Il
ritorno del diabolico “Mefistofele”
Dopo
anni, anzi, decenni in cui “Mefistofele”- l’unica opera completata da Arrigo
Boito - sembrava definitivamente uscita dai cartelloni dei teatri
italiani, la sua seconda opera “Nerone” torna sui palcoscenici del nostro
Paese. L’opera non era finita quando il compositore e poeta morì nel 1918,
nonostante ci avesse lavorato sin dal 1865, o giù di lì. Nonostante sia
frequente l’allestimento all’estero negli ultimi venti anni, in Italia
“Mefistofele” è stato visto ed ascoltato solo una decina di volte:
alla Scala, Genova, Macerata, Torino (dove peraltro non è stato curato un nuovo
allestimento, ma ne è stato importata una produzione del War Memorial Opera di
San Francisco), Chieti, Palermo, Ravenna e Roma. Nel 2005, Riccardo Muti
ne ha diretto una versione in forma di concerto al Ravenna Festival e nel 2009
Antonio Pappano ha presentato il “Prologo in Cielo” nella stagione dei
concerti dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Uno dei più noti
critici dell’inizio del Novecento, Gustave Kobbé, autore di una
monumentale enciclopedia ancora periodicamente aggiornata, ha scritto
profeticamente che “Mefistofele” è “una delle opere più profonde del
repertorio lirico ed una delle più belle partiture mai scritte in Italia, pur
se raramente rappresentata nel Paese d’origine”. Più di recente, Guido
Salvetti l’ha chiamata “inimitabile” ed ha sottolineato quanto Puccini
e Giordano siano tributari di questo “unicum ancor oggi problematico
e controverso”.
L’allestimento
di “Mefistofele”, difficilissimo su un grande palcoscenico, è temerario
realizzarlo in un teatro con un boccascena di nove metri. La fortuna, però,
aiuta gli audaci.
Una
nuova edizione è in arrivo a Pisa, Lucca e Rovigo. Lo spettacolo è firmato da Enrico
Stinchelli (con la regia e l’ideazione delle scene di Biagio
Fersini) e vede tornare sul podio del Verdi il Francesco Pasqualetti.
Di
notevole livello il cast, a partire dai tre protagonisti: il basso Giacomo
Prestia, artista di grande esperienza e autorevolezza, celeberrimo in
particolare per le sue interpretazioni verdiane, per la prima volta nei panni
di “Mefistofele”; il tenore Antonello Palombi, fra i più considerati
tenori drammatici, che già fu a Pisa applaudito protagonista dell’”Otello”
verdiano firmato dallo stesso Enrico Stinchelli, e qui nel ruolo di Faust;
il soprano Valeria Sepe, interpreta il ruolo di Margherita. I soprani
Elisabetta Farris (venerdì) e Alice Molinari si alternano
nel ruolo di Elena, i mezzosoprani Sandra Buongrazio e Moon
Jin Kim sono rispettivamente Marta e Pantalis, il tenore
brasiliano Sergio Dos Santos interpreta i ruoli di Wagner e di Nerèo.
Cosa
spiega il ritorno di “Mefistofele”, in questo primo scorcio di XXi secolo? Le
determinanti musicali relative alla riscoperta del capolavoro perduto, o
secondo alcuni “maledetto”, si accavallano su determinante politiche ed
economiche.
