lunedì 21 marzo 2016

LE BUONE TASSE E LE BUONE PENSIONI (relazione al Convegno Cisal, Confedir, Federspens del17 marzo



LE BUONE TASSE E LE BUONE PENSIONI
Giuseppe Pennisi
Premessa
Quando sono stato invitato a questo convegno, stavo concludendo un libro su La Buona Spesa- Dalle opere pubbliche alla spending review- Una Guida Operativa , in uscita in questi giorni nelle edizioni del Centro Studi Impresa Lavoro, di cui presiedo il comitato scientifico. Riflettendo sulla ‘buona spesa’, in una ideale ‘Agathotopia’ , una società nè ideale nè mitica dove ‘si sta bene’- alla mia età è meglio dedicarsi a guide operative che a lavori con pretese scientifiche - mi è venuto quasi automatico pensare che le buone pensioni possono essere il risultato non solo di buona spesa ma anche di buona tassazione. Vi ringrazio, quindi, per darmi l’opportunità di condividere con voi queste riflessioni.
L’oppressione fiscale è l’esatto contrario di una buona tassazione.
Un quarto di secolo fa, l’allora Vice Direttore Generale della Banca d’Italia Pier Luigi Ciocca nella prefazione alla raccolta di saggi ‘Disoccupazione di Fine Secolo’ (Bollati Boringhieri,1997) documentava che in mondo in cui il Nord America ha un carico tributario attorno al 30% del Pil ed i Paesi asiatici emergenti del 20% del Pil, con il nostro 46% di allora,l’Europa rischiava un  declino sempre più grave e la disoccupazione di massa sempre più lunga. Più o meno nello stesso periodo, Lee Buchleit, l’esperto, che per conto dello studio legale internazionale Cleary, Gottfield, Steel & Hamilton, ha contribuito a risolvere i nodi del debito sovrano in numerosi Stati dell’America Latina, afferma che l’Europa si è messa sulla corsia sbagliata: “Occorrono misure per alleggerire il debito, fornire nuovi finanziamenti e promuovere la crescita riducendo al tempo stesso la pressione fiscale”.
In questi anni, invece, di ridurre pressione ed oppressione tributaria , l’Italia è giunta ad un total tax rate del 65,4% sulle imprese, il più alto al mondo (se non si tiene conto di Paesi come la Corea del Nord e simili). Siamo diventati uno di quegli Stati ‘estrattivi’ che estraggono tasse e sangue dei loro cittadini con il risultato di impoverirli sempre di più Lo spiega chiaramente un saggio americano, Why nations fail: The origins of power, prosperity, and poverty (Perché le nazioni falliscono: Le origini del potere, della prosperità e della povertà) di Daron Acemoglu e James Robinson – hanno trattato dell’Italia come esempio da non seguire e destinato, se non c’è un cambiamento profondo, al fallimento finanziario, economico, politico e sociale. Il libro di Acemoglu (un economista in odore di Nobel) e Robinson (uno dei maggiori scienziati della politica su piazza) è da quattro anni in testa ai bestseller in America e da oltre un anno è disponibile in traduzione italiana. Anche se gli Stati Uniti hanno un sistema tributario più ‘leggero’ di quello italiano, lo stesso Governo Obama ha  allo studio nuove riduzioni di imposte sulle imprese . come illustrato dall’analisi di Edward Kleinbard pubblica in questi giorno come USC Law Legal Studies Paper N0. 15-5.
La pressione si accompagna con una crescente oppressione fatta di adempimenti continui e sempre più complicati che richiedono anche al contribuente a reddito medio basso e lavoratore dipendente ricorso continuo a professionisti. Aumentando, così,  il costo degli adempimenti in termini di tempo e denaro. Nei 18 anni in cui ho vissuto a Washington completavo in una serata la dichiarazione federale dei redditi ed in un’oretta quella del Distretto di Columbia, Ritornato in Italia, mi sono dovuto rivolgere a contabili e commercialisti per orientarmi in un labirinto kafkiano.
