giovedì 17 aprile 2014

IN ITALIA L’OPERA NON E’ VOX POPULI NELL’ANNO DELLE CELEBRAZIONI VERDIANI: ECCO PERCHE’ in 'ORGANIZZAZIONE, GESTIONE E FINANZIAMENTO DEI TEATRI D'OPERA : ESPERIENZE EUROPEE A CONFRONTO'



IN ITALIA L’OPERA NON E’ VOX POPULI NELL’ANNO DELLE CELEBRAZIONI VERDIANI:  ECCO PERCHE’
Giuseppe Pennisi*
Giuseppe Verdi è considerato, a torto od a ragione, in tutto il mondo come una figura chiave del Risorgimento, il movimento di unità nazionale che nel Diciannovesimo Secolo, portò alla formazione del Regno d’Italia. Pure se le sue opere sono spesso contrassegnate da una generale sfiducia nei confronti della politica, i loro libretti e, soprattutto, la loro musica infiammavano gli animi di tutti i ceti sociali e sono state elemento fondante non solo delle tre guerre d’indipendenza ma anche della prima guerra mondiale con cui si completò l’unità della Nazione. Le opere verdiani erano la vox populi nel Paese che alcuni secoli prima era stata la Patria della “musa bizzarra ed altera” (termine calzante con cui il musicologo tedesco Herbert Lindenberger ha chiamato l’opera lirica). Le opere di Verdi sono anche le più rappresentate al mondo (ben 3.020 rappresentazioni nelle stagioni 2007-2008/2011-12 secondo il censimento effettuato da Operabase, con un forte distacco rispetto a quelle di Mozart – 2.410-, Puccini – 2.294-, e Wagner – 1.292, ossia gli altri compositori in testa alla classifica). Di conseguenza, Verdi è, di fatto, il più importante ambasciatore dell’Italia e della sua cultura nel resto del mondo.
Eppure il bicentenario della sua nascita rischia di essere contrassegnato, proprio nel Paese dove è nato ed ha operato, da celebrazioni povere e prive della risonanza internazionale che meriterebbero. Con l’eccezione del Teatro alla Scala e del Teatro dell’Opera di Roma (che hanno messo in cartellone alcune nuove produzioni), gran parte degli altri teatri tirano fuori dai loro magazzini allestimenti vecchi e polverosi. Soprattutto, il Festival Verdi – che ogni ottobre riempiva Parma e le terre verdiane di turisti da tutto il mondo – è virtualmente defunto. Erano corse voci di un programma articolato su tre nuovi allestimenti –“Otello”, “La Battaglia di Legnano”, “Don Carlo” (nella versione detta “di Reggio Emilia” in italiano ma in cinque atti, quella che lo stesso Verdi considerò “definitiva”), nonché una serie di concerti dell’Orchestra del Teatro Regio diretta da Yury Temirkanov e – come ormai prassi - la presentazione in brevi concerti delle arie e dei cori salienti di tutte le altre opere verdiane. Alla scadenza contrattuale del 30 giugno, il Sovrintendente non è stato rinnovato. Non ne è stato nominato uno nuovo, ma è stato lanciato un concorso internazionale (il cui espletamento richiederà alcuni mesi). Il Sindaco di Parma ha annunciato un programma articolato sulla ripresa di un vecchio allestimento di “Rigoletto” firmato da Pierluigi Samaritani (defunto nel 1994) con il settantenne Leo Nucci come protagonista ed una nuova produzione di “La Battaglia di Legnano” con la regia dell’ottantaduenne Pier Luigi Pizzi, bilanciata dalla direzione musicale del venticinquenne Andrea Battistoni e da un cast vocale giovane ed in gran misura non–italiano. Questo modesto programma viene integrato da un concerto “verdiano” il 10 ottobre, il giorno del 199simo compleanno del compositore. Non solo, l’orchestra del Teatro Regio di Parma (di cui è formalmente direttore Temirkanov) è di fatto dismessa e sostituita con la sinfonica Toscanini (per anni, ma non più da un lustro, guidata da Lorin Maazel). Non c’è ancora segno dei programma per il 2013, anno del bicentenario, in cui si sarebbe dovuta completare la registrazione dell’integrale verdiana in una confezione speciale del Teatro Regio. Gli artisti di qualità, come è noto, vengono ingaggiati con due-tre anni di anticipo.
