LE BUONE TASSE E LE BUONE PENSIONI
Giuseppe
Pennisi
Premessa
Quando sono stato invitato a questo
convegno, stavo concludendo un libro su La
Buona Spesa- Dalle opere pubbliche alla spending review- Una Guida Operativa ,
in uscita in questi giorni nelle edizioni del Centro Studi Impresa Lavoro, di
cui presiedo il comitato scientifico. Riflettendo sulla ‘buona spesa’, in una ideale ‘Agathotopia’ , una società nè ideale nè
mitica dove ‘si sta bene’- alla mia età è meglio dedicarsi a guide operative che a lavori con pretese
scientifiche - mi è venuto quasi automatico pensare che le buone pensioni possono essere il risultato non solo di buona spesa ma anche di buona tassazione. Vi ringrazio, quindi,
per darmi l’opportunità di condividere con voi queste riflessioni.
L’oppressione
fiscale è l’esatto contrario di una buona tassazione.
Un quarto di secolo fa, l’allora Vice
Direttore Generale della Banca d’Italia Pier Luigi Ciocca nella prefazione alla
raccolta di saggi ‘Disoccupazione di Fine
Secolo’ (Bollati Boringhieri,1997) documentava che in mondo in cui il Nord
America ha un carico tributario attorno al 30% del Pil ed i Paesi asiatici
emergenti del 20% del Pil, con il nostro 46% di allora,l’Europa rischiava
un declino sempre più grave e la
disoccupazione di massa sempre più lunga. Più o meno nello stesso periodo, Lee Buchleit, l’esperto, che per
conto dello studio legale internazionale Cleary, Gottfield, Steel &
Hamilton, ha contribuito a risolvere i nodi del debito sovrano in numerosi
Stati dell’America Latina, afferma che l’Europa si è messa sulla corsia sbagliata: “Occorrono misure per
alleggerire il debito, fornire nuovi finanziamenti e promuovere la crescita
riducendo al tempo stesso la pressione fiscale”.
In questi anni, invece, di ridurre pressione ed
oppressione tributaria , l’Italia è giunta ad un total tax rate del 65,4% sulle imprese, il più alto al mondo (se
non si tiene conto di Paesi come la Corea del Nord e simili). Siamo diventati
uno di quegli Stati ‘estrattivi’ che estraggono tasse e sangue dei loro
cittadini con il risultato di impoverirli sempre di più Lo spiega chiaramente
un saggio americano, Why nations fail: The origins of
power, prosperity, and poverty (Perché
le nazioni falliscono: Le origini del potere, della prosperità e della povertà)
di Daron Acemoglu e James
Robinson – hanno trattato dell’Italia come esempio da non seguire
e destinato, se non c’è un cambiamento profondo, al fallimento finanziario,
economico, politico e sociale. Il libro di Acemoglu (un economista in odore di
Nobel) e Robinson (uno dei maggiori scienziati della politica su piazza) è da quattro
anni in testa ai bestseller in America e da oltre un anno è disponibile in
traduzione italiana. Anche se gli Stati Uniti hanno un sistema tributario più
‘leggero’ di quello italiano, lo stesso Governo Obama ha allo studio nuove riduzioni di imposte sulle
imprese . come illustrato dall’analisi di Edward Kleinbard pubblica in questi
giorno come USC Law Legal Studies Paper N0. 15-5.
La pressione si accompagna con una
crescente oppressione fatta di adempimenti continui e sempre più complicati che
richiedono anche al contribuente a reddito medio basso e lavoratore dipendente
ricorso continuo a professionisti. Aumentando, così, il costo degli adempimenti in termini di tempo
e denaro. Nei 18 anni in cui ho vissuto a Washington completavo in una serata
la dichiarazione federale dei redditi ed in un’oretta quella del Distretto di
Columbia, Ritornato in Italia, mi sono dovuto rivolgere a contabili e
commercialisti per orientarmi in un labirinto kafkiano.
La storia della riduzione e semplificazione della fiscalità mostra che per
avere successo esse devono essere preceduti da prese di posizione teoriche e da
forti campagne politiche. Non solo o principalmente dal lamento del Presidente
del Consiglio di essere stato “lasciato solo” a volere la riduzione delle
imposte. Forse per aiutarlo ad uscire dalla solitudine può servire la ricerca
di un più solido fondamento analitico al progetto. Tanto più che in Italia non
si propone più un ragionamento analogo a quello della “curva di Laffer” di
circa un quarto di secolo fa quando, sulla base delle ipotesi dell’economista Arthur
Laffer, Ronald Reagan e Margaret Thatcher ridussero scaglioni ed aliquote
argomentando che ne sarebbe risultato un impulso all’economia tale da più che
recuperare, nell’arco di pochi anni, la perdita temporanea di gettito.