  La storia della riduzione e semplificazione della fiscalità mostra che per avere successo esse devono essere  preceduti da prese di posizione teoriche e da forti campagne politiche. Non solo o principalmente dal lamento del Presidente del Consiglio di essere stato “lasciato solo” a volere la riduzione delle imposte. Forse per aiutarlo ad uscire dalla solitudine può servire la ricerca di un più solido fondamento analitico al progetto. Tanto più che in Italia non si propone più un ragionamento analogo a quello della “curva di Laffer” di circa un quarto di secolo fa quando, sulla base delle ipotesi dell’economista Arthur Laffer, Ronald Reagan e Margaret Thatcher ridussero scaglioni ed aliquote argomentando che ne sarebbe risultato un impulso all’economia tale da più che recuperare, nell’arco di pochi anni, la perdita temporanea di gettito. L’assunto, ma non è detto che chi governa la pensi così, potrebbe essere ben differente. E potrebbe riassumersi nel proposito un po’ crudo di “affamare la bestia” (ossia la macchina pubblica) allo scopo di ridurre il disavanzo. E così permettere un calo sostenibile delle imposte. L’espressione “affamare la bestia” la dobbiamo a Jonathan Baron, professore di psicologia alla University of Pennsylvania, e Edward J. McCaffery, docente di economia applicata al California Institute of Technology. La troviamo in un loro recente saggio (“Starving the beast: the psychology of budget deficits”- “Affamare la bestia: la psicologia dei deficit di bilancio”).
 Baron e McCaffery appartengono ad un filone relativamente nuovo della finanza pubblica, quello che coniuga economia quantitativa e psicologia. Nel lavoro citato non hanno solamente elaborato un elegante modello per mostrare con una serie di algoritmi come riducendo il gettito si finisce con fare dimagrire la macchina della spesa pubblica, hanno anche effettuato due esperimenti con la complicità del web. La grande maggioranza degli intervistati si è detta ben lieta di tagli alla pressione ed all’oppressione tributaria ed alla spesa pubblica in modo, però, che complessivamente i conti quadrino; non è stata, però, in grado di esprimere quali programmi di spesa tagliare. Di conseguenza, – argomentato Baron e McCaffery – se l’elettorato è in favore di conti pubblici in regola, una strategia basata sul ridurre le razioni di cibo al pachiderma può avere successo. E’ una ricetta che potrebbe avere esiti positivi in Italia, dove si è avvezzi non solo ai disavanzi pubblici ma anche alla crescita dello stock di debito senza curarsi troppo di chi lo pagherà e quando? Una seria spending review farebbe funzionare meglio la macchina pubblica ed incoraggerebbe i cittadini a non evadere od eludere in quanto crescerebbe la consapevolezza dei servizi ricevuti dalle pubbliche amministrazioni.
 In un altro lavoro, McCaffery, questa volta a quattro mani con Joel Slemrod della Michigan Business School traccia un vero e proprio manifesto per una finanza pubblica coniugata con la psicologia per affrontare i maggiori nodi di politica economica; in società dove poco peso si è sempre dato alle quadrature dei bilanci pubblici (e non solo), affamare la bestia può essere una strategia tutt’altro che appropriata se non inserita in un’attenta rivisitazione della spesa con una chiara scelta delle priorità delle varie voci in base al loro rendimento ‘sociale’, ossia alla collettività, come meglio dettaglio nella Guida operativa citata.
La buona previdenza. Così come lo sviluppo dello stato sociale (ed in particolare della previdenza sociale) sono stati uno dei tratti fondanti delle politiche economiche del 20simo secolo, il riassetto dello stato sociale in generale (e delle pensioni in particolare) sono uno degli aspetti fondamentali di quelle del 21simo secolo. In effetti, l’80% dei 30  Paesi ad alto reddito medio che fanno parte dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse) ed il 75% dei 184 Paesi membri della Banca Mondiale sono coinvolti in sequenze, più o meno lunghe o più o meno complesse, di riassetto della previdenza. Un numero crescente sta adottando, per la “gamba” pubblica dei loro sistemi previdenziali, meccanismi “a contributi definiti” (nel lessico internazionale “Notional defined contribution systems – NDCs) iniziati, in via pionieristica, dall’Italia e dalla Svezia alla metà degli Anni 90 – ossia metodi in cui le prestazioni sono basate sul montante dei contributi versati.

   
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COSA SONO I NDCs

I sistemi previdenziali chiamati Ndcs sono sistemi “a ripartizione”, in cui le prestazioni ai pensionati, quindi, sono finanziate dai lavoratori attivi; il calcolo delle spettanze non è basato sulle retribuzioni percepite ma sui contributi versati tramite formule più o meno complesse per computare i versamenti in un montante in conto capitale e trasformarlo, quindi, in rendita annuale. Per questa ragione, i Ndcs vengono anche chiamati “a capitalizzazione virtuale” o “simulata”. L’Italia e la Svezia sono stati i primi due Paesi ad introdurre sistemi previdenziali di questa natura. Ora sono stati adottati, od in corso di adozione, in una ventina di Paesi. Un saggio recente del Vice Presidente della Banca Mondiale, Robert Holzmann, preconizza che il metodo Ndc è l’unico fattibile per dare una base comune ai differenti sistemi in vigore nell’Unione Europea. 

