FINANZA E POLITICA/ Le
"grane" pronte per Draghi
Pubblicazione:
lunedì 7 marzo 2016
Mario Draghi (Infophoto)
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NEWS Economia e Finanza
Quando
giovedì prossimo il Consiglio della Banca centrale europea si riunirà è
auspicabile che i banchieri centrali nazionali e l’Esecutivo Bce facciano una
riflessione profonda sul Quantitative easing e sulla capacità della leva
monetaria di rimettere in moto da sola l’economia dell’eurozona, in particolare
quella dei Paesi mediterranei.
Poco più di
un mese fa la Commissione europea ha pubblicato le previsioni invernali per
l’eurozona. Potevano sembrare dati positivi: una crescita dell’1,7% per il 2016
rispetto a una del 1,6% per il 2015 - quindi appena un decimo di percentuale in
più. L’Italia - lo dice a tutto tondo un documento della Commissione datato 26
febbraio - resterebbe, dopo la Grecia, il fanalino di coda dell’eurozona,
avviluppata in problemi di bassa crescita, produttività stagnante e alto debito
che non sembra essere in grado di affrontare.
Il Qe ha
senza dubbio evitato il tracollo di alcuni grandi istituti bancari europei, ma
il suo “morso” sulla crescita reale della produzione e dell’occupazione è stato
poco significativo, dato che lo sviluppo dell’eurozona resta pallido e gli
ultimi dati Istat (4 marzo) dipingono un Italia sul punto di scendere in
deflazione. Perché? L’editoriale del settimanale The Economist del 27
febbraio-4 marzo tratteggia l’Ue come una Torre di Babele in cui sui punti
cruciale - sia interni (Brexit, Grexit, revisione del Fiscal compact e via
discorrendo) - sia esterni - migrazioni in primo luogo - i singoli Stati e
gruppi di Stati sono per un’Unione non sempre più stretta, ma in cui Stati e
gruppi di Stati sono sempre più distanti.
Ricordo un
saggio, ancora molto utile che Giuseppe Prezzolini, esule negli Stati Uniti,
pubblicò nel 1948 negli Stati Uniti intitolato “The Legacy of Italy” (L’eredità
dell’Italia) con l’intento sia commerciale (ossia di guadagnare diritti
d’autore), sia di far conoscere il Bel Paese all’America. Una decina di anni
dopo il libro, snello e acuto, venne pubblicato in italiano da Vallecchi con un
titolo più pungente: “L’Italia è finita: ecco quel che resta”. In questi
ultimi mesi ci siamo spesso chiesti se non sia il caso di fare un bilancio
dell’Ue, quale concepita dai “padri fondatori”: un accordo di un numero
limitati di Stati, ma con economie convergenti verso una costruzione politica
federale oppure, quanto meno, confederale.
Un saggio di
Yannis Karagiannis dell’Istituto di Barcellona di Studi Internazionali, apparso
sull’ultimo numero del Journal of Common Market Studies, una
delle più antiche e più qualificate riviste sull’integrazione europea, pone
correttamente il problema sin dal titolo: “The Origins of the Common
Market: Political Economy versus Hagiography”. L’analisi documentaria di
Karagiannis dimostra che i “padri fondatori” avevano obiettivi più ristretti di
quelli del federalista “Manifesto di Ventotene”. Pensavano a un’unione
funzionalista degli Stati che si bagnavano sulle due rive del Reno e di
pochissimi altri; utilizzando insieme risorse comuni per l’industria pesante e
liberalizzando i commerci (con l’eccezione dell’agricoltura) si sarebbero
impedite nuove guerre tra Francia e Germania che avevano insanguinato l’Europa
per decenni.
Schuman,
Adenauer e De Gasperi diedero alle idee tecnocratiche loro uno spessore
politico. Tuttavia, l’unica “politica comune” allora immaginata, su richiesta
di Parigi, era quella agricola per il peso che il settore aveva in Francia e
per la forma particolare di protezionismo francese del comparto. Nessuno di
loro pensava a un’Ue a 28 Stati o a una moneta unica. Solamente De Gaulle
parlava di “un’Europa dall’Atlantico agli Urali”, un accordo molto flessibile e
in funzione di quello che il Presidente francese pensava fosse un modo di
equilibrare quello che considerava lo “strapotere” degli Usa. Il resto, sostiene
Karagiannis, è “euromitologia”.
È sotto gli
occhi di tutti il probabile, piuttosto che eventuale o possibile, sgretolamento
dell’Ue a 28. Sotto il profilo economico, siamo da quindici anni alle prese con
un gruppo di Paesi che affonda nelle stagnazione ed è spesso ai bordi della
deflazione: il consenso generale è che un’unione monetaria prematura e forse
mal concepita sia alla base della divergenza che ha rimpiazzato la convergenza
agognata dai “padri fondatori”. Sotto il profilo politico, la risposta alle
migrazioni dal Nord Africa e dal Medio Oriente indicano che le differenze di
valori si sono accentuate, come dimostrato da vari studi di Luigi Guiso (il più
recente è il Chicago Booth n.15/23 scritto con Paola Sapienza e Luigi
Zingales). In numerosi Paesi dell’Ue, infine, si rafforzano movimenti e partiti
anti-europei che vorrebbero rinegoziare il Trattato di Maastricht e lo stesso
Trattato di Roma.
Stanno
crescendo le probabilità che uno degli Stati più importanti dell’Ue, la Gran
Bretagna, dica, dopo un referendum, addio all’Unione ove nonostante il resto
degli Stati abbiano concesso profonde riforme nella sua governance nel
senso di una drastica riduzione delle funzioni e dei poteri della Commissione
europea, di un rafforzamento di quelli del Parlamento europeo e di
un’evoluzione verso accordi intergovernativi anche a geometria variabile.
In questo
contesto, occorre ragionare seriamente sui limiti della politica monetaria e se
sia saggio avere una politica monetaria comune se diverge non solo sugli obiettivi
e sulle strategie ma anche sui valori. Ciò non significa che il “tagliando” al
Qe debba concludersi con la definizione di un percorso per
sciogliere gradualmente l’eurozona (come avvenuto per quasi tutte le unioni
monetarie nate dopo la fine della Seconda guerra mondiale), ma con un invito a
mettere in atto politiche e strategie di convergenza economica. Dato che “i
valori” sono connaturati a ciascuna società e non possono essere né imposti, né
pilotati.
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