L’assunto, ma non è detto che chi governa la pensi così, potrebbe essere ben
differente. E potrebbe riassumersi nel proposito un po’ crudo di “affamare la bestia” (ossia la macchina
pubblica) allo scopo di ridurre il disavanzo. E così permettere un calo
sostenibile delle imposte. L’espressione “affamare la bestia” la dobbiamo a
Jonathan Baron, professore di psicologia alla University of Pennsylvania, e
Edward J. McCaffery, docente di economia applicata al California Institute of
Technology. La troviamo in un loro recente saggio (“Starving the beast: the psychology of budget deficits”- “Affamare
la bestia: la psicologia dei deficit di bilancio”).
Baron
e McCaffery appartengono ad un filone relativamente nuovo della finanza
pubblica, quello che coniuga economia quantitativa e psicologia. Nel lavoro
citato non hanno solamente elaborato un elegante modello per mostrare con una
serie di algoritmi come riducendo il gettito si finisce con fare dimagrire la
macchina della spesa pubblica, hanno anche effettuato due esperimenti con la
complicità del web. La grande maggioranza degli intervistati si è detta ben
lieta di tagli alla pressione ed all’oppressione tributaria ed alla spesa
pubblica in modo, però, che complessivamente i conti quadrino; non è stata,
però, in grado di esprimere quali programmi di spesa tagliare. Di conseguenza,
– argomentato Baron e McCaffery – se l’elettorato è in favore di conti pubblici
in regola, una strategia basata sul ridurre le razioni di cibo al pachiderma
può avere successo. E’ una ricetta che potrebbe avere esiti positivi in Italia,
dove si è avvezzi non solo ai disavanzi pubblici ma anche alla crescita dello
stock di debito senza curarsi troppo di chi lo pagherà e quando? Una seria spending review farebbe funzionare
meglio la macchina pubblica ed incoraggerebbe i cittadini a non evadere od
eludere in quanto crescerebbe la consapevolezza dei servizi ricevuti dalle
pubbliche amministrazioni.
In un altro lavoro, McCaffery, questa volta a
quattro mani con Joel Slemrod della Michigan Business School traccia un vero e proprio
manifesto per una finanza pubblica coniugata con la psicologia per affrontare i
maggiori nodi di politica economica; in società dove poco peso si è sempre dato
alle quadrature dei bilanci pubblici (e non solo), affamare la bestia può essere una strategia tutt’altro che
appropriata se non inserita in un’attenta rivisitazione della spesa con una
chiara scelta delle priorità delle varie voci in base al loro rendimento
‘sociale’, ossia alla collettività, come meglio dettaglio nella Guida operativa citata.
La buona previdenza. Così come lo
sviluppo dello stato sociale (ed in particolare della previdenza sociale) sono
stati uno dei tratti fondanti delle politiche economiche del 20simo secolo, il
riassetto dello stato sociale in generale (e delle pensioni in particolare)
sono uno degli aspetti fondamentali di quelle del 21simo secolo. In effetti,
l’80% dei 30 Paesi ad alto reddito medio
che fanno parte dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico
(Ocse) ed il 75% dei 184 Paesi membri della Banca Mondiale sono coinvolti in
sequenze, più o meno lunghe o più o meno complesse, di riassetto della
previdenza. Un numero crescente sta adottando, per la “gamba” pubblica dei loro
sistemi previdenziali, meccanismi “a contributi definiti” (nel lessico
internazionale “Notional defined contribution systems – NDCs) iniziati, in via
pionieristica, dall’Italia e dalla Svezia alla metà degli Anni 90 – ossia
metodi in cui le prestazioni sono basate sul montante dei contributi versati.
Box
COSA SONO I NDCs
I sistemi
previdenziali chiamati Ndcs sono sistemi “a ripartizione”, in cui le
prestazioni ai pensionati, quindi, sono finanziate dai lavoratori attivi; il
calcolo delle spettanze non è basato sulle retribuzioni percepite ma sui
contributi versati tramite formule più o meno complesse per computare i
versamenti in un montante in conto capitale e trasformarlo, quindi, in rendita
annuale. Per questa ragione, i Ndcs vengono anche chiamati “a capitalizzazione
virtuale” o “simulata”. L’Italia e la Svezia sono stati i primi due Paesi ad
introdurre sistemi previdenziali di questa natura. Ora sono stati adottati, od
in corso di adozione, in una ventina di Paesi. Un saggio recente del Vice
Presidente della Banca Mondiale, Robert Holzmann, preconizza che il metodo Ndc
è l’unico fattibile per dare una base comune ai differenti sistemi in vigore
nell’Unione Europea.