   Le riforme della previdenza coinvolgono l’intera politica economica poiché, nei Paesi ad alto reddito medio, la spesa per lo stato sociale assorbe tra un quarto ed un terzo della spesa pubblica totale; a sua volta, la spesa per la previdenza varia tra la metà ed il 70% della spesa sociale. Dunque, misure che incidono sulla spesa previdenziale hanno effetti sia sull’intero andamento della spesa pubblica sia sulla sua allocazione per obiettivi e tra comparti. Anche se nei dibattiti  sulle riforme della previdenza l’accento viene posto sulla “sostenibilità”, in termini di finanza pubblica,  ancora più importanti sono gli aspetti in termini di economia reale – ossia dell’incidenza dei differenti sistemi previdenziali in termini di consumi, risparmi ed investimenti, di ripartizione del reddito tra categorie e generazioni, di costo del lavoro e, quindi, di occupazione e di competitività. Di conseguenza, le riforme delle pensioni sono non un tassello ma uno degli elementi centrali delle politiche economiche di questo primo scorcio di 21simo secolo. In breve, esse si presentano come lo snodo delle politiche economiche di questi anni.

Per decenni, i riformatori hanno utilizzato come un breviario un libro del socio-economista Albert O. Hirschman , intitolato “Come far passare le riforme” (Il Mulino, Bologna 1990) basato su saggi pubblicati all’estero alla fine degli Anni 80. Ciò riguardava anche lo stato sociale e la previdenza. La proposta  centrale era di costruire una coalizione di riformatori sulla base di una “valutazione economica condivisa”. In effetti, quando Hirschman tracciava la strada per una valutazione economica condivisa si era in quella che si può chiamare l’”età dell’oro” della valutazione e di singoli progetti di intervento pubblico e di  politiche.  A cavallo tra la fine degli Anni 60 e l’inizio degli Anni 70, l’Ocse e l’Unido pubblicarono due manuali fondamentali che aprirono nuove strade operative e vennero recepiti dal Fondo Monetario, dalla Banca Mondiale, dalle Banche regionali di sviluppo che li incorporarono nelle loro prassi operative; i canoni principali del metodo vennero adottati  anche nei  Paesi “a socialismo reale”. Il contributo della manualistica è stato  non teorico ma operativo; da premesse teoriche molto solide , quelle della “nuova economia del benessere”, si  giungeva a due innovazioni operative di rilievo: a) individuare il mercato internazionale come riferimento per il calcolo del costo opportunità di un bene o servizio per la collettività; b) derivare, dai documenti di politica economica di governo, “parametri nazionali” per sintetizzare obiettivi e vincoli di politica economica. La metodologia ipotizzava che Governi e Parlamenti avessero gli strumenti per pilotare le politiche economiche verso obiettivi specifici,  veniva generale chiamata “analisi dei costi e dei benefici sociali” ed aveva come finalità quello di valutare efficienza ed efficacia di risultati dell’ intervento pubblico. 


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L’analisi dei costi e dei benefici sociali delle politiche

L’analisi dei costi e dei benefici sociali esamina un progetto od una politica dal punto di vista della collettività nel suo complesso non dei singoli soggetti (individui, famiglie ed imprese) in esso coinvolti. Utilizza una strumentazione semplice – analoga al” conto profitti e perdite” aziendale – per giungere, tramite una serie di aggiustamenti alle voci contabili ed ai valori (ossia ai prezzi), a stime  dei costi e dei benefici per la collettività. Il metodo è anche un sistema integrato di documentazione- quindi, molto trasparente- in cui voci e valori possono essere cambiati agevolmente al mutare delle ipotesi. Viene adottato, in vario grado, dalle maggiori istituzioni finanziarie internazionali e da due terzi delle pubbliche amministrazioni dei Paesi Ocse per vagliare progetti ed in alcuni casi politiche. Si può applicare, però, solo a interventi pubblici che non incidono sulla struttura di produzione. Inoltre, fornisce risposte di accettazione e rigetto; non consente, quindi, di fare graduatorie.

