Vi spiego perché
la strategia europea di Renzi e Padoan è fiacca
13 - 05 - 2014Giuseppe Pennisi
Nella campagna elettorale in corso, c’è quasi una
congiura del silenzio sul “semestre europeo”, i sei mesi dal primo luglio 2014
in cui l’Italia avrà la presidenza degli organi di governo dell’Unione Europea
(UE). Sono sei mesi cruciali in quanto coincidono con l’inizio della
legislatura del Parlamento Europeo (PE) che verrà eletto tra il 22 ed il 25
maggio.
LA SFIDA DEL 25 MAGGIO
Ciò che l’Italia potrà fare nel semestre, e l’’inprint che
potrà dare sui cinque anni di legislatura del PE, dipende, in gran misura, da
quali saranno i risultati nel nostro Paese delle elezioni del 25 maggio. Come
di consueto, verranno letti in chiave interna più che in chiave europea. Se
saranno tali da preludere a una fase di incertezza e tensioni, nonché a un
(peraltro già annunciato) arresto di un processo di riforme sino ad ora
solamente annunciati, è verosimile pensare che i governanti italiani saranno
avviluppati in vicende interne, eventuali rimpasti e anche possibili cambi di
governo, ove non addirittura preparazione di elezioni nella primavera 2015. In
questa ipotesi, è difficile pensare che la Presidenza italiana degli organi di
governo europeo possa incidere tanto nel medio periodo (le decisioni del
Consiglio Europeo dell’ottobre 2014) quanto nel più lungo termine
l’impostazione della legislatura per i cinque anni. In un altro scenario, il
governo in carica verrebbe rafforzato e in tal caso avrebbe tutte le carte per
farsi ascoltare in Europa sui temi tanto di breve quanto di medio e lungo
termine.
RENZI L’EQUILIBRISTA
I sondaggi pubblicati sino al
termine della settimana scorsa, sembrano mostrare come estreme
queste due ipotesi. Ora il governo conta sue tre maggioranze: una per il
programma presentato alle Camere e su cui ha avuto la fiducia; una seconda,
ampliata a Forza Italia; ed una terza, con attenzione alla sinistra PD ed il
SEL, per certi settori della politica sociale. E’ verosimile che, dopo il voto
del 25 maggio, lo sgabello avrà solo due gambe, e farà fatica a tenersi saldo
ed in piedi. Se ne uscirà con una sola, dovrà fare da equilibrista.
LA STRATEGIA FIACCA DEL GOVERNO IN EUROPA
In base a questa premessa, mi sembra che la strategia
annunciata più volte dal Presidente del Consiglio – flessibilità in cambio di
riforme realizzata od in avanzato corso di realizzazione, da ottenersi al
Consiglio Europeo di ottobre – è scarsamente attuabile. In primo luogo, è una
strategia che sa tanto di Rapporto Brandt del 1980, quindi ha
ormai esaurito (anche concettualmente) i propri tempi e i propri compiti. In
secondo luogo, comporta non solo una decisione del Consiglio ma una revisione,
o almeno un protocollo interpretativo dei Trattati – tema che nessuno in questa
fase vuole non solo toccare ma neanche sfiorare.
CONSIGLI NON RICHIESTI AL GOVERNO ITALIANO
Mentre a fonte del disagio sociale che permea numerosi
Stati dell’UE, e tenendo presente che la prossima legislatura del PE potrebbe
essere più attenta a tale disagio di quella che volge al tramonto, potrebbe
essere utile puntare su incidere su una politica economica europea maggiormente
“inclusiva” di quella degli ultimi anni, ove non lustri. Attenzione, mentre
altri propongono di integrare la politica economica europea con indicatori
sociali, l’Italia potrebbe ricordare che la politica economica è una ed una
sola. Quindi non si tratta di aggiungere elementi integrativi o complementari,
ma di chiedere che i parametri di stabilità finanziaria (pareggio di bilancio,
tetto all’indebitamento, vincoli sullo stock del debito) abbiano come loro
controparte parametri semplici, chiari e trasparenti del “disagio sociale”, oltre
il quale gli stessi parametri di stabilità finanziaria diventano futili.
COME RILEVARE MEGLIO L’EQUITA’
Ho suggerito altrove che per dare rilievo alla equità
(nella comunicazione politica e pubblica) si dovrebbe utilizzare la crescita o
meno dei redditi e dei consumi della famiglia “mediana” più che del Pil o del
Pil pro-capite; sarebbe un indicatore forse grossolano, ma eloquente
dell’aumento o meno delle diseguaglianze. In secondo luogo, si potrebbe
ampliare “l’indice del disagio” (misery index) elaborato negli anni
Settanta da Arthur Okun (sommatoria di inflazione e disoccupazione)
arricchendolo con il tasso di povertà e il coefficiente di Gini sulle
disuguaglianze. Ne risulterebbe un indicatore abbastanza semplice ma eloquente
per indicare dove la nave va e quali correzioni di rotta apportare.
Naturalmente si potrebbero prendere percorsi più complessi, quali quelli del
rapporto del 2009 redatto da un team guidato da Stiglitz e Fitoussi
su mandato del governo francese o quello che stanno conducendo Cnel e Istat. Ma
la complessità renderebbe più difficile sia un negoziato a 28 sia la
comunicazione con i cittadini. Si potrebbero, poi, gettare le basi per
l’uniformità dei sistemi previdenziali – un vero ostacolo alla mobilità del
lavoro – come primo passo per un’armonizzazione dei sistemi di welfare.
Nessun commento:
Posta un commento