Le riforme della
previdenza coinvolgono l’intera politica economica poiché, nei Paesi ad alto
reddito medio, la spesa per lo stato sociale assorbe tra un quarto ed un terzo
della spesa pubblica totale; a sua volta, la spesa per la previdenza varia tra
la metà ed il 70% della spesa sociale. Dunque, misure che incidono sulla spesa
previdenziale hanno effetti sia sull’intero andamento della spesa pubblica sia
sulla sua allocazione per obiettivi e tra comparti. Anche se nei dibattiti sulle riforme della previdenza l’accento
viene posto sulla “sostenibilità”, in termini di finanza pubblica, ancora più importanti sono gli aspetti in
termini di economia reale – ossia dell’incidenza dei differenti sistemi
previdenziali in termini di consumi, risparmi ed investimenti, di ripartizione
del reddito tra categorie e generazioni, di costo del lavoro e, quindi, di
occupazione e di competitività. Di conseguenza, le riforme delle pensioni sono
non un tassello ma uno degli elementi centrali delle politiche economiche di
questo primo scorcio di 21simo secolo. In breve, esse si presentano come lo
snodo delle politiche economiche di questi anni.
Per decenni, i
riformatori hanno utilizzato come un breviario un libro del socio-economista
Albert O. Hirschman , intitolato “Come
far passare le riforme” (Il Mulino, Bologna 1990) basato su saggi
pubblicati all’estero alla fine degli Anni 80. Ciò riguardava anche lo stato
sociale e la previdenza. La proposta
centrale era di costruire una coalizione di riformatori sulla base di
una “valutazione economica condivisa”. In effetti, quando Hirschman tracciava
la strada per una valutazione economica condivisa si era in quella che si può
chiamare l’”età dell’oro” della valutazione e di singoli progetti di intervento
pubblico e di politiche. A cavallo tra la fine degli Anni 60 e l’inizio
degli Anni 70, l’Ocse e l’Unido pubblicarono due manuali fondamentali che aprirono
nuove strade operative e vennero recepiti dal Fondo Monetario, dalla Banca
Mondiale, dalle Banche regionali di sviluppo che li incorporarono nelle loro
prassi operative; i canoni principali del metodo vennero adottati anche nei
Paesi “a socialismo reale”. Il contributo della manualistica è
stato non teorico ma operativo; da
premesse teoriche molto solide , quelle della “nuova economia del benessere”,
si giungeva a due innovazioni operative
di rilievo: a) individuare il mercato internazionale come riferimento per il
calcolo del costo opportunità di un bene o servizio per la collettività; b)
derivare, dai documenti di politica economica di governo, “parametri nazionali” per sintetizzare obiettivi e vincoli di
politica economica. La metodologia ipotizzava che Governi e Parlamenti avessero
gli strumenti per pilotare le politiche economiche verso obiettivi
specifici, veniva generale chiamata
“analisi dei costi e dei benefici sociali” ed aveva come finalità quello di
valutare efficienza ed efficacia di risultati dell’ intervento pubblico.
Box
L’analisi dei
costi e dei benefici sociali delle politiche
L’analisi dei
costi e dei benefici sociali esamina un progetto od una politica dal punto di
vista della collettività nel suo complesso non dei singoli soggetti (individui,
famiglie ed imprese) in esso coinvolti. Utilizza una strumentazione semplice –
analoga al” conto profitti e perdite” aziendale – per giungere, tramite una
serie di aggiustamenti alle voci contabili ed ai valori (ossia ai prezzi), a stime dei costi e dei benefici per la collettività.
Il metodo è anche un sistema integrato di documentazione- quindi, molto
trasparente- in cui voci e valori possono essere cambiati agevolmente al mutare
delle ipotesi. Viene adottato, in vario grado, dalle maggiori istituzioni
finanziarie internazionali e da due terzi delle pubbliche amministrazioni dei
Paesi Ocse per vagliare progetti ed in alcuni casi politiche. Si può applicare,
però, solo a interventi pubblici che non incidono sulla struttura di produzione.
Inoltre, fornisce risposte di accettazione e rigetto; non consente, quindi, di
fare graduatorie.
