In questo mese di
maggio si celebra un evento importante: la rinascita del dramma antico al
Teatro Greco di Siracusa dove, dal 9 maggio al 22 giugno, saranno in scena le
tre tragedie che comprendono l’Orestea di Eschilo (l’unica trilogia
giuntaci integralmente) – Agamennone con la regia di Luca De Fusco, Coefore/Eumenidi con
la regia di Daniele Salvo – e la
commedia Le Vespe di Aristofane, una dura parodia contro la
malagiustizia e la professione forense, con la regia di Mario Avogadro. A questo cuore
delle celebrazioni, si affiancano altre
attività:, una tournée dello spettacolo Verso Argo di Eva Cantarella, in cui si raccontano
le premesse della trilogia di Eschilo (la caduta di Troia e la deportazione
delle principesse troiane), una serie di spettacoli collaterali dal 22 al 31
maggio e dal 5 al 21 giugno, il 20esimo festival internazionale del teatro
classico dei giovani dal 12 al 31 maggio, con la partecipazione di 75 scuole
provenienti dall’Italia e dall’estero (tra cui già confermate Lituania, la
Scuola Russa di Malta, Francia, Belgio e Grecia), e convegni (tra cui una lectio
magistralis di Massimo Cacciari). In breve, un centenario da non mancare.
Il 16 aprile 1914,
pochi mesi prima dello scoppio della Grande Guerre,iniziò il primo Ciclo di
Spettacoli Classici nel Teatro Greco di con l’Agamennone di Eschilo. Paolo Orsi, archeologo e
Sovrintendente all’Antichità, suggerì al Conte Mario Tommaso Gargallo,
promotore dell’iniziativa, il nome di Ettore Romagnoli, che curò la traduzione
dell’opera, la direzione artistica e la scelta delle musiche. Le scene furono
realizzate da Duilio Cambellotti,
i costumi da Bruno Puozzo e il
primo manifesto da Leopoldo Metlikovic.
Nel 1927 la commedia entrò a far parte – con la messa in scena delle Nuvole
di Aristofane.
In effetti non era
la prima volta che tragedie antiche (oppure drammi ed anche opere liriche di
argomento classico) venivano riproposte in teatri antichi. C’erano stati esempi
sporadici in Italia già nel Seicento. Una grande opera non sembra sia stata
tentata però prima del 1874 quando nel teatro di Orange la Norma di Bellini è
data con grande pompa; nel 1888, nello stesso teatro romano riappare l'Edipo
Re di Sofocle, interpretato dal Mounet-Sully, cui seguono ben presto
tragedie antiche e lavori di carattere classico, negli antichi teatri di Arles,
Camplieu, Cartagine, nell'Arena di Nimes.In Italia una rinascita del teatro
all'aperto, già vagheggiata da D'Annunzio nel 1898, si ha nel 1902 per
iniziativa di Angiolo Orvieto e Augusto Franchetti, con l'Edipo Re,
rappresentato nel teatro romano di Fiesole. Con questo spettacolo può dirsi che
le rappresentazioni classiche nei teatri antichi trovarono un clima di singolare
perfezione in Italia. Riprese due anni dopo a Fiesole con Le Baccanti di
Euripide, tradotte da Ettore Romagnoli Solo con i Cicli inaugurati nel 1914 a Siracusa avvenne una ripresa
sistematica e non sporadica del dramma antico riproposto nei luoghi e negli
spazi dove è nato. Creato nel 1925 l'Istituto nazionale del dramma antico,orapromuove gli spettacoli siracusani, e attraverso il suo riordinamento
del 1929 estende la sua iniziativa e coordina gli spettacoli classici
all'aperto in tutta Italia (Paestum, Taormina, Agrigento, Pompei, Ostia, ecc.) e
pubblica nel bollettino Dioniso,
gli studî sul teatro antico. Anche in Grecia (Atene, Delfi) da qualche anno si
sono avute recite di dramma greco nel testo originale. Tuttavia , la
pubblicistica internazionale riconosce solo a Siracusa di avere ‘fama mondiale’
e di presentare ‘ i capolavori del teatro ellenico con interpretazione che
muove nei suoi elementi dallo spirito antico, ma non è fredda restituzione
scientifica di elementi antichi’.Solo le guerre mondiali hanno interrotto il
cammino della ‘rinascita’ della tragedia greca.
