IN ITALIA L’OPERA NON E’ VOX POPULI NELL’ANNO DELLE CELEBRAZIONI VERDIANI: ECCO PERCHE’
Giuseppe Pennisi*
Giuseppe Verdi è considerato, a
torto od a ragione, in tutto il mondo come una figura chiave del Risorgimento,
il movimento di unità nazionale che nel Diciannovesimo Secolo, portò alla
formazione del Regno d’Italia. Pure se le sue opere sono spesso contrassegnate
da una generale sfiducia nei confronti della politica, i loro libretti e,
soprattutto, la loro musica infiammavano gli animi di tutti i ceti sociali e
sono state elemento fondante non solo delle tre guerre d’indipendenza ma anche
della prima guerra mondiale con cui si completò l’unità della Nazione. Le opere
verdiani erano la vox populi nel
Paese che alcuni secoli prima era stata la Patria della “musa bizzarra ed
altera” (termine calzante con cui il musicologo tedesco Herbert Lindenberger ha
chiamato l’opera lirica). Le opere di Verdi sono anche le più rappresentate al
mondo (ben 3.020 rappresentazioni nelle stagioni 2007-2008/2011-12 secondo il
censimento effettuato da Operabase, con
un forte distacco rispetto a quelle di Mozart – 2.410-, Puccini – 2.294-, e
Wagner – 1.292, ossia gli altri compositori in testa alla classifica). Di
conseguenza, Verdi è, di fatto, il più importante ambasciatore dell’Italia e
della sua cultura nel resto del mondo.
Eppure il bicentenario della sua
nascita rischia di essere contrassegnato, proprio nel Paese dove è nato ed ha
operato, da celebrazioni povere e prive della risonanza internazionale che
meriterebbero. Con l’eccezione del Teatro alla Scala e del Teatro dell’Opera di
Roma (che hanno messo in cartellone alcune nuove produzioni), gran parte degli
altri teatri tirano fuori dai loro magazzini allestimenti vecchi e polverosi.
Soprattutto, il Festival Verdi – che ogni ottobre riempiva Parma e le terre
verdiane di turisti da tutto il mondo – è virtualmente defunto. Erano corse
voci di un programma articolato su tre nuovi allestimenti –“Otello”, “La Battaglia di Legnano”, “Don
Carlo” (nella versione detta “di Reggio Emilia” in italiano ma in cinque
atti, quella che lo stesso Verdi considerò “definitiva”), nonché una serie di
concerti dell’Orchestra del Teatro Regio diretta da Yury Temirkanov e – come
ormai prassi - la presentazione in brevi concerti delle arie e dei cori
salienti di tutte le altre opere verdiane. Alla scadenza contrattuale del 30
giugno, il Sovrintendente non è stato rinnovato. Non ne è stato nominato uno
nuovo, ma è stato lanciato un concorso internazionale (il cui espletamento
richiederà alcuni mesi). Il Sindaco di Parma ha annunciato un programma
articolato sulla ripresa di un vecchio allestimento di “Rigoletto” firmato da Pierluigi Samaritani (defunto nel 1994) con il
settantenne Leo Nucci come protagonista ed una nuova produzione di “La Battaglia di Legnano” con la regia
dell’ottantaduenne Pier Luigi Pizzi, bilanciata dalla direzione musicale del venticinquenne
Andrea Battistoni e da un cast vocale giovane ed in gran misura non–italiano.
Questo modesto programma viene integrato da un concerto “verdiano” il 10
ottobre, il giorno del 199simo compleanno del compositore. Non solo,
l’orchestra del Teatro Regio di Parma (di cui è formalmente direttore Temirkanov)
è di fatto dismessa e sostituita con la sinfonica Toscanini (per anni, ma non
più da un lustro, guidata da Lorin Maazel). Non c’è ancora segno dei programma
per il 2013, anno del bicentenario, in cui si sarebbe dovuta completare la
registrazione dell’integrale verdiana in una confezione speciale del Teatro
Regio. Gli artisti di qualità, come è noto, vengono ingaggiati con due-tre anni
di anticipo.