All’inizio degli Anni 90 cominciò il tramonto
della metodica condivisa per la valutazione economica delle politiche
pubbliche. Le ragioni sono state molteplici. Alcune, a carattere tecnico,
concernono le difficoltà dell’analisi dei costi e dei benefici sociali di
risolvere certi aspetti tecnici puntuali. Altre, più pertinenti ai nostri fini,
riguardano il mutamento del contesto generale socio-politico – da un quadro in
cui i rischi potevano essere stimati facendo ricorso al calcolo delle
probabilità, ad un quadro in cui, soprattutto dopo l’11 settembre 2001 e più di
recente dopo il dilagare di guerre e terrorismo di matrice medio orientale,
l’incertezza da mutamenti del tutto inattesi è l’elemento chiave. La
“valutazione economica condivisa” ha perso gradualmente terreno rispetto ad
altre discipline a carattere organizzativo ed alla strumentazione ad essa
attinente – quale il “quadro logico” e l’”analisi multicriteri” - che danno
relativamente poco peso ai risultati attesi in termini in termini di risorse
economiche (non solo finanziarie) e di benefici per la collettività. E’ ora in corso una revisione profonda non
solo per risolvere aspetti tecnico-procedurali irrisolti, ma soprattutto per
tenere conto dell’incertezza, elemento di grande rilievo in un’epoca in cui, a
ragione dell’integrazione economica internazionale, si riduce l’efficacia e
l’incidenza delle leve tradizionali delle politiche della moneta, del bilancio
pubblico e dei prezzi e dei redditi.
La
letteratura più recente sulla valutazione economica è indicativa di una
rivoluzione silenziosa in atto. Essa riguarda la concezione del mercato - visto
non come luogo in cui vari soggetti (individui, famiglie, imprese, pubblica
amministrazione, il resto del mondo) si
scambiano fattori di produzione, beni e servizi ma in cui l’oggetto della
contrattazione sono i “titoli”, i “diritti”, i “contratti”. Viene rivalutata la
scuola di “Law and Economics” (ossia di analisi economica del diritto e, di
converso, di analisi giuridico-istituzionale dell’economia). In questo
contesto, la “capacitazione” – ossia la capacità potenziale a fruire di “titoli” e di
“diritti”- ed il “valore di non
uso” – ossia la facoltà di detenere
“titoli” ed i “diritti” per
utilizzarli in futuro – assumono un ruolo crescente sia della stima del valore
sia della creazione di valore. Le pensioni future sono “titoli” il cui valore
cambia a ragione di una vasta gamma di determinanti – alcuni in parte sotto il
controllo di Governi e Parlamenti, altri puramente dipendenti dall’andamento
dei mercati. Pure le pensioni in essere sono “titoli” il cui valore varia a
ragione e di atti politici e di andamenti economici e finanziari. La “ricchezza
previdenziale contingente” di ciascuno è funzione dei “titoli” previdenziali
che detiene in un determinato momento e di come li impiega. In un mercato di “titoli” hanno un ruolo
centrale le “opzioni”: un’opzione è la facoltà, non l’obbligo, di acquistare
(in tal caso di parla di opzione “call”)
o di vendere (opzione “put”)
un’attività ad essa sottostante. Ciò riguarda non solamente i mercati
finanziari ma anche le attività reali
specialmente in campi in cui le decisioni (ad esempio quella di fruire di un
pensionamento anticipato) sono irreversibili.
Tra gli Anni 90 del secolo scorso ed il primo quindicennio di questo
secolo, l’estensione dell’analisi costi benefici alle “opzioni” ha avuto un
vasto sviluppo analitico, nonché applicazioni pratiche rivolte alla valutazione
di grandi progetti d’investimento (ad esempio, l’eutunnel sotto la Manica, la
alta velocità Torino-Lione, la rete aeroportuale nel Nord Europa), di programmi
con componenti di investimento (la transizione da televisione analogica a digitale
terrestre) e politiche economiche più generali (come la politica di tasso di
cambio fisso agganciato al dollaro Usa seguita dall’Argentina).
Dato che si tiene conto non
soltanto dei costi e dei benefici dei
risultati attesi di una politica ma anche delle “opzioni” sia positive sia
negative che essa comporta, è dunque, essenziale definire con chiarezza sia gli
stakeholder sia le “opzioni”. Di tutte le “opzioni” possibili, almeno una viene
distrutta – in gergo “bruciata” – quando la politica viene attuata. La riforma della previdenza è un’opzione
“call” in quanto fornisce al Paese, ad un costo, il “titolo”ad “un sottostante” – i benefici della riforma
nonché tutte le “opzioni” ad essa connessa. Il “valore” di ciascuna opzione
dipende, a sua volta, dalla data entro la quale essa deve essere esercitata e
dal percorso per arrivarvi, nonché dal tasso di sconto e della volatilità dei mercati; a loro
volta, queste ultime variabili dipendono
da una vasta gamma di determinanti. Naturalmente, ciascuna parte in causa
(lavoratori attivi suddivisi per fasce di età, pensionati, imprese, nuove
generazioni, e così via) non soltanto il Paese, ha a che fare con una serie di
“opzioni” positive o negative che vengono aperte o “bruciate” dalla politica di
riforma. Per ciascuna parte in causa, il “valore” della riforma varia a seconda
dei “titoli” la cui valutazione aumenta o diminuisce a ragione delle
caratteristiche specifiche della riforma
medesima.