Andiamo
con ordine: il dramma in musica di Boito – occorre ricordarlo a chi non
ne ha dimestichezza vista la rarità delle esecuzioni e la stringata discografia
trovabili in Italia – è l’unico, tra le tante opere ispirate dal “Faust” di Goethe,
che si pone l’obiettivo di mettere in musica sia la prima sia la seconda parte
degli oltre 12000 versi; intende dare corpo non tanto alla vicenda passionale
trattata, ad esempio, da Gounod, (tra Faust, ringiovanito grazie
al patto con il diavolo Mefistofele e l’innocente Margherita),
ma alla ricerca del significato della vita, da trovarsi grazie alla
Fede. È un lavoro monumentale in cui si spazia da un prologo in
cielo, alla Germania del Medio-Evo, all’orgia dei diavoli all’Infermo, alla
Grecia classica per approdare alla catarsi finale. La versione iniziale
(presentata alla Scala nel 1868) durava circa sei ore; si esegue di norma
quella rivista dallo stesso Boito per Bologna (1875) di circa 3 ore e
mezzo, intervalli compresi. Rompe tutti i canoni dell’opera italiana della
seconda metà dell’Ottocento. La partitura è ardita (specialmente se giudicata
nel contesto dei teatri italiani del 1868-80, dominati dal melodramma verdiano
ed, anzi, dagli epigoni del Maestro di Busseto). È un vero e proprio
strappo con una tradizione musicale allora isolata dalle correnti
europee; introduce nell’opera italiana lezioni tratte da Beethoven e da Wagner,
nonché da Chopin e da Schubert. Verdi lo capì e si affidò
a Boito per riscrivere, e ricomporre, “Simon Boccanegra” e per i suoi
due ultimi capolavori “Otello” e “Falstaff”. In effetti, mentre i francesi (Gounod
nell’opera “Faust” e Berlioz in “La damnation de Faust”) hanno
dato una lettura perbenistica, ove non moralistica, del mito. Il senso del
capolavoro di Goethe è stato colto bene nella sinfonica tedesca
(la “Faust symponie”di Liszt, l’Ouverture “Faust” di Wagner,
“l’Ottavia Sinfonia” di Mahler), ma solo due compositori italiani
sono riusciti, in modo molto differente, a portarlo in scena recependo alcuni
dei messaggi essenziali del poeta di Weimar: Arrigo Boito, per
l’appunto, con “Mefistofele” (nel 1868-1875) e Ferruccio Busoni
in “Doktor Faust” (nel 1925), tratto, peraltro, da Marlowe piuttosto che
da Goethe.
Tuttavia,
non solo lo “scapigliato” Arrigo Boito (leader del movimento culturale
milanese che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento faceva
riferimento alla “Scapigliatura” come elemento che lo contraddiceva
dall’intelligentsia dominante) ha avuto l’ambizione di ridurre in teatro in
musica il succo del capolavoro di Goethe ma lo ha intitolato non al
vecchio scienziato, Faust, che stringe un patto con il diavolo, ma al
dèmone: Mefistofele. Non si tratta di un mero sotterfugio editoriale – dato che
il “Faust” di Gounod e “La Damnation de Faust” di Berlioz
circolavano nei teatri europei. C’è qualcosa di più sottile e di più
profondo: dipingere le due anime di Mefistofele (e dare loro significato
universale astorico), così come Goethe era penetrato nelle due anime di Faust
(ed aveva dato loro significato universale ed astorico). In un passaggio
importante del lavoro di Goethe, peraltro, non ripreso in nessuna delle
versioni in dramma in musica, Faust parla (ed a lungo) delle sue due
anime che lo tirano in due direzioni opposte e non conciliabili. Boito,
rivoluzionario come lo può essere un conservatore della Destra storica (legato,
inoltre, per un decennio ad Eleonora Duse) nell’epoca in cui, prima, si
preparava e, poi, si attuava, il trasformismo dei Governi Depetris, vuole
invece scavare nelle due anime di Mefistofele: il più bello, il più intelligente,
il più ambizioso degli angeli, respinto dal Cielo perché sfida Dio (prologo),
ed impegnato a dannare il più saggio degli uomini, Faust, portandolo a
sedurre la più innocente delle donne, Margherita, ed a partecipare alla
più sfrenata delle orge (primo e secondo atto), a farla condannare al patibolo
per matricidio ed infanticidio (terzo atto), a dargli la possibilità di
fornicare con la più avvenente e più peccaminosa delle regine, Elena di
Troia (quarto atto). È, però, distrutto – anzi annientato- dal
pentimento di Faust e dalla commiserazione celeste (epilogo).
Scavare
nelle due anime di Mefistofele – una tesa versa una bellezza ed
un’ambizione che si trasformano da Bene in Male proprio perché senza freni e
senza limiti, ed una tesa invece verso la corruzione (altrui) e verso la
dannazione eterna (propria) – ha aspetti sia filosofici sia politici ed
economici.
15/03/2016
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