  All’inizio degli Anni 90 cominciò il tramonto della metodica condivisa per la valutazione economica delle politiche pubbliche. Le ragioni sono state molteplici. Alcune, a carattere tecnico, concernono le difficoltà dell’analisi dei costi e dei benefici sociali di risolvere certi aspetti tecnici puntuali. Altre, più pertinenti ai nostri fini, riguardano il mutamento del contesto generale socio-politico – da un quadro in cui i rischi potevano essere stimati facendo ricorso al calcolo delle probabilità, ad un quadro in cui, soprattutto dopo l’11 settembre 2001 e più di recente dopo il dilagare di guerre e terrorismo di matrice medio orientale, l’incertezza da mutamenti del tutto inattesi è l’elemento chiave. La “valutazione economica condivisa” ha perso gradualmente terreno rispetto ad altre discipline a carattere organizzativo ed alla strumentazione ad essa attinente – quale il “quadro logico” e l’”analisi multicriteri” - che danno relativamente poco peso ai risultati attesi in termini in termini di risorse economiche (non solo finanziarie) e di benefici per la collettività.  E’ ora in corso una revisione profonda non solo per risolvere aspetti tecnico-procedurali irrisolti, ma soprattutto per tenere conto dell’incertezza, elemento di grande rilievo in un’epoca in cui, a ragione dell’integrazione economica internazionale, si riduce l’efficacia e l’incidenza delle leve tradizionali delle politiche della moneta, del bilancio pubblico e dei prezzi e dei redditi.

  La letteratura più recente sulla valutazione economica è indicativa di una rivoluzione silenziosa in atto. Essa riguarda la concezione del mercato - visto non come luogo in cui vari soggetti (individui, famiglie, imprese, pubblica amministrazione, il resto del mondo)  si scambiano fattori di produzione, beni e servizi ma in cui l’oggetto della contrattazione sono i “titoli”, i “diritti”, i “contratti”. Viene rivalutata la scuola di “Law and Economics” (ossia di analisi economica del diritto e, di converso, di analisi giuridico-istituzionale dell’economia). In questo contesto, la “capacitazione” – ossia la capacità potenziale a fruire di  “titoli” e di  “diritti”- ed  il “valore di non uso” – ossia la facoltà di detenere  “titoli” ed i “diritti”  per utilizzarli in futuro – assumono un ruolo crescente sia della stima del valore sia della creazione di valore. Le pensioni future sono “titoli” il cui valore cambia a ragione di una vasta gamma di determinanti – alcuni in parte sotto il controllo di Governi e Parlamenti, altri puramente dipendenti dall’andamento dei mercati. Pure le pensioni in essere sono “titoli” il cui valore varia a ragione e di atti politici e di andamenti economici e finanziari. La “ricchezza previdenziale contingente” di ciascuno è funzione dei “titoli” previdenziali che detiene in un determinato momento e di come li impiega.  In un mercato di “titoli” hanno un ruolo centrale le “opzioni”: un’opzione è la facoltà, non l’obbligo, di acquistare (in tal caso di parla di opzione “call”) o di vendere (opzione “put”) un’attività ad essa sottostante. Ciò riguarda non solamente i mercati finanziari  ma anche le attività reali specialmente in campi in cui le decisioni (ad esempio quella di fruire di un pensionamento anticipato) sono irreversibili.  Tra gli Anni 90 del secolo scorso ed il primo quindicennio di questo secolo, l’estensione dell’analisi costi benefici alle “opzioni” ha avuto un vasto sviluppo analitico, nonché applicazioni pratiche rivolte alla valutazione di grandi progetti d’investimento (ad esempio, l’eutunnel sotto la Manica, la alta velocità Torino-Lione, la rete aeroportuale nel Nord Europa), di programmi con componenti di investimento (la transizione da televisione analogica a digitale terrestre) e politiche economiche più generali (come la politica di tasso di cambio fisso agganciato al dollaro Usa seguita dall’Argentina).
  Dato che si tiene conto non soltanto dei  costi e dei benefici dei risultati attesi di una politica ma anche delle “opzioni” sia positive sia negative che essa comporta, è dunque, essenziale definire con chiarezza sia gli stakeholder sia le “opzioni”. Di tutte le “opzioni” possibili, almeno una viene distrutta – in gergo “bruciata” – quando la politica viene attuata.  La riforma della previdenza è un’opzione “call” in quanto fornisce al Paese, ad un costo, il “titolo”ad  “un sottostante” – i benefici della riforma nonché tutte le “opzioni” ad essa connessa. Il “valore” di ciascuna opzione dipende, a sua volta, dalla data entro la quale essa deve essere esercitata e dal percorso per arrivarvi, nonché dal tasso di sconto  e della volatilità dei mercati; a loro volta,  queste ultime variabili dipendono da una vasta gamma di determinanti. Naturalmente, ciascuna parte in causa (lavoratori attivi suddivisi per fasce di età, pensionati, imprese, nuove generazioni, e così via) non soltanto il Paese, ha a che fare con una serie di “opzioni” positive o negative che vengono aperte o “bruciate” dalla politica di riforma. Per ciascuna parte in causa, il “valore” della riforma varia a seconda dei “titoli” la cui valutazione aumenta o diminuisce a ragione delle caratteristiche  specifiche della riforma medesima.