Quando uscirà questo articolo, si saprà se il Parlamento Europeo
ha approvato il compromesso sul secondo pilastro di quella che dovrebbe essere
l’unione bancaria europea faticosamente raggiunto tra numerosi soggetti a fine
marzo. E sarà in corso una campagna elettorale europea in cui negli Stati
dell’eurozona, numerosi partiti e candidati si presentano , in vario modi,
ostili alla moneta unica echiedono in
diversa misura cambiamenti delle regole che presiedono al suo funzionamento:
dall’abolizione a modifiche profonde del Fiscal
Compact a cambiamenti di dettaglio a questa o quella norma.
In questa rubrica, e nel quotidiano telematico a cui la rivista è
associata, sosteniamo da mesi che, anche ove il secondo pilastro dell’unione
bancaria venisse approvato, è urgente fare un tagliando complessivo al Trattato
di Maastricht ad un quarto di secolo circa da quando lo si è negoziato.
Soprattutto in quanto la situazione economia europea – prima ancora che
mondiale – ha avuto un’evoluzione molto differente da quella concepita, nel
1990-91, dai ‘padri fondatori’ dell’unione monetaria. Allora si pensava che
grazie alla clausole del Trattato si sarebbe andati non proprio verso l’area
valutaria ottimale teorizzata da Robert Mundell ma verso una convergenza delle
economie degli Stati aderenti all’euro. E’ sotto gli occhi di tutti, invece,
una sempre più insidiosa divergenza con sempre più gravi risvolti economici,
sociali e politici.
Da anni, in effetti, si sta riscrivendo il Trattato di Maastricht.
Ma a pezzi e bocconi. Per tamponare questa o quella crisi e fare fronte ad
emergenze , m senza una chiara idea , per utilizzare il linguaggio colloquiale,
su dove si andrà a parare. Già nel 2005 , un ‘protocollo interpretativo’
allentò i vincoli, togliendo (allora) le castagne dal fuoco a Francia e
Germania. Di fronte alla crisi della Repubblica Ellenica si reagì creando fondi
ed istituzioni che sarebbero anatema in un’area valutaria ottimale in linea con
il teorema per cui Mundell si meritò il Nobel per l’Economia. Oggi si sta creando
un’unione bancaria con pilastri pendenti; si può solo augurare che abbiano le
qualità della torre nella pisana Piazza dei Miracoli.
Occorre ricordarsi , in piena buona fede, che il Trattato di
Maastricht è stato redatto frettolosamente, sotto la spinta delle conseguenze
dell’unificazione tedesca sul resto d’Europa. È naturale , non solo corretto, che le istituzioni e le norme “evolvano”.
E che i ‘tagliandi’ sono utili alle norme come alle automobili. Senza un quadro
di riferimento, c’è il pericolo che tra qualche anno l’eurozona assomigli al
vestito d’Arlecchino – una serie di toppe multicolori , oggetto di infinite
vertenze giuridiche sulla loro interpretazione ed applicazione.
Tra poche settimane, l’Italiapresiederà gli organi di governo dell’Unione Europea (UE): perché non cogliere
l’occasione non necessariamente di rinegoziare il Trattato di Maastricht ma di
giungere ad un chiarimento su dove si vuole arrivare e come si vuole farlo?
Soprattutto se prima di allora avremmo dato prova che stiamo rimettendo ordine
a casa nostra.
