Les Troyens
di Berlioz alla Scala
Il grande successo - di pubblico
prima che di critica - di Les Troyens di Hector Berlioz pone ancora una volta
l’interessante tema della drammaturgia nelle regie liriche e dell’equilibrio
fra tradizione e innovazione. Alla Scala, in versione integrale, fino al 30
aprile 2014.
Les Troyens di Hector Berlioz – photo Brescia/Amisano
– Teatro alla Scala
Il successo de Les Troyens di Hector Berlioz
ha sorpreso per l’opera, uno tra i capolavori del teatro in musica
francese, fra i meno rappresentati nella versione integrale, non solo in Italia
ma anche nel resto del mondo. Alla Scala è la quarta volta che viene messo in
scena e la prima in versione critica integrale: si entra alle 17.15 e si esce
alla mezzanotte circa, una durata che, unitamente al prezzo dei biglietti (500
euro per una coppia), non invoglia. È lavoro smisurato con un’orchestra enorme,
22 solisti, corpo di ballo, mimi e parti davvero impervie per i tre
protagonisti.
In questa sede ci sembra utile riprendere la discussione sulle regie che Artribune sta portando avanti da tempo. Anche in quanto, in questa stagione scaligera, le regie innovative (quelle ad esempio de La Traviata e Una Sposa per lo Zar) sono stata accolte non male ma malissimo e molti spettacoli proposti sono state riprese spesso piuttosto incolori.
L’ultima volta che in Italia è stata messa in scena Les Troyens è stato al Maggio Musicale Fiorentino del 2002. Di alto livello l’esecuzione musicale: Zubin Mehta festeggiava i suoi quarant’anni di associazione al Maggio e ha letto Les Troyens in chiave monumentale, ma facendo gustare ciascuna nota e ciascuno strumento, senza mai coprire le voci di un cast internazionale dall’impeccabile dizione in francese (grandissimi Jon Villars, Nadja Micheal, Violetta Urmana e Bo Skovhus; bravi tutti gli altri, troppo numerosi per citarli individualmente).
In questa sede ci sembra utile riprendere la discussione sulle regie che Artribune sta portando avanti da tempo. Anche in quanto, in questa stagione scaligera, le regie innovative (quelle ad esempio de La Traviata e Una Sposa per lo Zar) sono stata accolte non male ma malissimo e molti spettacoli proposti sono state riprese spesso piuttosto incolori.
L’ultima volta che in Italia è stata messa in scena Les Troyens è stato al Maggio Musicale Fiorentino del 2002. Di alto livello l’esecuzione musicale: Zubin Mehta festeggiava i suoi quarant’anni di associazione al Maggio e ha letto Les Troyens in chiave monumentale, ma facendo gustare ciascuna nota e ciascuno strumento, senza mai coprire le voci di un cast internazionale dall’impeccabile dizione in francese (grandissimi Jon Villars, Nadja Micheal, Violetta Urmana e Bo Skovhus; bravi tutti gli altri, troppo numerosi per citarli individualmente).
Les Troyens di Hector Berlioz – photo Brescia/Amisano
– Teatro alla Scala
La regia era affidata a Graham Vick, le scene a Tobias
Hoheisel e i costumi a Hoheisel e Ingeborg Berneth. La drammaturgia è stata
inficiata dalla decisione di dividere il lavoro in due parti distinte, con
lunghi cambi-scena, tali da far entrare gli spettatori in teatro alle 15,30 e,
dopo una lunga pausa, di farli uscire alle 24 (nei fine settimana) e di
mostrare le due parte in due serate distinte nelle rappresentazioni
infrasettimanali. Ciò comportava una perdita di ritmo e di tensione anche
quando il lavoro veniva presentato lo stesso giorno, ma con un intervallo di
tre ore tra la prima e la seconda parte. Vick e i suoi collaboratori hanno
tentano una drammaturgia innovativa: in un quadro atemporale, veniva data una
patina pacifista al lavoro (dove si è in tre dei cinque atti in guerra
guerreggiata): i cartaginesi venivano presentati come “partigiani della pace”
in un’egualitaria età della povertà felice, analoga alla Cina vista, nei primi
Anni Sessanta, con gli occhiali di Giorgio La Pira. Ad essi si giustapponevano
i troiani in uniformi da legione straniera se militari, da talebani se
sacerdoti e da bosniaci se civili. Un’interpretazione non banale ma
discutibile. Soprattutto lontana dalle intenzioni di Berlioz il quale, pur
autore anche di musica sacra (senza essere noto per simpatie nei confronti
della Chiesa e dei suoi riti), pone in Les Troyens interrogativi molto
profondi.