  La letteratura approfondisce in dettaglio questi punti e l’esigenza di sviluppare scorciatoie operative credibili (e fattibili) per utilizzarli al fine di giungere alla “valutazione economica condivisa”, essenziale per “fare passare le riforme” Riassumiamo due aspetti. In primo luogo, le “opzioni” prese in considerazione appartengono di solito a queste categorie: a) differimento; b) espansione; c)  uscita; d) sospensione; e) contrazione. Le prime due sono opzioni di tipo “call”: danno “titolo” a ritardare l’inizio della riforma o di espanderne la sua sfera ad una data successiva. Le altre tre sono di tipo “put”: danno “titolo” ad arrestare la riforma prima del suo completamento, a sospenderne l’attuazione, a bloccarla. Ciascuna di esse comporta un costo: il costo di uscire da un accordo raggiunto (quello alla base della riforma). In secondo luogo, l’evoluzione di una politica non è un “ciclo” suddiviso in “stadi” (o “tappe”),  ma una sequenza in cui le varie fasi non hanno soluzione di continuità. Durante la sequenza, varie “opzioni” vengono create o distrutte per i differenti gruppi di stakeholder; emergono “opzioni composte” (ossia la distruzione di una o più “opzioni” ne crea di nuove); alcune “opzioni” possono essere esercitate in linea con l’attuazione della riforma, mentre l’esercizio di altre  deriva dalle azioni che si sono prese in materia di “opzioni” precedenti. Il segno (positivo o negativo) di ciascuna “opzione” dipende dalla loro tipologia e dall’ordine in cui appaiono nella sequenza, nonché dalla distanza temporale dei “titoli” per esercitarle.
Specialmente in un comparto in cui gli stakeholder sono tanto numerosi e tanto influenti (sotto il profilo economico, politico e sociale) e i “titoli” di ciascun gruppo di stakeholder sono tanto complessi, la maestria nel “fare riforme” (concepirle, formularle, realizzarle) consiste nel sapere bene individuare e soppesare le varie “opzioni” durante l’intera sequenza.
Cerchiamo di leggere, in modo stilizzato, le principali riforme della previdenza attuate in Italia negli ultimi due lustri (o poco più) con gli occhiali del metodo di cui si sono delineati gli aspetti salienti nel paragrafo precedente. Negli Anni 90 sono venuti al pettine i nodi di un sistema previdenziale definito del 1968-69 e caratterizzato non solo da un crescente peso sulla finanza pubblica ma anche e soprattutto da profonde ingiustizie, massiccia evasione ed elevata elusione - quindi da profonde differenziazioni delle opzioni che creava per alcune categorie di stakeholder , a carico sovente di opzioni negative per altre categorie di stakeholder.
  Il primo tentativo di riforma prende corpo  nel 1992-93 e va sotto il nome di “riforma Amato”. Le sue caratteristiche sono a) innalzamento dell’età di pensionamento e del requisito contributivo per accesso alla pensione di vecchiaia ed all’integrazione al minimo pensionistico; b) deindicizzazione delle pensioni rispetto alla crescita del tenore di vita reale; c) modifica del calcolo delle prestazioni- per coloro con meno di 15 anni di versamenti contributivi al momento della riforma il calcolo viene effettuato sulla base dei redditi di lavoro su tutta la vita lavorativa mentre per gli altri sulla base degli ultimo 10 anni. La riforma aveva come obiettivo principale quello di frenare la crescita della spesa previdenziale. Nonostante venisse presentata in un voluminoso lavoro dell’Inps, come risolutiva di tutti i nodi  del settore,  era stata imbastita frettolosamente, nella scia della crisi valutaria dell’estate 1992. Ove fosse stata esaminata con le lenti riassunte in precedenza, ci sarebbe accorti che le “liability options” (ossia le “opzioni” negative) venivano poste, nell’immediato, in capo ai lavoratori più deboli – quelli con pochi versamenti che incorrono nell’aumento degli anni necessari per i requisiti ivi per la pensione di vecchiaia e l’integrazione al minimo – ed ai pensionati – tramite la modifica del meccanismo di indicizzazione. Nel più lungo termine, le “opzioni” negative venivano poste sulle generazioni più giovani. Invece, ai lavoratori maturi vengono date una varietà di “opzioni” positive sia di tipo call (specialmente differimento) sia di tipo put (uscita) particolarmente in quanto nelle condizioni di dinamica salariale degli Anni 90, il nuovo metodo di calcolo delle prestazioni dava luogo ad un miglioramento non irrilevante rispetto alla situazione di cui avrebbero fruito se non fosse stata varata la riforma. Una “valutazione economica condivisa”, come auspicato da Hirschman, avrebbe probabilmente rivelato che la sommatoria algebrica delle varie “opzioni” negative e positive per i differenti gruppi di stakeholder non veniva riequilibrata da una maggiore sostenibilità finanziaria (rispetto ad una ipotetica situazione “in assenza di riforma”) che avrebbe permesso di indirizzare altre forme di sostegno alle categorie su cui, in termini di “liability options”, più veniva a gravare il costo.
