musica) è forse, in ordine cronologico, l’ultimo lavoro di teatro in musica
tratto dalla breve ma intensa vicenda della Pulzella. È tecnicamente un mystère,
come le rappresentazioni medioevali spesso concepite per essere rappresentate
sui sagrati e sulle piazze delle cattedrali. Il musicologo americano Ethan
Mordden considera il lavoro come un modo per rilanciare il contrasto tra
sacro e profano come in Le Martyre de Saint Sébastien di Claude Debussy su
testo di Gabriele D’Annunzio. A differenza dei lavori tratteggiati nelle pagine
precedenti, il testo è scritto da un diplomatico anche drammaturgo e poeta
di grande cultura. Lo svizzero Honneger apparteneva al «Gruppo dei sei»,
musicisti francesi, anzi parigini che si erano proposti la missione di innovare
la musica del Paese. Claudel ed Honneger avevano una lunga dimestichezza
144 Giuseppe Pennisi
di lavoro comune; Jeanne d’Arc au Bûcher (questo è il titolo originale) venne
scritta e composta tra il 1936 ed il 1938, tre lustri dopo la canonizzazione
della protagonista e della sua consacrazione come patrona della Francia.
In quei tre lustri, però, erano successe molto cose: in Francia Parlamento
e Governo erano dominati da un «fronte popolare» di sinistra che non
vedeva di buon occhio i cattolici e si scontrava con i «camelots du Roi»,
appartenenti invece ad una destra misticheggiante (e cattolica) che avrebbe
inteso tornare alla monarchia. In Germania, Hitler era al potere e si apprestava
a tentare di imporre una sua propria visione dell’unità europea. Il
debutto ebbe quindi luogo a Basilea, in Svizzera, con Ida Rubistein (che
aveva promosso il lavoro come protagonista, Jean Périer nel ruolo di san
Domenico e Paul Sacher nel podio). Fu un enorme successo; il mystère venne
immediatamente ripreso a Parigi, Orléans e Strasburgo, nonché al Festival
di Lucerna e al Teatro Adriano di Roma con i complessi di Santa Cecilia
(Mussolini non disdegnava affatto mettere in scena in Italia, lavori proibiti
o comunque sgraditi dai suoi alleati tedeschi). Il successo si ripeté nel dopoguerra:
dopo un’edizione scaligera nel 1947 ed un’edizione a Roma nel 1949,
l’oratorio drammatico è stato presentato, al San Carlo, il 5 dicembre 1953
in un allestimento di Roberto Rossellini con Ingrid Bergman come protagonista,
Tullio Carminati nel ruolo di san Domenico e Gian Maria Gavazzeni
sul podio. Tale allestimento ha girato il mondo e se ne è anche fatto un film
per la TV. In effetti negli anni Cinquanta e Sessanta, Giovanna d’Arco al
rogo (in traduzione italiana) si è vista in tutti i maggiori teatri della Penisola.
È uno spettacolo di opera moderna che ha ancora buoni riscontri di
pubblico e di critica. In Italia, nel 1990 si è visto ed ascoltato al Maggio
Musicale Fiorentino, nel 2002 ha inaugurato la stagione lirica del Massimo
di Palermo, nel 2008 quella dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Non
è un fenomeno unicamente italiano: nel 2015 ha aperto la stagione della
Avery Fisher Hall a New York.
La trama è molto semplice. In un’atmosfera onirica, Giovanna, bruciata
sul rogo, viene accompagnata da un gruppo di angeli in cielo. Qui incontra
san Domenico che durante la sua vita aveva combattuto le eresie degli albigesi
nel Sud della Francia. san Domenico mostra a Giovanna, assalita dai
dubbi perché condannata come eretica e strega, una serie di episodi della
sua vita. Coloro che l’hanno giudicata sono in realtà degli animali stolti che
credono fermamente al diavolo (il presidente della giuria è Porco, i giudici
sono Pecore e il cancelliere è Asino) e lei non deve temere perché è l’eletta
di Dio. Giovanna ha giocato la sua partita a favore del re di Francia (Sua
Maestà la Stoltezza), trionfando contro il re d’Inghilterra (Sua Maestà la
Boria) e il duca di Borgogna (Sua Maestà l’Avarizia), ma cedendo al quarto
Come nei secoli la musica interpretò Giovanna d’Arco 145
re, Sua Maestà la Morte. Giovanna ha sentito suonare la campana nera e la
campana bianca, ha udito le voci di santa Caterina e santa Margherita che
le hanno indicato la retta via e, con la spada consegnatale da San Giovanni,
ha ricondotto il suo re nel cuore della Francia fino a Reims per essere incoronato
nella gioia del popolo e del clero. Adesso Giovanna consapevole di
aver salvato e riunito la Francia è pronta per il suo martirio sul rogo, sicura
che la sua Fede le donerà la salvezza eterna nel regno di Dio.
Giovanna e san Domenico sono attori che recitano e non cantano,
mentre i personaggi del Cielo e degli Inferi (tribunale compreso) sono cantanti
(che passano dal recitativo all’arioso). Il coro ha un ruolo fondamentale.
La partitura di Honegger crea un quadro evocativo ed aggiunge ad una
grande orchestra sinfonica strumenti relativamente nuovi come i sassofoni
e le onde Martenot. È, tuttavia, marcatamente diatonica con elementi di
sperimentalismo limitati alla scena del grottesco processo.
Giovanna d’Arco al rogo è, in primo luogo, un mystère moderno ma
strutturato su uno schema medioevale (al pari di Jedermann di Hugo von
Hoffmannsthal che dal 1920 si replica ogni anno per almeno quindici sere
al Festival estivo di Salisburgo) ha principalmente un contenuto religioso.
Ne ha, però, anche uno politico. Si è delineata la situazione della Francia e
dell’Europa nel 1936-1938. Nel 1944, Claudel e Honegger aggiunsero un
prologo (eliminato nel dopoguerra) di netta opposizione al nazismo ed in
cui la Fede (di Giovanna e san Domenico) viene mostrata vincente sul totalitarismo.
Ma anche senza il prologo, la scena del tribunale dominato dal
Porco è una grottesca ma durissima denuncia politica contro classi dirigenti
diventate animali. In effetti, è un «mistero medioevale» ricco di parodia.
Conclusione
Non so se librettisti e compositori contemporanei stiano lavorando ad
un versione di Giovanna d’Arco adatta al XXI secolo. Ci sono gli elementi:
scontri di civiltà e di religioni, un’eroina giovanissima ed abilissima stratega,
la manipolazione della magistratura e via discorrendo.
In questa nota, ciò che si è cercato di mettere in rilievo è come ogni
epoca abbia avuto una propria Giovanna d’Arco in musica molto influenzata
dalla visione politica dell’epoca medesima. Non mi meraviglierei, quindi,
se un teatro lirico (forse americano, perché là la produzione di nuove opere
è più fertile) annunciasse la «prima mondiale» di una nuova Giovanna.
Giuseppe Pennisi

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