FINANZA E POLITICA/ Gli indici per guidare l'Italia verso la crescita
Pubblicazione: lunedì 12 maggio 2014
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NEWS Economia e Finanza
Ogni anno si svolge allo Château de la Muette, sede
dell’organizzazione, la “settimana Ocse”. Di norma è organizzata in due eventi
distinti, separati da una mezza giornata: il primo è un “forum” a cui
partecipano (in varie sessioni-plenarie, tematiche e “incontri con gli autori”
di libri recenti su argomenti economico sociali) un migliaio di esperti
invitati dall’Ocse; il secondo è la sessione annuale ministeriali dei 34 Stati
membri dell’organizzazione e ha come tema unificante il rapporto sullo stato e
le previsioni dell’economia mondiale presentato (e discusso) nei giorni del
forum.
Quest’anno, i due eventi sono in parte coincisi nel
senso che la “ministeriale” è iniziata nel pomeriggio del giorno in cui si
concludeva il “forum”. Una ragione pratica è che il key note speaker è
stato il Primo Ministro nipponico Shinzo Abe (in occasione del cinquantenario
dell’ingresso del Giappone nell’organizzazione) e che erano presenti esponenti
politici di rilievo dell’Asean (l’associazione degli Stati del Sud-Est
Asiatico), dell’Australia e della Nuova Zelanda per la conclusione di un
accordo di cooperazione tra Ocse e quel “bacino del Pacifico” dove sta nascendo
un mercato comune e si stanno ponendo le fondamenta anche di un vasto accordo
monetario.
La stampa d’informazione ha riferito i dati essenziali
delle previsioni Ocse, giunte, peraltro, quasi in parallelo con quelle della
Commissione europea. Invitato dall’Ocse, ho partecipato a varie sessioni del
“forum” e ne trarrò spunti per interventi su questa testata nelle settimane
successive. A mio avviso, il tema più urgente su cui meditare sono le lezioni
per l’Italia di una settimana all’insegna del binomio resilience (ossia
resistenza alle disavventure, tra cui pure le fasi economiche difficili) e
“crescita inclusiva” (ossia tale da ridurre esclusione sociale e differenze tra
fasce di reddito).
Sono temi che ci toccano da vicino nelle settimane in
cui istituti di ricerca pubblici e privati ci bombardano di dati sul “senso di
sfiducia” degli italiani a fronte del crescere della disoccupazione e
dell’ampliarsi dell’area del disagio sociale. Sono temi che riguardano l’Ocse
in modo asimmetrico: i 50 milioni che cercano lavoro senza trovarlo sono
spalmati in modo differente nelle varie aree; pur tuttavia, anche in quelle
(Asia, Nord America) dove c’è crescita economica i divari tra fasce sociali
stanno aumentando.
Prima di andare sulle terapie, una nota positiva (che
nessun organo di stampa ha diffuso): nel corso del “forum” sono stati
distribuite brevi monografie su come i cittadini dei vari paesi considerano la
loro “qualità della vita” in termini di benessere complessivo. Sono l’esito di
indagini campionarie condotte, seguendo un metodo di uniforme, in un gruppo di
Stati (l’esercizio è ancora in corso). Ebbene, in termini di impegno civile,
senso comunitario, lavoro, ambiente, istruzione, l’Ocse “percepisce” che gli
italiani stanno meglio di americani e svizzeri; meno di loro in termini di
reddito, equilibrio tra lavoro e vita priva, abitazione. Di gran lunga, molto
meglio dei francesi in tutte le categorie dell’indagine.
© Riproduzione Riservata.
Data la nostra tendenza mediterranea alla
melanconia e al “piangersi addosso”, credo sia un dato importante. Mi
spiace che nessuno dei venti giornalisti nostri connazionali presenti al
“forum” abbia dedicato un rigo a questo punto nelle loro
corrispondenze.
Ma andiamo al succo: come diventare più resilient?
E come orchestrare una crescita “maggiormente inclusiva”? Alla prima
domanda deve rispondere ciascuno di noi. I dati sulla percezione della
qualità della vita possono essere un buon punto di partenza per
diventare più forti e darsi coraggio anche in una fase come l’attuale
caratterizzata da anni di difficoltà. I giapponesi, i coreani, gli
americani e i nordici in senso lato sono allevati alla resilience già
da quando sono in fasce. Dovremo farlo anche noi. Iniziando da subito.
Nell’immediato, comunque, la consapevolezza di avere maggiore impegno
civile e senso comunitario dovrebbe indurci ad affrontare con maggiore
autostima le sfide, non certo facili, di fronte a noi.
E la crescita inclusiva? In seno al Cnel,
non solamente è in corso un lavoro con l’Istat per definire indicatori
di benessere complementari a quelli della contabilità economica
nazionale, ma si sta cercando di definire criteri di valutazione per la
spesa pubblica atti a ri-orientarla nei confronti di chi è davvero in
condizioni di bisogno. La prima strada è complessa, la seconda
osteggiata da chi gode di piccoli privilegi.
Si possono fornire scorciatoie operative.
In primo luogo, dare rilievo (nella comunicazione politica e pubblica)
alla crescita o meno dei redditi e dei consumi della famiglia “mediana”
più che del Pil o del Pil pro-capite - sarebbe un indicatore forse
grossolano, ma eloquente dell’aumento o meno delle diseguaglianze. In
secondo luogo, si potrebbe ampliare “l’indice del disagio” (misery index)elaborato
negli anni Settanta da Arthur Okun (sommatoria di inflazione e
disoccupazione) arricchendolo con il tasso di povertà e il coefficiente
di Gini sulle disuguaglianze. Ne risulterebbe un indicatore abbastanza
semplice ma eloquente per indicare dove la nave va e quali correzioni di
rotta apportare.
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