La letteratura approfondisce in
dettaglio questi punti e l’esigenza di sviluppare scorciatoie operative
credibili (e fattibili) per utilizzarli al fine di giungere alla “valutazione
economica condivisa”, essenziale per “fare
passare le riforme” Riassumiamo due aspetti. In primo luogo, le “opzioni” prese in considerazione appartengono
di solito a queste categorie: a) differimento; b) espansione; c) uscita; d) sospensione; e) contrazione. Le
prime due sono opzioni di tipo “call”:
danno “titolo” a ritardare l’inizio della riforma o di espanderne la sua sfera
ad una data successiva. Le altre tre sono di tipo “put”: danno “titolo” ad arrestare la riforma prima del suo
completamento, a sospenderne l’attuazione, a bloccarla. Ciascuna di esse
comporta un costo: il costo di uscire da un accordo raggiunto (quello alla base
della riforma). In secondo luogo, l’evoluzione di una politica non è un “ciclo”
suddiviso in “stadi” (o “tappe”), ma una
sequenza in cui le varie fasi non hanno soluzione di continuità. Durante la
sequenza, varie “opzioni” vengono
create o distrutte per i differenti gruppi di stakeholder; emergono “opzioni composte” (ossia la distruzione
di una o più “opzioni” ne crea di nuove); alcune “opzioni” possono essere
esercitate in linea con l’attuazione della riforma, mentre l’esercizio di
altre deriva dalle azioni che si sono
prese in materia di “opzioni” precedenti. Il segno (positivo o negativo) di
ciascuna “opzione” dipende dalla loro tipologia e dall’ordine in cui appaiono
nella sequenza, nonché dalla distanza temporale dei “titoli” per esercitarle.
Specialmente in un comparto in cui gli stakeholder sono tanto numerosi e
tanto influenti (sotto il profilo economico, politico e sociale) e i “titoli”
di ciascun gruppo di stakeholder sono tanto complessi, la maestria nel “fare
riforme” (concepirle, formularle, realizzarle) consiste nel sapere bene
individuare e soppesare le varie “opzioni” durante l’intera sequenza.
Cerchiamo di leggere, in modo stilizzato, le principali riforme della
previdenza attuate in Italia negli ultimi due lustri (o poco più) con gli
occhiali del metodo di cui si sono delineati gli aspetti salienti nel paragrafo
precedente. Negli Anni 90 sono venuti al pettine i nodi di un sistema
previdenziale definito del 1968-69 e caratterizzato non solo da un crescente
peso sulla finanza pubblica ma anche e soprattutto da profonde ingiustizie,
massiccia evasione ed elevata elusione - quindi da profonde differenziazioni
delle opzioni che creava per alcune categorie di stakeholder , a carico sovente
di opzioni negative per altre categorie di stakeholder.
Il primo tentativo di riforma
prende corpo nel 1992-93 e va sotto il
nome di “riforma Amato”. Le sue caratteristiche sono a) innalzamento dell’età
di pensionamento e del requisito contributivo per accesso alla pensione di
vecchiaia ed all’integrazione al minimo pensionistico; b) deindicizzazione
delle pensioni rispetto alla crescita del tenore di vita reale; c) modifica del
calcolo delle prestazioni- per coloro con meno di 15 anni di versamenti
contributivi al momento della riforma il calcolo viene effettuato sulla base
dei redditi di lavoro su tutta la vita lavorativa mentre per gli altri sulla
base degli ultimo 10 anni. La riforma aveva come obiettivo principale quello di
frenare la crescita della spesa previdenziale. Nonostante venisse presentata in
un voluminoso lavoro dell’Inps, come risolutiva di tutti i nodi del settore,
era stata imbastita frettolosamente, nella scia della crisi valutaria
dell’estate 1992. Ove fosse stata esaminata con le lenti riassunte in
precedenza, ci sarebbe accorti che le “liability
options” (ossia le “opzioni”
negative) venivano poste, nell’immediato, in capo ai lavoratori più deboli –
quelli con pochi versamenti che incorrono nell’aumento degli anni necessari per
i requisiti ivi per la pensione di vecchiaia e l’integrazione al minimo – ed ai
pensionati – tramite la modifica del meccanismo di indicizzazione. Nel più
lungo termine, le “opzioni” negative
venivano poste sulle generazioni più giovani. Invece, ai lavoratori maturi
vengono date una varietà di “opzioni” positive sia di tipo call (specialmente differimento) sia di tipo put (uscita) particolarmente in quanto nelle condizioni di dinamica
salariale degli Anni 90, il nuovo metodo di calcolo delle prestazioni dava
luogo ad un miglioramento non irrilevante rispetto alla situazione di cui
avrebbero fruito se non fosse stata varata la riforma. Una “valutazione
economica condivisa”, come auspicato da Hirschman, avrebbe probabilmente
rivelato che la sommatoria algebrica delle varie “opzioni” negative e positive per i differenti gruppi di stakeholder
non veniva riequilibrata da una maggiore sostenibilità finanziaria (rispetto ad
una ipotetica situazione “in assenza di riforma”) che avrebbe permesso di
indirizzare altre forme di sostegno alle categorie su cui, in termini di “liability options”, più veniva a
gravare il costo.
