Cosa penso del Def di Renzi e Padoan
Il commento
dell'economista Giuseppe Pennisi
Il numero centrale del Def (Documento di economia e
finanza), approvato ieri dal Consiglio dei ministri, è 1,2%, il tasso di
crescita stimato per il Pil in termini reali nell’anno in corso. Ritengo futile
fare polemiche sulla differenza con le stime più ottimistiche presentate circa
sei mesi fa nel documento di aggiornamento del Def 2015. Non solo il quadro
internazionale è ora meno positivo di allora, ma – i giornalisti tendono ad
avere una memoria corta – nel 2007, prima della crisi economica, in un lavoro
congiunto, la Banca centrale europea, la Banca mondiale, il Fondo monetario e
l’Ocse stimarono in 1,2% il tasso potenziale di crescita dell’Italia nel medio
e lungo periodo. Le determinanti principali venivano individuate
nell’invecchiamento della popolazione, nell’obsolescenza dell’apparato
produttivo delle grandi imprese e nella fragilità delle piccole e medie
imprese, spesso alle prese con un sistema bancario anche esso senile. Allora,
però, la dottrina dominante era che in Europa il tasso armonizzato dei prezzi
al consumo avrebbe viaggiato sul 2% l’anno; quindi, ove l’Italia avesse
mantenuto il tasso di crescita potenziale dell’1,2%, il saggio di crescita
nominale sarebbe stato del 3,2% l’anno ed avrebbe permesso una graduale
riduzione del rapporto debito/Pil.
Da allora non solo
il denominatore si è contratto a ragione della crisi in corso dal 2008 ma la
demografia milita agguerrita contro gli aumenti dei prezzi e strizza un occhio
sornione alla deflazione. Ne presenta stime accurateTimothee Vlandas della
Università di Reading nel Regno Unito nello LEQS paper No.107, diffuso on line
l’8 aprile poche ore prima della riunione del Consiglio dei ministri. Sta
crescendo, specialmente in Italia, la proporzione di coloro che hanno più di 65
anni. Un elettorato che vive di pensioni e, quindi, detesta gli aumenti dei
prezzi (che incidono sul valore reale del loro reddito), specialmente in Italia
dove viene periodicamente terrorizzato da chi si diletta a lanciare ballon
d’essai di balzelli e riforme previdenziali penalizzanti invece di
gestire correttamente l’istituto affidatogli.
Quindi, dobbiamo accontentarci di una crescita
nominale che difficilmente supererà l’1,5-1,7% l’anno nelle ipotesi,
probabilmente ottimistiche, che l’Italia riesca ad esplicare in pieno la
propria crescita potenziale e che il contesto internazionale sia favorevole.
Qui occorre porsi tre domanda: si può continuare su
un percorso basato su una crescita del Pil nominale (e ripresa inflazione) che
pare irrealizzabile? Cosa si può fare per migliorare la qualità della vita e
dando certezze agli italiani? Come rilanciare l’investimento produttivo e
rendere più efficace e più efficiente la spesa pubblica?
Alla prima domanda
si può dare una risposta “radicale”, quale quella che nel Sol Levante diedero
un gruppo di (allora) giovani economisti giapponesi. Nei nostri obiettivi di
medio termine, non prendere il Pil e solo il Pil come metro ma affiancarlo con
indicatori di benessere e di qualità della vita. Negli ultimi cinque anni, il
Cnel e l’Istat hanno lavorato insieme per costruire il Bes, indicativo
composito di benessere equo e sostenibile. Un lavoro che è stato apprezzato a
livello internazionale dalle stesse Nazioni Unite , il cui Segretariato ha
affidato a due esperti di fama mondiale (uno è il nostro concittadino Enrico Giovannini) un rapporto
(approvato dall’Assemblea Generale Onu) che, per molti aspetti, estende a
livello mondiale i concetti alla base del Bes. Il rapporto Onu è stato
presentato poche settimane fa al Parlamento. Non si tratta – si badi bene – di
ipotizzare “una crescita felice” ma di attuare politiche concrete che
salvaguardino gli equilibri di finanza pubblica contenendo le spese poco efficienti e poco efficaci ed
esaltando quelle di alta qualità, il perimetro pubblico diventi
uno strumento per il miglioramento della qualità della vita.
Ciò non vuole dire solamente un’accentuata enfasi
sulla politica per la famiglia ed una maggiore attenzione all’ambiente, ma
anche e soprattutto dare certezze a settori fragili come i giovani ed i
pensionati ed un rilancio degli investimenti. I primi – ricordiamolo non
vogliono regalini come voucher per andare al cinema e sgravi sull’acquisto di
mobilio – ma occupazione, che può essere offerto solo da imprese in ampliamento
ed ammodernamento (quindi che investano).
Una riduzione del
perimetro della spesa di parte corrente, come ampiamente
documentato nel volume (in libreria da una settimana) di Francesco Forte Einaudi versus Keynes (IBL Libri, pp 340, € 20), lascia spazio per l’investimento pubblico
(passato dal 3,5% del Pil negli Anni Ottanta a meno dell’1%) scegliendo con
cura i singoli progetti. Il Piano Juncker sta offrendo un contributo. Occorre,
però, una politica pubblica diretta alle piccole e medie imprese che faciliti
l’ampliamento delle loro dimensione, la riduzione del loro indebitamento, il
pronto pagamento dei loro crediti nei confronti delle pubbliche
amministrazioni– premesse essenziali per la ripresa dei loro investimenti.
Occorre riconoscere che, in questi campi, Governo e Parlamento hanno iniziato
ad agire. Ma si è trattato di passi troppo timidi, a ragione forse di troppi
condizionamenti. E’ necessario spronarli a fare di più e di meglio.
09/04/2016
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