La vicenda del Festival Verdi è un
segnale eloquente di come in Italia, negli ultimi cinquant’anni l’opera ha
perso la funzione di vox populi.
Diminuisce il pubblico: anche se le rilevazioni non sono perfettamente
omogenei, dai dati dell’Istituto Nazionale di Statistica risulta che i
biglietti venduti per la lirica sono più che dimezzati dal 1999 al 2000,
passando da circa 9.000 a quasi 3.600 per ogni 100.000 abitanti. Il pubblico
invecchia; oltre la metà degli abbonati supera i 60 anni di età. Le 13 “fondazioni
liriche nazionali” ed i 23 teatri detti di “di tradizione” sono in sempre
maggiori difficoltà finanziarie. E’ utile precisare che le “fondazioni” sono imprese
di diritto privato che operano nella maggiori città ed hanno soci sia pubblici
(il Ministero dei Beni ed Attività Culturali, la Regione, il Comune) sia
privati (banche, imprese). I teatri “di tradizione” operano in città d’arte ed
hanno le più varie configurazioni giuridiche. Sia le “fondazioni” sia i teatri
“di tradizioni” sono in gran misura finanziati tramite il Fondo Unico per lo
Spettacolo (F.U.S) che ha subito drastiche riduzioni nel quadro del programma
di riassetto strutturale e finanziario concordato dall’Italia con l’Unione
Europea. Nel 2010, in seguito a proteste e scioperi del personale delle
fondazioni (circa 6.000 per lo più orchestrali, cori e amministrativi) il Fondo
ha avuto un gettito
autonomo: un’imposta sulla benzina. E’ stata anche varata una nuova normativa-quadro
la cui applicazione inizierà quanto saranno definiti i regolamenti attuativi
(attesi per il 31 dicembre 2012, termine che potrebbe essere prorogato). La
nuova imposta ha tamponato temporaneamente i problemi del settore.
La stagione lirica 2010-2012,
tuttavia, è stata, per cosi dire, inaugurata dal “commissariamento” (ossia lo
scioglimento del Consiglio d’Amministrazione la nomina di un “commissario”
ministeriale per risanare l’ente) di una fondazione – quella di Trieste – che un tempo sembrava
tra le più efficienti d’Italia (ed aveva ben nove turni d’abbonamenti) .Non
solo poche settimane prima del cambio di Governo, l’allora Ministro dei Beni e
delle Attività Culturali Giancarlo Galan (responsabile per il settore), si è
chiesto, a voce alta, se “potremo ancora permetterci “il lusso di andare
all’opera”.
Nell’occasione, Il Ministro ha citato altri teatri a forte rischio: il Comunale
di Bologna, il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, il Carlo Felice di Genova
ed il San Carlo di Napoli. Uscendo dal perimetro delle fondazioni liriche ma
restando nel settore, l’estate 2011 e 2012 il Festival Puccini a Torre del Lago
si è tenuto grazie a supporto in extremis
dall’Estremo Oriente. Per “salvare” alcuni Festival di innegabile
importanza turistica oltre che artistica (il Rossini Opera Festival, Il Puccini
Festival, il Festival di Spoleto ed il Festival di Ravenna, ma non il Festival
Verdi), il Parlamento sta per varare una legge speciale con finanziamenti
addizionali.
I provvedimenti adottati nella primavera 2011 (quando molto sipari
minacciavano di scendere per sempre) sono stati unicamente un sollievo di breve
durata – per i teatri e per gli appassionati di musica lirica - in quanto i
nuovi trattati europei implicano, per l’Italia, manovre di finanza pubblica (aumenti del gettito e riduzione delle spese
pubbliche) di 50 miliardi di euro l'anno
per i prossimi 15-20 anni al fine di portare il debito pubblico dal 123% al 60%
del Pil. Tali manovre non potranno lasciare indenne un comparto che dal 2001 al
2010 ha accumulato perdite per oltre 216 milioni di euro e debiti per oltre 300
milioni di euro. Tra il 2001 ed il 2010, il totale dei contributi pubblici (F:U.S.