In effetti, poco più di un anno
dopo la “riforma Amato”, si dovette fare un altro tentativo di riassetto,
dirigendo l’intervento principalmente alla modifica di alcuni aspetti delle
pensioni di anzianità ; ciò avrebbe drasticamente ridotto le “opzioni” , soprattutto di tipo “call”, alle categorie di lavoratori
maturi con una buona “storia retributiva”, che avevano visto aumentare il
valore dei loro “titoli” (previdenziali) e della loro “ricchezza contingente”
(previdenziale) proprio in virtù della riforma del 1992-93. Il tentativo non
ebbe seguito.
Nel 1995 veniva effettuata una
nuova riforma (la riforma Dini) a cui ne succede un’altra ancora nel 1996 (la
riforma Prodi). Il punto centrale è la modifica del metodo di calcolo per le
prestazioni: dalle retribuzioni percepite ai contributi versati. Viene introdotto
il sistema “NDC”, anzi l’Italia è stato, con la Svezia, uno dei primi Paesi ad
introdurre un meccanismo “contributivo” attualmente in via di adozione in un
numero crescente di Paesi. Nella configurazione particolare assunta nel quadro
italiano, specialmente a ragione di “coefficienti di trasformazione” da
modificarsi periodicamente sulla base di vari indicatori (demografici e
finanziari), vengono date “opzioni”
di espansione (call) e di contrazione
(put) all’operatore politico; lo
scettro viene restituito al principe che ne risponde di fronte al popolo
sovrano. Vengono anche poste le basi per un’autostabilizzazione graduale, ed in
parte, semi-automatica del sistema (in termini di incidenza sul pil);
l’autostabilizzazione (e le “opzioni”
ad essa pertinenti) vengono però protratte nel tempo da una lunghissima fase
transitoria su cui, tuttavia, l’operatore politico ha l’”opzione” di
sospensione ed anche di uscita (accelerandone i tempi) – “opzioni composte” nella sequenza dell’attuazione della riforma.
La posizione dei pensionati in essere e dei
lavoratori maturi (e delle opzioni
loro afferenti) non muta significativamente rispetto alla situazione derivante
dalla “riforma Amato”. Per i lavoratori dipendenti relativamente giovani, si
prospetta un miglioramento di trattamento previdenziale (rispetto alla “riforma
Amato”) a parità di carriera lavorativa, con la perdita, però, almeno parziale,
dell’”opzione” di pensionamento
anticipato a cui sommare i redditi di un nuovo lavoro (tramite il meccanismo
dei “coefficienti di trasformazione”, legati all’aspettativa di vita
residua). Cambia, invece, la posizione
dei lavoratori autonomi professionali – una categoria in rapidissima espansione
anche a ragione delle “liability options”
poste dalle rigidità del mercato del lavoro. Ad essi viene estesa la regola
generale di calcolo delle prestazioni ed un’aliquota di versamento
progressivamente crescente sino al 19% del reddito da lavoro. Nel breve periodo
ciò rappresenta un’opportunità di espansione delle entrate (un’”opzione” di
tipo call per l’Inps) ; nel medio e
lungo periodo, “opzioni” negative e positive dipendono dalla storia
contributiva di ciascuno.
Una nuova riforma è stata approvata
nel 2004, dopo circa tre anni di dibattiti. Viene chiamata “riforma Maroni” dal
nome dell’allora titolare del Ministero
del Lavoro e delle Politiche Sociali. Le caratteristiche principali sono a) la
messa in atto di un sistema di incentivi (in gergo un superbonus) per restare
al lavoro anche dopo che si sono maturati i “titoli” per fruire della pensione
di anzianità; b) l’utilizzazione dei flussi di finanziamento a valere per il
trattamento di fine rapporto (tfr) per alimentare fondi pensione privati a
capitalizzazione; c) regole più restrittive per le pensioni di anzianità, coniugate
con un meccanismo di certificazione dei “diritti” che verranno acquisiti entro
il 31 dicembre 2007.