   In effetti, poco più di un anno dopo la “riforma Amato”, si dovette fare un altro tentativo di riassetto, dirigendo l’intervento principalmente alla modifica di alcuni aspetti delle pensioni di anzianità ; ciò avrebbe drasticamente ridotto le “opzioni” , soprattutto di tipo “call”, alle categorie di lavoratori maturi con una buona “storia retributiva”, che avevano visto aumentare il valore dei loro “titoli” (previdenziali) e della loro “ricchezza contingente” (previdenziale) proprio in virtù della riforma del 1992-93. Il tentativo non ebbe seguito.
   Nel 1995 veniva effettuata una nuova riforma (la riforma Dini) a cui ne succede un’altra ancora nel 1996 (la riforma Prodi). Il punto centrale è la modifica del metodo di calcolo per le prestazioni: dalle retribuzioni percepite ai contributi versati. Viene introdotto il sistema “NDC”, anzi l’Italia è stato, con la Svezia, uno dei primi Paesi ad introdurre un meccanismo “contributivo” attualmente in via di adozione in un numero crescente di Paesi. Nella configurazione particolare assunta nel quadro italiano, specialmente a ragione di “coefficienti di trasformazione” da modificarsi periodicamente sulla base di vari indicatori (demografici e finanziari), vengono date “opzioni” di espansione (call) e di contrazione (put) all’operatore politico; lo scettro viene restituito al principe che ne risponde di fronte al popolo sovrano. Vengono anche poste le basi per un’autostabilizzazione graduale, ed in parte, semi-automatica del sistema (in termini di incidenza sul pil); l’autostabilizzazione (e le “opzioni” ad essa pertinenti) vengono però protratte nel tempo da una lunghissima fase transitoria su cui, tuttavia, l’operatore politico ha l’”opzione” di sospensione ed anche di uscita (accelerandone i tempi) – “opzioni composte” nella sequenza dell’attuazione della riforma.
   La posizione dei pensionati in essere e dei lavoratori maturi (e delle opzioni loro afferenti) non muta significativamente rispetto alla situazione derivante dalla “riforma Amato”. Per i lavoratori dipendenti relativamente giovani, si prospetta un miglioramento di trattamento previdenziale (rispetto alla “riforma Amato”) a parità di carriera lavorativa, con la perdita, però, almeno parziale, dell’”opzione” di pensionamento anticipato a cui sommare i redditi di un nuovo lavoro (tramite il meccanismo dei “coefficienti di trasformazione”, legati all’aspettativa di vita residua).   Cambia, invece, la posizione dei lavoratori autonomi professionali – una categoria in rapidissima espansione anche a ragione delle “liability options” poste dalle rigidità del mercato del lavoro. Ad essi viene estesa la regola generale di calcolo delle prestazioni ed un’aliquota di versamento progressivamente crescente sino al 19% del reddito da lavoro. Nel breve periodo ciò rappresenta un’opportunità di espansione delle entrate (un’”opzione” di tipo call per l’Inps) ; nel medio e lungo periodo, “opzioni” negative e positive dipendono dalla storia contributiva di ciascuno.
  Una nuova riforma è stata approvata nel 2004, dopo circa tre anni di dibattiti. Viene chiamata “riforma Maroni” dal nome dell’allora  titolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Le caratteristiche principali sono a) la messa in atto di un sistema di incentivi (in gergo un superbonus) per restare al lavoro anche dopo che si sono maturati i “titoli” per fruire della pensione di anzianità; b) l’utilizzazione dei flussi di finanziamento a valere per il trattamento di fine rapporto (tfr) per alimentare fondi pensione privati a capitalizzazione; c) regole più restrittive per le pensioni di anzianità, coniugate con un meccanismo di certificazione dei “diritti” che verranno acquisiti entro il 31 dicembre 2007.
