RIFORMA PA/
Gli "inganni" nascosti nel piano di Renzi
Pubblicazione: lunedì 5 maggio 2014
Infophoto
Approfondisci
NEWS Economia e Finanza
Parafrasando il titolo di un film di Sergio Leone che
ebbe grande successo in Italia e all’estero circa mezzo secolo fa, si può dire
che le “linee guida” in materia di riforma della Pubblica amministrazione
presentate dal Presidente del Consiglio e dal Ministro della Funzione Pubblica
hanno del buono, del vecchio e del cattivo. Naturalmente, è difficile entrare
nel merito sino a quando (presumibilmente a metà giugno) non si conosceranno
gli strumenti normativi specifici, ossia i provvedimenti.
In primo luogo, è arduo comprendere perché nel
presentare le misure il “grande comunicatore” non abbia messo l’accento sulle
innovazioni, alcune piccole ma utili, e invece ha assunto il cipiglio del
“vendicatore” di tutti gli italiani per mostrare il vecchio come se si
trattasse di nuovo. La possibilità di licenziare dirigenti difficili da
collocare esiste da anni e così pure il modo di premiare i meritevoli con
congrui premi di risultato e di stangare i “fannulloni” sia nel portafoglio,
sia con trasferimenti a incarichi da loro meno graditi.
Si è avuta l’impressione (auguriamoci sbagliata) che
né il Presidente del Consiglio, né il Ministro della Funzione Pubblica sappiano
quali sono le regole di base della Pubblica amministrazione, specialmente dopo
le leggi Bassanini e Brunetta. D’altronde era possibile fare quella che è stata
chiamata “la rivoluzione” anche prima che Bassanini e Brunetta mettessero mano
all’ordinamento. Nel 1982, appena approdato in Italia dopo tre lustri negli
Usa, nella veste di dirigente generale feci licenziare dal pubblico impiego un
dipendente del Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica per
assenteismo e rendimento scarso (ossia nullo). Feci la stessa cosa nel 1990 al
Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale. Non fu facile né nel primo, né
del secondo caso (poiché dovetti superare l’opposizione del Gabinetto del
Ministro in carica), ma ne trasse beneficio, in termini di morale, tutto
l’ufficio. Nel primo caso, non ci fu neanche un ricorso al Tar. Nel secondo ci
fu: con la conseguenza di un’azione della Procura della Repubblica nei
confronti dell’(ex) dipendente e dei medici della Asl che avevano emesso
certificati fantasiosi, oltre che falsi.
Per graduare la premialità, basta una circolare che
obblighi i dirigenti ad amministrare il premio di risultato con una curva: non
più del 10% del personale può essere valutato “ottimo” e non meno del 10%
“pessimo”, il 50% “medio” e il restante 30% in due categorie tra “pessimo” e
“medio” e tra “medio” e “ottimo”. Mi auguro che da ora a metà giugno questo
provvedimento semplice ma efficace venga adottato. E soprattutto che Premier e
Ministro non mostrino alcun cipiglio nei confronti dei loro collaboratori
istituzionali. Da anni i dipendenti pubblici hanno stipendi bloccati e vengono
additati come la determinante di tutti i malanni del Paese. Potrebbero essere
loro a fare una “rivoluzione silenziosa” e a ricordare a Renzi e altri Ministri
che l’inquilino di Palazzo Chigi (e i suoi collaboratori) sono “precari” e
possono essere sfrattati da un’amministrazione che decide di non essere
“collaborazionista”.
Prima di metter mano a una macchina tanto complessa
come la Pubblica amministrazione occorre chiedersi perché le regole di base
delle riforme Bassanini e Brunetta non sono state applicate. Le ragioni sono
storico-sociologiche. Le illustrò a tutto tondo il Premio Nobel Douglass C.
North nel 1990 nel libro Istituzioni, Cambiamento Istituzionale ed
Evoluzione dell’Economia, 150 pagine che il Presidente del Consiglio e
il Ministro della Funzione Pubblica dovrebbero studiare con cura. Oppure, se
desiderano qualcosa di più fresco, il saggio di Enrico Spolaore e Romain
Wacziarg How Deep are the Roots of Economic Development? nel
fascicolo di giugno 2013 del Journal of Economic Literature. Da questi e altri
lavori si conclude che se non si agisce con astuzia le vecchie regole
si irrigidiscono e impediscono l’arrivo delle nuove.
Tuttavia, all’inizio di questa nota, si è detto che
c’è del buono nel programma delineato. Ad esempio, il dimezzamento dei congedi
sindacali (una forma impropria di finanziamento di associazioni private),
l’abolizione della Covip (che ha fatto principalmente danni con la
proliferazione di 700 fondi pensioni lillipuziani che hanno reso futile la
previdenza integrativa), la concentrazione delle scuole della Pubblica
amministrazione in un unico istituto (dove sarebbe bene riprendere la prassi,
vigente sino al 1998, di reclutare i professori dietro pubblico concorso e non
secondo gli umori o le clientele del “potente” di turno), l’accorpamento di
uffici sparsi sul territorio, la riduzione di numerosi adempimenti diventati
inutili. E via discorrendo.
E su questo buono che occorre operare. Per inciso, che
fine fa l’Aran dato che da anni non si fanno più contratti collettivi nella Pa?
© Riproduzione Riservata.
Nessun commento:
Posta un commento