Rispetto alla situazione in vigore dopo le riforme degli Anni 90, l’ultima
riforma è quella che apre la gamma più ampia di “opzioni” sia “call” sia “put” a tutte le parti in causa tranne le
imprese che vedono anzi potenzialmente distrutta, o severamente limitata,
l’opportunità di autofinanziamento facendo ricorso alle somme da accantonarsi
per il tfr. Gran parte delle “opzioni” per i principali stakeholder sono, in un certo senso, “composte” in quanto rese possibili dalla revisione dei meccanismi
di calcolo delle prestazioni – da retributivo a contributo – varata con le
riforme della metà degli Anni 90. Per riprendere il lessico di Hirschman, l’iter
della riforma del 2004 è stato relativamente lungo proprio in quanto ha
comportato una “valutazione economica condivisa” che ha implicitamente
analizzato, pur senza quantizzarle, le “opzioni” che creava e distruggeva per
le parti in causa; uno dei suoi nodi
principali è stato proprio quello delle “opzioni
negative” per le imprese.
Una nuova riforma nel 2014, detta ‘riforma Fornero” rappresenta una
drastica riduzioni di ‘opzioni’
rispetto a quella ad essa precedente in quanto allunga l’età ‘normale’ per
andare in quiescieza
Questo è un
primo tentativo per leggere la sequenza della riforma della previdenza in
Italia, in corso ormai da circa un quarto di secolo, con l’ottica dell’analisi
dei costi e dei benefici sociali estesi alle “opzioni reali” al fine sia di meglio distribuire le opzioni che il
processo di riforma apre, e chiude, alla principali parti in causa sia di
giungere a quella “valutazione economica
condivisa” , spesso essenziale “per fare passare” un riassetto così
complesso e tale da coinvolgere, in varie vesti, tutti gli italiani. E’ una
nota qualitativa; è auspicabile che si disponga di dati e di analisi per
effettuare uno studio quantitativo che possa essere utile nella prosecuzione di
una sequenza riformatrice che verosimilmente durerà ancora diversi anni.
Solo dopo circa quindici
anni, la sequenza ha tenuto adeguatamente conto delle “opzioni reali” per i maggiori stakeholder.
Quali che siano i limiti della “riforma Maroni”, il suo merito principale è
stato una distribuzione delle “opzioni”
in modo ragionevolmente equilibrato e condiviso da tutte le parti in causa, con
eccezione delle imprese che vedono fortemente limitata l’”opzione” (di cui hanno fruito e fruiscono nello scenario “senza
riforma”) di utilizzare gli accantonamenti per il tfr come strumento di
finanziamento dei loro investimenti. La sequenza riformatrice in materia di
previdenza è destinata a durare ancora per numerosi anni. Di conseguenza,
questa nota propone un metodo che può essere uno strumento utile per la “valutazione
economica condivisa” in futuro.
Che conclusioni
trarre? Sostengo da tempi non sospetti l’esigenza di un sistema previdenziale
“a tre gambe” – uno sgabello per la vecchiaia in cui la “gamba” pubblica (con
un contenuto fortemente ridistributivo, come ad esempio in Svizzera e negli Usa)
venga affiancata da una “gamba” privata di gruppo e da una terza ‘gamba’ anche
essa privata ma individuale (preferibilmente fortemente incoraggiata dal
fisco) . Nella prima ‘sgamba’ i
contributi sarebbero leggeri e verrebbe versati solo sino ad un tetto di
reddito da lavoro; darebbero una pensione di base modesta ma a tutti coloro che
hanno lavorato almeno dieci anni. I contributi delle seconda ‘gamba’ sarebbero frutto della contrattazione
aziendale e collettiva e potrebbero dare luogo a pensioni più consistenti a chi
ha fatto versamenti cospicui; i contributi sarebbero ‘portabili’ , facilmente
trasferibili da un fondo ad un altro in linea con la crescente mobilità del
mercato del lavoro. La terza ‘gamba’sarebbe puramente una scelta individuale .
Questo sistema minimizzerebbe evasione ed elusione contributiva, premierebbe la
meritocrazia e la responsabilità individuale, ed avrebbe uno ‘zoccolo duro ’
per i meno fortunati. La difficoltà è la transizione dall’attuale groviglio ad
un sistema semplice lineare e trasparente.
Stiamo andando verso un fisco buone e pensioni
buone?
. E’ difficile
dirlo. Anche quest’anno, in questi giorni, si attende con timore e tremore la
prima relazione di cassa della Ragioneria generale dello Stato. Poiché il
bilancio dello Stato per l’anno in corso è stato basato su stime economiche che
sembrano ottimistiche (ciò è avvenuto ben 11 volte negli ultimi anni quale che
fosse il colore del Governo), si profilerebbe l’esigenza di una manovra
primaverile per aumentare le entrate e, se possibile, ridurre spese, come ha
indicato la Commissione Europea.