Rispetto alla situazione in vigore dopo le riforme degli Anni 90, l’ultima riforma è quella che apre la gamma più ampia di “opzioni” sia “call” sia “put” a tutte le parti in causa tranne le imprese che vedono anzi potenzialmente distrutta, o severamente limitata, l’opportunità di autofinanziamento facendo ricorso alle somme da accantonarsi per il tfr. Gran parte delle “opzioni” per i principali stakeholder sono, in un certo senso, “composte” in quanto rese possibili dalla revisione dei meccanismi di calcolo delle prestazioni – da retributivo a contributo – varata con le riforme della metà degli Anni 90. Per riprendere il lessico di Hirschman, l’iter della riforma del 2004 è stato relativamente lungo proprio in quanto ha comportato una “valutazione economica condivisa” che ha implicitamente analizzato, pur senza quantizzarle, le “opzioni” che creava e distruggeva per le  parti in causa; uno dei suoi nodi principali è stato proprio quello delle “opzioni negative” per le imprese.
Una nuova riforma nel 2014, detta ‘riforma Fornero” rappresenta una drastica riduzioni di ‘opzioni’ rispetto a quella ad essa precedente in quanto allunga l’età ‘normale’ per andare in quiescieza

  Questo è un primo tentativo per leggere la sequenza della riforma della previdenza in Italia, in corso ormai da circa un quarto di secolo, con l’ottica dell’analisi dei costi e dei benefici sociali estesi alle “opzioni reali” al fine sia di meglio distribuire le opzioni che il processo di riforma apre, e chiude, alla principali parti in causa sia di giungere a quella “valutazione economica condivisa” , spesso essenziale “per fare passare” un riassetto così complesso e tale da coinvolgere, in varie vesti, tutti gli italiani. E’ una nota qualitativa; è auspicabile che si disponga di dati e di analisi per effettuare uno studio quantitativo che possa essere utile nella prosecuzione di una sequenza riformatrice che verosimilmente durerà ancora diversi anni.
Solo dopo circa quindici anni, la sequenza ha tenuto adeguatamente conto delle “opzioni reali” per i maggiori stakeholder. Quali che siano i limiti della “riforma Maroni”, il suo merito principale è stato una distribuzione delle “opzioni” in modo ragionevolmente equilibrato e condiviso da tutte le parti in causa, con eccezione delle imprese che vedono fortemente limitata l’”opzione” (di cui hanno fruito e fruiscono nello scenario “senza riforma”) di utilizzare gli accantonamenti per il tfr come strumento di finanziamento dei loro investimenti. La sequenza riformatrice in materia di previdenza è destinata a durare ancora per numerosi anni. Di conseguenza, questa nota propone un metodo che può essere uno strumento utile per la “valutazione economica condivisa” in futuro.
Che conclusioni trarre? Sostengo da tempi non sospetti l’esigenza di un sistema previdenziale “a tre gambe” – uno sgabello per la vecchiaia in cui la “gamba” pubblica (con un contenuto fortemente ridistributivo, come ad esempio in Svizzera e negli Usa) venga affiancata da una “gamba” privata di gruppo e da una terza ‘gamba’ anche essa privata ma individuale  (preferibilmente fortemente incoraggiata dal fisco) . Nella  prima ‘sgamba’ i contributi sarebbero leggeri e verrebbe versati solo sino ad un tetto di reddito da lavoro; darebbero una pensione di base modesta ma a tutti coloro che hanno lavorato almeno dieci anni. I contributi delle seconda ‘gamba’  sarebbero frutto della contrattazione aziendale e collettiva e potrebbero dare luogo a pensioni più consistenti a chi ha fatto versamenti cospicui; i contributi sarebbero ‘portabili’ , facilmente trasferibili da un fondo ad un altro in linea con la crescente mobilità del mercato del lavoro. La terza ‘gamba’sarebbe puramente una scelta individuale . Questo sistema minimizzerebbe evasione ed elusione contributiva, premierebbe la meritocrazia e la responsabilità individuale, ed avrebbe uno ‘zoccolo duro ’ per i meno fortunati. La difficoltà è la transizione dall’attuale groviglio ad un sistema semplice lineare e trasparente.
Stiamo andando verso un fisco buone e pensioni buone?
. E’ difficile dirlo. Anche quest’anno, in questi giorni, si attende con timore e tremore la prima relazione di cassa della Ragioneria generale dello Stato. Poiché il bilancio dello Stato per l’anno in corso è stato basato su stime economiche che sembrano ottimistiche (ciò è avvenuto ben 11 volte negli ultimi anni quale che fosse il colore del Governo), si profilerebbe l’esigenza di una manovra primaverile per aumentare le entrate e, se possibile, ridurre spese, come ha indicato la Commissione Europea.
