OPERA/
"Mefistofele": il diavolo di Arrigo Boito arriva in provincia
Pubblicazione:
martedì 22 marzo 2016
Foto di Massimo
D'Amato
Approfondisci
NEWS Musica
Dopo
anni, anzi decenni, in cui “Mefistofele”, l’unica opera completata da Arrigo
Boito, sembrava definitivamente uscita dai cartelloni dei teatri italiani – la
sua seconda opera “Nerone” non era finita quando il compositore e poeta morì
nel 1918, nonostante ci avesse lavorato sin dal 1865 o giù di lì –, il lavoro
torna sui palcoscenici del nostro Paese. Nonostante sia di frequente allestito
all’estero, negli ultimi venticinque anni, in Italia “Mefistofele” è
stato visto ed ascoltato solo otto volte - alla Scala, a Genova, a
Macerata, a Roma, a Palermo e a Torino (dove peraltro non è stato curato un
nuovo allestimento, ma ne è stato importata una produzione del War Memorial
Opera di San Francisco). Si è avventurato nella intrapresa anche il piccolo
teatro Maruccino di Chieti ma solo per due sere e la produzione non ha trovato altri
sbocchi.
Uno
dei più noti critici dell’inizio del Novecento, Gustave Kobbé, autore di
una monumentale enciclopedia ancora periodicamente aggiornata, ha scritto
profeticamente che “Mefistofele” è “una delle opere più profonde del repertorio
lirico ed una delle più belle partiture mai scritte in Italia, pur se raramente
rappresentata nel Paese d’origine”. Più di recente, Guido Salvetti la ha
chiamata “inimitabile” ed ha sottolineato quanto Puccini e Giordano siano
tributari di questo “unicum ancor oggi problematico e controverso”.
Con
coraggio, il 18 marzo il Teatro Verdi di Pisa ha presentato un nuovo
allestimento che si vedrà anche a Lucca e a Rovigo e speriamo incoraggi altri
‘teatri di tradizione’. Una ragione normalmente presentata per spiegare i
rari allestimenti di ‘Mefistofele’ è l’enorme sforzo che richiedono in quanto
non solo l’organico orchestrale è smisuratamente mahleriano ma, oltre ad otto
solisti, ci vuole un coro di duecento voci (compresi i bambini), mimi e
frequenti cambiamenti di scema (dal Paradiso all’Inferno, dalla Germania tra
Medioevo e Rinascimento alla Grecia antica. Cosa spiega il ritorno di
“Mefistofele”?
Andiamo
con ordine, il dramma in musica di Boito – occorre ricordarlo a chi non ne ha
dimestichezza vista la rarità delle esecuzioni e la stringata discografia
trovabili in Italia – è l’unico, tra le tante opere ispirate dal “Faust” di
Goethe, che si pone l’obiettivo di mettere in musica sia la prima sia la
seconda parte degli oltre 12.000 versi; intende dare corpo non tanto
alla vicenda passionale trattata, ad esempio, da Gounod, (tra Faust,
ringiovanito grazie al patto con il diavolo Mefistofele, e l’innocente
Margherita) ma alla ricerca del significato della vita, da trovarsi grazie alla
Fede. E’ un lavoro monumentale in cui si spazia da un prologo in Cielo, alla
Germania del Medio-Evo, all’orgia dei diavoli all’Infermo, alla Grecia classica
per approdare alla catarsi finale. La versione iniziale (presentata alla Scala
nel 1868) durava circa sei ore; si esegue di norma quella rivista dallo stesso
Boito per Bologna (1875) di circa tre ore e mezzo. Rompe tutti i canoni
dell’opera italiana della seconda metà dell’Ottocento. La partitura è ardita
(specialmente se giudicata nel contesto dei teatri italiani del 1868-80,
dominati dal melodramma verdiano ed, anzi, dagli epigoni del Maestro di
Busseto).
E’
un vero e proprio strappo con una tradizione musicale allora isolata
dalle correnti europee; introduce nell’opera italiana lezioni tratte da
Beethoven e da Wagner, nonché da Chopin e da Schubert. Verdi lo capì e si
affidò a Boito per riscrivere, e ricomporre, “Simon Boccanegra” e per i suoi
due ultimi capolavori “Otello” e “Falstaff”. In effetti, mentre i francesi
(Gounod nell’opera “Faust” e Berlioz ne “La damnation de Faust”) hanno dato una
lettura perbenistica, ove non moralistica, del mito, il senso del capolavoro di
Goethe è stato colto bene nella sinfonica tedesca (la Faust symponie di
Liszt, l’Ouverture Faust di Wagner, l’Ottavia Sinfonia di Mahler), ma solo due
compositori italiani sono riusciti, in modo molto differente, a portarlo in
scena recependo alcuni dei messaggi essenziali del poeta di Weimar: Arrigo
Boito, per l’appunto, con “Mefistofele” (nel 1868-1875) e Ferruccio Busoni in
“Doktor Faust” (nel 1925), tratto, peraltro, da Marlowe piuttosto che da
Goethe.