La vicenda del Festival Verdi è un segnale eloquente di come in Italia, negli ultimi cinquant’anni l’opera ha perso la funzione di vox populi. Diminuisce il pubblico: anche se le rilevazioni non sono perfettamente omogenei, dai dati dell’Istituto Nazionale di Statistica risulta che i biglietti venduti per la lirica sono più che dimezzati dal 1999 al 2000, passando da circa 9.000 a quasi 3.600 per ogni 100.000 abitanti. Il pubblico invecchia; oltre la metà degli abbonati supera i 60 anni di età. Le 13 “fondazioni liriche nazionali” ed i 23 teatri detti di “di tradizione” sono in sempre maggiori difficoltà finanziarie. E’ utile precisare che le “fondazioni” sono imprese di diritto privato che operano nella maggiori città ed hanno soci sia pubblici (il Ministero dei Beni ed Attività Culturali, la Regione, il Comune) sia privati (banche, imprese). I teatri “di tradizione” operano in città d’arte ed hanno le più varie configurazioni giuridiche. Sia le “fondazioni” sia i teatri “di tradizioni” sono in gran misura finanziati tramite il Fondo Unico per lo Spettacolo (F.U.S) che ha subito drastiche riduzioni nel quadro del programma di riassetto strutturale e finanziario concordato dall’Italia con l’Unione Europea. Nel 2010, in seguito a proteste e scioperi del personale delle fondazioni (circa 6.000 per lo più orchestrali, cori e amministrativi) il Fondo ha avuto un gettito autonomo: un’imposta sulla benzina. E’ stata anche varata una nuova normativa-quadro la cui applicazione inizierà quanto saranno definiti i regolamenti attuativi (attesi per il 31 dicembre 2012, termine che potrebbe essere prorogato). La nuova imposta ha tamponato temporaneamente i problemi del settore.
La stagione lirica 2010-2012, tuttavia, è stata, per cosi dire, inaugurata dal “commissariamento” (ossia lo scioglimento del Consiglio d’Amministrazione la nomina di un “commissario” ministeriale per risanare l’ente) di una fondazione – quella di Trieste – che un tempo sembrava tra le più efficienti d’Italia (ed aveva ben nove turni d’abbonamenti) .Non solo poche settimane prima del cambio di Governo, l’allora Ministro dei Beni e delle Attività Culturali Giancarlo Galan (responsabile per il settore), si è chiesto, a voce alta, se “potremo ancora permetterci “il lusso di andare all’opera”. Nell’occasione, Il Ministro ha citato altri teatri a forte rischio: il Comunale di Bologna, il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, il Carlo Felice di Genova ed il San Carlo di Napoli. Uscendo dal perimetro delle fondazioni liriche ma restando nel settore, l’estate 2011 e 2012 il Festival Puccini a Torre del Lago si è tenuto grazie a supporto in extremis dall’Estremo Oriente. Per “salvare” alcuni Festival di innegabile importanza turistica oltre che artistica (il Rossini Opera Festival, Il Puccini Festival, il Festival di Spoleto ed il Festival di Ravenna, ma non il Festival Verdi), il Parlamento sta per varare una legge speciale con finanziamenti addizionali.