Allora, la “grande idea” (?!) sarebbe quella di  mettere il costo della ‘manovrina’ e di un  eventuale conflitto in Libia  sulle spalle delle vedove e degli orfani prima che gli interessati se ne accorgano. Pare siano  in fase avanzata di redazione due provvedimenti che raggiungerebbero questo obiettivo.
Il primo sarebbe (si perdoni il gioco di parole) sarebbe  la “resurrezione della tassa sul morto”, cioè un fortissimo aumento dell’imposta di successione. In un primo momento si pensava ad un decreto legislativo chiamato “delega fiscale”, ma i tempi stringono e la misura può esser colorata come un provvedimento equitativo. In uno dei prossimi decreti legge, la ‘franchigia’ verrebbe portata da un milione a 150 mila euro. Colpirebbe soprattutto i redditi e i patrimoni medi; chi è ricco, con l’aiuto di banchieri, di studi legali e commerciali, sta convertendo (in base a ‘buone’ soffiate di corridoi del potere) i propri patrimoni in società e fondazioni per mettere la famiglia al riparo. I ‘soliti noti’ si dovranno fare carico delle spese.
Non è un’idea bocconiana, ma è stata partorita da emuli di Thomas Piketty in quel di Tor Vergata, i quali però non hanno tenuto conto né degli aspetti “deboli” nel pensiero e nei numeri del loro “maestro”, né delle implicazioni. Occorre dire che in passato il Nuovo Centro Destra ha considerato un anatema il solo sentire parlare di “tassa sul morto” (di cui si è avvantaggiato alla grande il suo arci-avversario Romano Prodi) e dovrebbe, quindi, essere pronto a fare saltare il tavolo nella consapevolezza – ultimo rapporto Istat alla mano – che in un’Italia che invecchia, anziani e pensionati sono la principale fonte di risparmio (per proteggere figli e nipoti).
In secondo luogo, non solo i superstiziosi ritengono che la ‘tassa sul porti’ non sia di buon auspicio a chi la propone e la attua, ma nei Paesi in cui tale “tassa sul morto” è stata re-introdotta e portata ai livelli elevati, capitali ed investimenti sono corsi all’estero, con le conseguenze che si possono immaginare su crescita ed occupazione. Lo documenta, tra l’altro, un saggio di John Laitner della università del Michigan ad Ann Arbor (Wealth Accumulation in the US: Do Inheritance and Bequest Play a Significant Role- in Nespat Discussion Paper No. 12/2014.094).Laitner è distinto e distante dalle nostre beghe.
Andiamo alle vedove ed ai figli minorenni. Su di loro piomberebbe la drastica riduzione, e in molti casi la fine, delle ‘pensioni di reversibilità’ per coloro che ancora non ne usufruiscono. Non solo circolano bozze di provvedimenti (da inserire in un prossimo disegno di legge che contemplerebbe anche flessibilità in uscita) ma su lavoce.info, periodico creato da Tito Boeri, la settimana scorsa è uscito un saggio di Mario Sebastiani con specifiche tecniche su come architettare gli stessi provvedimenti.
Occorre dire che c’è una difficoltà obiettiva: il valore dei residui attivi del’INPS è arrivato a 168 miliardi con un incremento di un miliardo al mese nell’ultimo anno nonostante 40 miliardi di patrimonio netto si sarebbero persi negli ultimi cinque anni. Circa 700 milioni, nel preventivo 2016, anziché essere utilizzati per le gestioni previdenziali verrebbero “dirottati” – scrive un componente del CIV – verso la fiscalità generale. “un prelievo forzoso” a danno di pensionati correnti e futuri’. Sarebbe , invece, auspicabile, prima di toccare un comparto tanto delicato, effettuare una separazione netta, con compatimenti stagni, tra spese ‘previdenziali’ ed ‘assistenziali’ (come documentato nel Bilancio redatto dal think tank Itinerari Previdenziali) ed, in parallelo, il Tesoro dovrebbe effettuare versamenti puntuali all’INPS per le spese ‘assistenziali’ di cui l’Istituto sarebbe mero ‘ufficiale pagatore’. Occorrerebbe anche rivedere la disparità persistente delle aliquote contributive pensionistiche (a parità di reddito) tra dipendenti pubblici e lavoratori autonomi (quali commercianti, artigiani, agricoltori.)



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