Tuttavia, non solo lo “scapigliato” Arrigo Boito (leader del
movimento culturale milanese che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del
Novecento faceva riferimento alla “Scapigliatura” come elemento che lo contraddiceva
dall’intellighenzia dominante) ha avuto l’ambizione di ridurre in teatro in
musica il succo del capolavoro di Goethe ma lo ha intitolato non al vecchio
scienziato, Faust, che stringe un patto con il diavolo, ma al dèmone:
Mefistofele.
Non si tratta di un mero sotterfugio editoriale.. C’è qualcosa di
più sottile e di più profondo: dipingere le due anime di Mefistofele (e
dare loro significato universale astorico), così come Goethe era penetrato
nelle due anime di Faust (ed aveva dato loro significato universale ed
astorico). In un passaggio importante del lavoro di Goethe, peraltro, non
ripreso in nessuna delle versioni in dramma in musica, Faust parla (ed a lungo)
delle sue due anime che lo tirano in due direzioni opposte e non conciliabili.
Boito, rivoluzionario come lo può essere un conservatore della Destra storica
(legato, inoltre, per un decennio ad Eleonora Duse) nell’epoca in cui, prima,
si preparava e, poi, si attuava, il trasformismo dei Governi Depetris, vuole
invece scavare nelle due anime di Mefistofele: il più bello, il più
intelligente, il più ambizioso degli angeli, respinto dal Cielo perché sfida
Dio (prologo), ed impegnato a dannare il più saggio degli uomini, Faust,
portandolo a sedurre la più innocente delle donne, Margherita, ed a partecipare
alla più sfrenata delle orge (primo e secondo atto), a farla condannare al
patibolo per matricidio ed infanticidio (terzo atto), a dargli la possibilità
di fornicare con la più avvenente e più peccaminosa delle regine, Elena di
Troia (quarto atto). E’, però, distrutto – anzi annientato- dal
pentimento di Faust e dalla commiserazione celeste (epilogo).
Scavare nelle due anime di Mefistofele – una tesa versa una
bellezza ed un’ambizione che si trasformano da Bene in Male proprio perché
senza freni e senza limiti, ed una tesa invece verso la corruzione (altrui) e
verso la dannazione eterna (propria) - ha aspetti sia filosofici sia politici
ed economici.
Sotto il profilo filosofico – lo dicono bene il musicologo
americano Gwin Morris ed il basso Norman Triegle in scritti dell’inizio degli
Anni 70, quando “Mefistofele” venne allestito dalla New York City Opera in una
produzione con un successo da fare impallidire Broadway e da essere portata in
tournée in diversi Stati dell’Unione - “Mefistofele” vuole rappresentare
l’eterna tensione tra il Bene ed il Male, con la vittoria finale del primo;
anche “Nerone” riprendeva questo tema giustapponendo la decadenza romana con
l’alba del Cristianesimo.
L’allestimento di “Mefistofele”, difficilissimo su un grande
palcoscenico, è temerario in un teatro di medie o piccole dimensioni. Il
Teatro Verdi di Pisa, il cui boccascena ha una larghezza massima di circa
13 metri, ne propone una edizione ‘trasportabile’. L’enorme organico
orchestrale, diretto da Franesco Pasqualetti, è ospitato non solo in buca ma
anche nei palchi di proscenio.
Il Coro Lirico Toscano è affiancato da complessi locali; in scena
ci sono ben duecento coristi. La regia è affidata a Enrico Stinchelli, ideatore
anche delle scene di Biagio Fersini; grande uso di proiezioni computerizzati.
Teatro stracolmo la sera della ‘prima’ a Pisa dove “Mefistofele”non
andava in scena da oltre quaranta anni. L’allestimento dimostra che questo
affascinante ma straripante grand-opéra padano (ispirato più al wagnerismo che
alla scuola francese).
Sotto il profilo musicale, il basso Giacomo Prestia
(frequente protagonista di opere verdiane) debutta con successo nel ruolo di
Mefistofele, grazie alla sua abilità anche attoriale. Merita di essere seguita
il giovane soprano Valeria Sepe, il cui L’altra notte in fondo al mare è
stato di altissimo livello. Antonello Palombi è un Faust di volume generoso ma
la sua emissione ha due momento di incertezza, al primo atto e nell’ultimo.
Dopo circa quattro ore in teatro, quindici minuti di ovazioni.
Soprattutto, lo spettacolo mostra che con qualche sforzo e molta
inventiva ‘Mefistofele’ può essere allestito e circuitato in teatri di
tradizione, spesso chiamati di provincia. In questi anni è proprio in quei
teatri si fondono meglio innovazione e tradizione.
© Riproduzione Riservata.
Nessun commento:
Posta un commento