I provvedimenti adottati nella primavera 2011 (quando molto sipari minacciavano di scendere per sempre) sono stati unicamente un sollievo di breve durata – per i teatri e per gli appassionati di musica lirica - in quanto i nuovi trattati europei implicano, per l’Italia, manovre di finanza pubblica (aumenti del gettito e riduzione delle spese pubbliche) di  50 miliardi di euro l'anno per i prossimi 15-20 anni al fine di portare il debito pubblico dal 123% al 60% del Pil. Tali manovre non potranno lasciare indenne un comparto che dal 2001 al 2010 ha accumulato perdite per oltre 216 milioni di euro e debiti per oltre 300 milioni di euro. Tra il 2001 ed il 2010, il totale dei contributi pubblici (F:U.S. più enti territoriali) è passato da 332 a 350 milioni di euro (grazie alla nuova imposta di scopo); i privati hanno contribuito con una media di 42,5 milioni di euro l'anno; gli incassi da biglietteria hanno raggiunto gli 84,5 milioni di euro (rispetto ai 72,2 milioni di euro nel 2001). In alcuni teatri, la sovvenzione pubblica media per spettatore pagante raggiunge i 450 euro rispetto ai 49 al Festival del Tirolo ed ai 130 circa all’Opera Nazionale di Baviera. I costi totali di produzione sono arrivati a 528,4 milioni di euro; quelli per il personale sono cresciuti da 280,5 a 316,6 milioni di euro. Una rappresentazione lirica in Italia costa il 140% della media dell'eurozona, il 250% della media dell'Unione Europeo, anche a ragione di inefficienze difficili da curare - non solo un numero di dipendenti molto vasto rispetto alla produzione ma anche abitudini amministrative in certi casi ilari. Ad esempio, una ventina di anni fa in un teatro vennero presi a nolo i turbanti per il coro de I Pescatori di Perle a 100.000 lire per sera (ossia tra prova generale e recite) 800.000 lire a turbante; in un altro, agli inizi degli Anni Settanta, si preferì prendere a nolo (per non avere problemi di magazzino) le scarpe delle comparse piuttosto che utilizzare dei copriscarpa di stoffa nonostante il prezzo d’acquisto di un copriscarpa fosse inferiore al nolo per una sera di una scarpa.
Pur se tali distorsioni – si spera - appartengono al passato, nel 2009 (ultimo esercizio per il quale ci sono dati certificati dalla Corte dei Conti) - le fondazioni liriche italiane hanno messo in scena in media un’ottantina di recite d'opera ciascuno (dalle 125 della Scala alle 25 del San Carlo) contro le 226 recite della Staatsoper di Vienna, le 203 dell'Opernhaus di Zurigo, le 144 dell'Opéra di Parigi, le 177 della Bayerische Staatsoper di Monaco o le 161 della Royal Opera House di Londra. Quindi, la produzione dei 6.000 dipendenti e delle centinaia di artisti scritturati è molto bassa se raffrontata con il resto d’Europa.
Per individuare terapie, occorrono però dati certi ed aggiornati. Tentare di averli vuol dire addentrarsi in un vero e proprio labirinto. Pochissime fondazioni liriche (un paio su 13) pubblicano i bilanci preventivi e consuntivi sui loro siti web (come fanno gran parte dei teatri stranieri); tre sole istituzioni – la fondazione Arena di Verona, il Rossini Opera Festival ed il Pergolesi–Spontini – pubblicano il “Bilancio Sociale” (con stime del valore aggiunto sociale e degli impatti della collettività). I lavori effettuati dall’Università di Urbino per il Rossini Opera Festival dimostrano che l’opera lirica può rendere: con una spesa di 5 milioni di euro, nel periodo del Festival si attiva, a Pesaro e dintorni, un indotto di 11 milioni di euro. Da dati incompleti, peraltro, si ricava che nel 2010 solo quattro fondazioni non hanno chiuso i conti in perdita: Verona, Roma, Palermo e Napoli. Mentre, però, i saldi attivi di Verona (156.000 euro), Roma (23.000 euro) e Napoli (4.200 euro) sono quasi trascurabili, unicamente Palermo (sino al 2005 considerata un pozzo senza fondo, ma da sette anni con bilanci consuntivi in attivo ) espone un solido attivo di 1,2 milioni di euro. Inoltre, alcuni delle fondazioni con un modesto saldo attivo hanno un forte debito iscritto sullo stato patrimoniale: Verona (14,8 milioni di euro), Roma (27,8 milioni di euro) e, soprattutto, Napoli (54,4 milioni di euro). Lo stesso Teatro Massimo palermitano ha un debito di 12 milioni di euro e La Scala, il più noto e più prestigioso dei nostri teatri? Il bilancio 2010 chiude con un forte passivo (9,6 milioni di euro), ripianato dai soci privati.
