Esiste ancora una politica industriale?
Il commento dell'economista Giuseppe Pennisi
sull'ultimo libro di Franco Debenedetti
Per pura coincidenza temporale, il saggio di Franco Debenedetti (Scegliere i vincitori, salvare i perdenti. L’insana
idea di una politica industriale, Marsilio, pp. 335 €18) esce proprio mentre, da un lato, le cronache
politiche e giudiziarie trattano di episodi (veri e presunti) di intervento
pubblico particolaristico nella politica industriale e, da un altro, del Documento di Economia e Finanza (DEF) e del Programma Nazionale di Riforma (PNR)
impongono a Governo e Parlamento di porsi la domanda profonda e inquietante
nella copertina del volume: è “insana” l’idea stessa di politica industriale?
Il volume non è
stato concepito per la aule universitarie ed è stato scritto da un ingegnere
che ha guidato grandi industrie manifatturiere ed è stato parlamentare (anche
se non sempre ascoltato, come avrebbe meritato, proprio dalla parte politica
nei cui scranni sedeva). È, tuttavia, una delle migliori e più complete storie
economiche della politica industriale (e della politica economica vista
attraverso l’evoluzione della politica per la manifattura) apparse in questi
ultimi anni. Non è un manuale universitario; è una monografia che, dopo un ‘preludio’
sulla politica industriale del ventennio fascista, e un’introduzione su quella
dell’Italia del dopoguerra e dei decenni immediatamente a esso successivi,
esamina principalmente la politica industriale dalla crisi del 1992 ai giorni
nostri, soffermandosi sui maggiori settori ed esaminando in dettaglio
l’evoluzione della Cassa Depositi e Prestiti.
È una monografia ricca e documentata (oltre trenta pagine di note e indice
di autori citati) come uno studio universitario. Da essa si trae una distinta
impressione che, nonostante il passaggio degli anni, Il Governo
dell’Industria in Italia (Il Mulino, 1972) sia rimasto impiccione e pasticcione, come lo chiamò, nel
libro citato, Giuliano Amato venti anni prima
quella crisi del 1992 che, da Presidente del Consiglio, dovette gestire. Di
conseguenza, è quanto mai valido e attuale l’interrogativo se l’idea stessa di
politica industriale sia “insana”. E’ una domanda ancora più profonda ora che
nel 1972, perché siamo in anni di vacche magre, produttività rasoterra e alto
debito pubblico.
Una lettura
frettolosa del volume (scritto peraltro molto bene e tale da interessare il
lettore anche non specializzato) potrebbe indurre che la risposta sia netta e
positiva: lo Stato (e le Regioni) dovrebbero tenere le loro dita impiccione e
pasticcione lontano dalle politica industriale e lasciare l’industria al corso
naturale dell’economia. Tuttavia, in alcuni capitoli, paiono affiorare esempi
di interventi salutari dello Stato nell’industria, in certi momenti storici.
Il saggio contiene
un interessante capitolo sulla politica industriale della Germania,
specialmente negli anni tra le due guerre. Sarebbe stato utile un esame delle
proposte, specialmente francesi (Rapport Beffa, Rapport Gallois) per una
politica industriale europea volta all’innovazione. Il primo dei due documenti
ha avuto un certa eco in Italia ed è stato argomento di dibattito in varie
sedi. Il secondo non è stato citato neanche dai quotidiani economici. Sarebbe
stato anche utile uno sguardo alla politica dell’industria nell’età
giolittiana, quella dei primordi delle dita pasticcione e impiccione.
Nessun commento:
Posta un commento