Allora, la “grande
idea” (?!) sarebbe quella di mettere il
costo della ‘manovrina’ e di un
eventuale conflitto in Libia sulle spalle delle vedove e degli orfani prima
che gli interessati se ne accorgano. Pare siano in fase avanzata di redazione due
provvedimenti che raggiungerebbero questo obiettivo.
Il primo sarebbe
(si perdoni il gioco di parole) sarebbe la “resurrezione della tassa sul morto”, cioè
un fortissimo aumento dell’imposta di successione. In un primo momento si
pensava ad un decreto legislativo chiamato “delega fiscale”, ma i tempi
stringono e la misura può esser colorata come un provvedimento equitativo. In uno
dei prossimi decreti legge, la ‘franchigia’ verrebbe portata da un milione a
150 mila euro. Colpirebbe soprattutto i redditi e i patrimoni medi; chi è
ricco, con l’aiuto di banchieri, di studi legali e commerciali, sta convertendo
(in base a ‘buone’ soffiate di corridoi del potere) i propri patrimoni in
società e fondazioni per mettere la famiglia al riparo. I ‘soliti noti’ si
dovranno fare carico delle spese.
Non è un’idea
bocconiana, ma è stata partorita da emuli di Thomas Piketty in
quel di Tor Vergata, i quali però non hanno tenuto conto né degli aspetti
“deboli” nel pensiero e nei numeri del loro “maestro”, né delle implicazioni.
Occorre dire che in passato il Nuovo Centro Destra ha considerato un anatema il
solo sentire parlare di “tassa sul morto” (di cui si è avvantaggiato alla
grande il suo arci-avversario Romano Prodi) e dovrebbe,
quindi, essere pronto a fare saltare il tavolo nella consapevolezza – ultimo
rapporto Istat alla mano – che in un’Italia che invecchia, anziani e pensionati
sono la principale fonte di risparmio (per proteggere figli e nipoti).
In secondo luogo,
non solo i superstiziosi ritengono che la ‘tassa sul porti’ non sia di buon
auspicio a chi la propone e la attua, ma nei Paesi in cui tale “tassa sul
morto” è stata re-introdotta e portata ai livelli elevati, capitali ed
investimenti sono corsi all’estero, con le conseguenze che si possono
immaginare su crescita ed occupazione. Lo documenta, tra l’altro, un saggio di John
Laitner della università del Michigan ad Ann Arbor (Wealth
Accumulation in the US: Do Inheritance and Bequest Play a Significant Role- in
Nespat Discussion Paper No. 12/2014.094).Laitner è distinto e distante dalle
nostre beghe.
Andiamo alle
vedove ed ai figli minorenni. Su di loro piomberebbe la drastica riduzione, e
in molti casi la fine, delle ‘pensioni di reversibilità’ per coloro che ancora
non ne usufruiscono. Non solo circolano bozze di provvedimenti (da inserire in
un prossimo disegno di legge che contemplerebbe anche flessibilità in uscita)
ma su lavoce.info, periodico creato da Tito Boeri, la
settimana scorsa è uscito un saggio di Mario Sebastiani con
specifiche tecniche su come architettare gli stessi provvedimenti.
Occorre
dire che c’è una difficoltà obiettiva: il valore dei residui attivi del’INPS è
arrivato a 168 miliardi con un incremento di un miliardo al mese nell’ultimo
anno nonostante 40 miliardi di patrimonio netto si sarebbero persi negli ultimi
cinque anni. Circa 700 milioni, nel preventivo 2016, anziché essere utilizzati
per le gestioni previdenziali verrebbero “dirottati” – scrive un componente del
CIV – verso la fiscalità generale. “un prelievo forzoso” a danno di pensionati
correnti e futuri’. Sarebbe , invece, auspicabile, prima di toccare un comparto
tanto delicato, effettuare una separazione netta, con compatimenti stagni, tra
spese ‘previdenziali’ ed ‘assistenziali’ (come documentato nel Bilancio redatto dal think tank Itinerari Previdenziali) ed,
in parallelo, il Tesoro dovrebbe effettuare versamenti puntuali all’INPS per le
spese ‘assistenziali’ di cui l’Istituto sarebbe mero ‘ufficiale pagatore’.
Occorrerebbe anche rivedere la disparità persistente delle aliquote contributive
pensionistiche (a parità di reddito) tra dipendenti pubblici e lavoratori autonomi
(quali commercianti, artigiani, agricoltori.)
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