La svolta effettuata da Palermo dimostra che è possibile mettersi su un sentiero virtuoso dopo essere stati, per lustri, su un sentiero peccaminoso. Non bastano, però, singoli esempi per elaborare una strategia; occorre un quadro completo della situazione finanziaria, della produttività, delle masse artistiche ed amministrative del settore. Se e quando dati completi e corredati da serie storiche verranno resi disponibili si potranno delineare strategie che non siano meramente di breve periodo, e definire parametri di valutazione e di selezione per distribuire nel modo più efficiente e più efficace le scarse risorse pubbliche ed incanalare, con incentivi, le elargizioni liberali di privati. Le difficoltà economiche e finanziarie possono essere la molla per una strategia di risanamento e sviluppo che manca da anni. E diventare, quindi, un’opportunità.
I dati frammentari esistenti suggeriscono una riflessione su alcuni punti. In primo luogo, premiare (come è prassi ad esempio nell’attuazione dei programmi a valere sui fondi strutturali europei) le fondazioni che tengono i conti sotto controllo ed hanno alti indici di produttività. In secondo luogo, attuare meccanismi di matching grants (come è prassi nel resto del mondo): privilegiare chi ottiene maggiori risorse sul mercato. In terzo luogo, chiedere che almeno il 70% degli spettacoli sia in co-produzione per ridurre i costi di allestimenti e scritture (il cachet di un artista per trenta recite è ben differente da quello per tre recite). In quarto luogo, prevedere che gli amministratori delle fondazioni che chiudono il bilancio in rosso per alcuni anni cambino mestiere (e siano passibili di azione di responsabilità). In quinto luogo, concentrare in una o due istituzioni, le numerose scuole d’opera create in questi ultimi anni. In sesto luogo, rivedere le piante organiche e ridurre il personale in eccesso. In settimo luogo, concentrare le risorse per il balletto in un’istituzione come il Royal Ballet britannico o l’American Ballet U.S.A. che operi in tutte le maggiori fondazioni.
Occorre soprattutto riportare il pubblico a teatro. Ciò è parte responsabilità della politica: solamente adesso si sta introducendo di nuovo l’istruzione musicale nelle scuole di ogni ordine e grado (dopo cinquant’anni in cui ha imperato il silenzio) e per decenni l’attenzione della politica è stata rivolta a cinema e televisione (anche in termini di supporto pubblico). E’, però, anche e soprattutto compito del management dei teatri . Non si attira pubblico giovane e non si invoglia una nuova generazione di spettatori con spettacoli spesso vetusti e stantii che potevano accontentare il pubblico degli Anni Cinquanta e Settanta ma non alcuna rilevanza per chi oggi è un ventenne od un trentenne. La critica musicale ha, senza dubbio, un ruolo importante nello spronare il rinnovamento. Ci sono segnali importanti, quale l’emergere di registi come Damiano Michieletto, Francesco Micheli e Lorenzo Mariani. Speriamo che non fuggano all’estero dove, dopo trent’anni di lavoro in Italia, un innovatore e fautore di produzioni a basso costo ha fatto Dennis Krief, emigrato a Berlino.
L'opera si salva con dati con azione concrete per farla tornare ad essere vox populi. “Non è più tempo di piagnistei”, come disse lo scrittore Piero Bargellini (allora Sindaco di Firenze) con il fango sino alle ginocchia nella Galleria degli Uffizi il 5 novembre 1966.
Giuseppe Pennisi insegna all’Università Europea di Roma e collabora a varie testate giornalistiche in materia sia di economia sia di musica. E’ componente del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. Dal 2008 al 2012, presso il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali ha presieduto il Comitato Tecnico-Scientifico per l’Economia della Cultura ed è stato componente del Consiglio Superiore.

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