Sin dall’età più giovane, Hector Berlioz sognava di ricostruire l’opera lirica francese, che considerava in crisi, partendo o da Shakespeare o da Virgilio. Lavorò incessantemente a ridurre per la scena il primo e il quarto libro dell’Eneide, pensando però a un’epopea dell’umanità quali quelle del passato, dalle versioni più gigantesche della “tragédie lyrique”. I suoi modelli erano Gluck e Spontini: del primo si rifaceva principalmente all’Ifigenia (opere tra le più “guerriere” del compositore) e del secondo alla Vestale e a Fernando Cortes (che di pace e pacifismo hanno ben poco). È vero che i due grandi personaggi femminili de Les Troyens (Cassandra nella prima parte e Didone nella seconda) aborrono la guerra e tentano, in vario modo, di costruire un mondo di pace. Ma Enea, e coloro che fuggono con lui da Troia (il cui motivo conduttore è una marcia militare virilmente marziale), di pacifismo non hanno neanche l’ombra; avendo perso una guerra, con l’inganno (il cavallo di Troia) sono guidati dallo scopo monomaniaco di edificare, alla ripetutissima esclamazione “Italie!”, una nuova città di guerrieri da cui partire alla conquista del mondo. La musica – ad esempio, la frequente presenza di do e gli acuti tenorili – accentua quanto già dice il libretto. Lo fa soprattutto nei momenti descrittivi: il più idilliaco è una “grande caccia reale” (sic!).
Sin dall’età più giovane, Hector Berlioz sognava di ricostruire l’opera lirica francese, che considerava in crisi, partendo o da Shakespeare o da Virgilio. Lavorò incessantemente a ridurre per la scena il primo e il quarto libro dell’Eneide, pensando però a un’epopea dell’umanità quali quelle del passato, dalle versioni più gigantesche della “tragédie lyrique”. I suoi modelli erano Gluck e Spontini: del primo si rifaceva principalmente all’Ifigenia (opere tra le più “guerriere” del compositore) e del secondo alla Vestale e a Fernando Cortes (che di pace e pacifismo hanno ben poco). È vero che i due grandi personaggi femminili de Les Troyens (Cassandra nella prima parte e Didone nella seconda) aborrono la guerra e tentano, in vario modo, di costruire un mondo di pace. Ma Enea, e coloro che fuggono con lui da Troia (il cui motivo conduttore è una marcia militare virilmente marziale), di pacifismo non hanno neanche l’ombra; avendo perso una guerra, con l’inganno (il cavallo di Troia) sono guidati dallo scopo monomaniaco di edificare, alla ripetutissima esclamazione “Italie!”, una nuova città di guerrieri da cui partire alla conquista del mondo. La musica – ad esempio, la frequente presenza di do e gli acuti tenorili – accentua quanto già dice il libretto. Lo fa soprattutto nei momenti descrittivi: il più idilliaco è una “grande caccia reale” (sic!).
Les Troyens di Hector Berlioz – photo Brescia/Amisano
– Teatro alla Scala
Molto differente l’allestimento di David McVicar
(scene di Es Devlin, costumi di Moritz Junge, luci di Wolfgang
Goebble, coreografia di Lynne Page). In primo luogo, occorre pensare
che, per dividere e ammortizzare i costi, il lavoro è una coproduzione: ha
debuttato al Covent Garden di Londra e, dopo le recite alla Scala, andrà alla
Staatsoper di Vienna e alla San Francisco Opera. Teatri grandi il cui pubblico
non apprezza lo sperimentalismo. Ciò non vuol dire che lo scozzese drammaturgo
e regista abbia optato per una lettura oleografica o ancor peggio una messa in
scena da colossal hollywoodiano alla Quo Vadis o Il Gladiatore.
Les Troyens di Hector Berlioz – photo Brescia/Amisano
– Teatro alla Scala
L’azione è spostata all’epoca di Berlioz, con i primi
due atti in un contesto che potrebbe essere la guerra franco-prussiana, e gli
ultimi tre in una Nordafrica che ricorda quella dei primi imperi coloniali. Lo
spettacolo utilizza tutte le tecnologie sceniche disponibili per i complessi
“effetti speciali”, passando da un colpo di scena a un altro. La decisione di
situare il lavoro al tempo in cui è stato concepito non è banale: è presente la
guerra (anzi, le guerre: quella tra greci e troiani nei primi due atti e quella
tra cartaginesi e nubiani nel terzo), ma è sullo sfondo delle tre domande
cruciali che sono il vero fulcro del lavoro. Gli interrogativi ritornano nella
città nord-africana (con colori che ricordano la Casbah di Tunisi e forme che
rammentano Sana, la capitale dello Yemen). L’innovazione viene coniugata quasi
spontaneamente con la tradizione, anche grazie a una recitazione davvero
teatrale. È una ricetta, in questo caso, vincente.
Giuseppe Pennisi
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