più enti territoriali) è passato da 332 a 350 milioni di euro (grazie alla
nuova imposta di scopo); i privati hanno contribuito con una media di 42,5
milioni di euro l'anno; gli incassi da biglietteria hanno raggiunto gli 84,5
milioni di euro (rispetto ai 72,2 milioni di euro nel 2001). In alcuni teatri,
la sovvenzione pubblica media per spettatore pagante raggiunge i 450 euro
rispetto ai 49 al Festival del Tirolo ed ai 130 circa all’Opera Nazionale di
Baviera. I costi totali di produzione sono arrivati a 528,4 milioni di euro;
quelli per il personale sono cresciuti da 280,5 a 316,6 milioni di euro. Una
rappresentazione lirica in Italia costa il 140% della media dell'eurozona, il
250% della media dell'Unione Europeo, anche a ragione di inefficienze difficili
da curare - non solo un numero di dipendenti molto vasto rispetto alla
produzione ma anche abitudini amministrative in certi casi ilari. Ad esempio,
una ventina di anni fa in un teatro vennero presi a nolo i turbanti per il coro
de I Pescatori di Perle a 100.000 lire per sera (ossia tra prova
generale e recite) 800.000 lire a turbante; in un altro, agli inizi degli Anni
Settanta, si preferì prendere a nolo (per non avere problemi di magazzino) le
scarpe delle comparse piuttosto che utilizzare dei copriscarpa di stoffa nonostante
il prezzo d’acquisto di un copriscarpa fosse inferiore al nolo per una sera di
una scarpa.
Pur se tali distorsioni – si spera
- appartengono al passato, nel 2009 (ultimo esercizio per il quale ci sono dati
certificati dalla Corte dei Conti) - le fondazioni liriche italiane hanno messo
in scena in media un’ottantina di recite d'opera ciascuno (dalle 125 della
Scala alle 25 del San Carlo) contro le 226 recite della Staatsoper di Vienna,
le 203 dell'Opernhaus di Zurigo, le 144 dell'Opéra di Parigi, le 177 della
Bayerische Staatsoper di Monaco o le 161 della Royal Opera House di Londra.
Quindi, la produzione dei 6.000 dipendenti e delle centinaia di artisti
scritturati è molto bassa se raffrontata con il resto d’Europa.
Per individuare terapie, occorrono
però dati certi ed aggiornati. Tentare di averli vuol dire addentrarsi in un
vero e proprio labirinto. Pochissime fondazioni liriche (un paio su 13)
pubblicano i bilanci preventivi e consuntivi sui loro siti web (come fanno gran
parte dei teatri stranieri); tre sole istituzioni – la fondazione Arena di
Verona, il Rossini Opera Festival ed il Pergolesi–Spontini – pubblicano il
“Bilancio Sociale” (con stime del valore aggiunto sociale e degli impatti della
collettività). I lavori effettuati dall’Università di Urbino per il Rossini
Opera Festival dimostrano che l’opera lirica può rendere: con una spesa di 5 milioni
di euro, nel periodo del Festival si attiva, a Pesaro e dintorni, un indotto di
11 milioni di euro. Da dati incompleti, peraltro, si ricava che nel 2010 solo
quattro fondazioni non hanno chiuso i conti in perdita: Verona, Roma, Palermo e
Napoli. Mentre, però, i saldi attivi di Verona (156.000 euro), Roma (23.000
euro) e Napoli (4.200 euro) sono quasi trascurabili, unicamente Palermo (sino
al 2005 considerata un pozzo senza fondo, ma da sette anni con bilanci
consuntivi in attivo ) espone un solido attivo di 1,2 milioni di euro. Inoltre,
alcuni delle fondazioni con un modesto saldo attivo hanno un forte debito
iscritto sullo stato patrimoniale: Verona (14,8 milioni di euro), Roma (27,8
milioni di euro) e, soprattutto, Napoli (54,4 milioni di euro). Lo stesso Teatro
Massimo palermitano ha un debito di 12 milioni di euro e La Scala, il più noto
e più prestigioso dei nostri teatri? Il bilancio 2010 chiude con un forte
passivo (9,6 milioni di euro), ripianato dai soci privati.
La svolta effettuata da Palermo
dimostra che è possibile mettersi su un sentiero virtuoso dopo essere stati,
per lustri, su un sentiero peccaminoso. Non bastano, però, singoli esempi per
elaborare una strategia; occorre un quadro completo della situazione
finanziaria, della produttività, delle masse artistiche ed amministrative del
settore. Se e quando dati completi e corredati da serie storiche verranno resi
disponibili si potranno delineare strategie che non siano meramente di breve
periodo, e definire parametri di valutazione e di selezione per distribuire nel
modo più efficiente e più efficace le scarse risorse pubbliche ed incanalare,
con incentivi, le elargizioni liberali di privati. Le difficoltà economiche e
finanziarie possono essere la molla per una strategia di risanamento e sviluppo
che manca da anni. E diventare, quindi, un’opportunità.
I dati frammentari esistenti
suggeriscono una riflessione su alcuni punti. In primo luogo, premiare (come è
prassi ad esempio nell’attuazione dei programmi a valere sui fondi strutturali
europei) le fondazioni che tengono i conti sotto controllo ed hanno alti indici
di produttività. In secondo luogo, attuare meccanismi di matching grants (come
è prassi nel resto del mondo): privilegiare chi ottiene maggiori risorse sul
mercato. In terzo luogo, chiedere che almeno il 70% degli spettacoli sia in
co-produzione per ridurre i costi di allestimenti e scritture (il cachet di un
artista per trenta recite è ben differente da quello per tre recite). In quarto
luogo, prevedere che gli amministratori delle fondazioni che chiudono il
bilancio in rosso per alcuni anni cambino mestiere (e siano passibili di azione
di responsabilità). In quinto luogo, concentrare in una o due istituzioni, le
numerose scuole d’opera create in questi ultimi anni. In sesto luogo, rivedere
le piante organiche e ridurre il personale in eccesso. In settimo luogo,
concentrare le risorse per il balletto in un’istituzione come il Royal Ballet
britannico o l’American Ballet U.S.A. che operi in tutte le maggiori
fondazioni.
Occorre soprattutto riportare il
pubblico a teatro. Ciò è parte responsabilità della politica: solamente adesso
si sta introducendo di nuovo l’istruzione musicale nelle scuole di ogni ordine
e grado (dopo cinquant’anni in cui ha imperato il silenzio) e per decenni
l’attenzione della politica è stata rivolta a cinema e televisione (anche in
termini di supporto pubblico). E’, però, anche e soprattutto compito del
management dei teatri . Non si attira pubblico giovane e non si invoglia una
nuova generazione di spettatori con spettacoli spesso vetusti e stantii che
potevano accontentare il pubblico degli Anni Cinquanta e Settanta ma non alcuna
rilevanza per chi oggi è un ventenne od un trentenne. La critica musicale ha,
senza dubbio, un ruolo importante nello spronare il rinnovamento. Ci sono
segnali importanti, quale l’emergere di registi come Damiano Michieletto,
Francesco Micheli e Lorenzo Mariani. Speriamo che non fuggano all’estero dove,
dopo trent’anni di lavoro in Italia, un innovatore e fautore di produzioni a
basso costo ha fatto Dennis Krief, emigrato a Berlino.
L'opera si salva con dati con azione
concrete per farla tornare ad essere vox populi. “Non è più tempo di
piagnistei”, come disse lo scrittore Piero Bargellini (allora Sindaco di
Firenze) con il fango sino alle ginocchia nella Galleria degli Uffizi il 5
novembre 1966.
Giuseppe Pennisi
insegna all’Università Europea di Roma e collabora a varie testate
giornalistiche in materia sia di economia sia di musica. E’ componente del
Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. Dal 2008 al 2012, presso il
Ministero dei Beni e delle Attività Culturali ha presieduto il Comitato
Tecnico-Scientifico per l’Economia della Cultura ed è stato componente del Consiglio
Superiore.
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