Domenica 27 aprile, dopo la cerimonia della doppia canonizzazione, il
presidente della Repubblica Giorgio Napolitano
(accompagnato dalla signora Clio) ed il Presidente della Commissione Europea Barroso
sono andati al Parco della Musica ad ascoltare un concerto diretto da Antonio
Pappano. Li ha attirati soprattutto il tema del concerto: la
libertà, letta tramite la scena della prigione di “Fidelio” e gli ultimi due
movimenti della nona sinfonia di Beethoven ed il “Prigioniero” di Dallapiccola
– grande capolavoro poco eseguito in Italia. Riservandomi di commentare altrove
il concerto credo sia importante ricordare la figura e l’opera di Dallapiccola
(ed il significato che essa ha) perché sul grande didatta e compositore è stata
posta una coltre di oblio. Luigi Dallapiccola (nella foto) è nato il 3
febbraio 1904 a Pisino (oggi Pazin), allora parte dell’Impero austro-ungarico.
Figlio di un insegnante di lingue classiche diventato preside del locale
“Realgymnasium”, imbevuto sin da giovane di cultura mittleuropea, ha potuto
ascoltare a 13-14 anni, quando nel 1917 la sua famiglia era stata posta al
confino a Graz quasi tutto Wagner, un bel po’ di Mozart
e Weber. Una rappresentazione dell’”Olandese Volante” di
Wagner lo convinse ad abbracciare la carriera di musicista. Nel dopoguerra, a
Trieste, dove seguiva lezioni di pianoforte, apprese la teoria di Schönberg; la
dodecafonia entrò nelle sue vene. Approdò a Firenze, che divenne la sua Patria
di elezione, nel 1922. L’intenzione era di studiare al Conservatorio Cherubini
per diventare pianista; nel 1924 ebbe l’opportunità di ascoltare “Pierrot
Lunaire” diretto da Schönberg in persona; decise di diventare
compositore. Divenne uno dei più importanti del secolo appena terminato. Pure Renzo Cresti, notoriamente poco estimatore della
musica del Novecento “storico” in quanto “appassionato della più stretta
contemporaneità”, ricorda che “è stato “uno dei punti di riferimento dei musici
fiorentini”. Dati i suoi frequenti soggiorni all’estero, soprattutto negli
Stati Uniti sia negli Anni Trenta sia negli Anni Cinquanta e Sessanta, sarebbe
più corretto dire che è stato un punto di riferimento per tutta la musica
contemporanea: in un libro del 1978, quindi solo pochi anni dopo la morte di
Dallapiccola (19 febbraio 1975, a Firenze, in seguito ad un edema polmonare),
il musicologo americano, Ethan Morden definisce l’atto unico
“Il prigioniero” come “l’esperienza ultima ed estrema del viaggio dell’opera
moderna alla volta del mito”. In occasione del centenario dalla nascita, era, doveroso
che la Fondazione del Maggio Musicale lo celebrasse in grande stile, con nuovi
allestimenti di due delle sue opere più significative “Volo di notte” e “Il
prigioniero”, nonché chiamando uno dei maggiori direttori d’orchestra, Bruno
Bartoletti (fiorentinissimo pure lui) specializzato nel repertorio del
Novecento. Spulciando sul web, ci si accorge che per il centenario, la Radio
Vaticana ha dedicato a Dallapiccola un ciclo di 13 trasmissioni e la Rai di 10;
l’Accademia di Santa Cecilia ha eseguito l’oratorio scenico “Job”, l’Orchestra
di Roma e del Lazio “la piccola serenata lunare”; il Teatro Massimo di Catania
ha abbinato “Job” a “Il prigioniero”; a Città del Messico e a Buenos Aires è
stato messo in scena un nuovo allestimento de “Il prigioniero” (opera spesso
presente nei cartelloni di numerosi teatri, grandi e piccoli, della Germania e
dell’Europa Centrale); a Cesena è stato messo in scena “Il Volo di notte”
(coniugandolo con “Cavalleria Rusticana”); a Milano altra esecuzione, in forma
di concerto, de “Il volo di notte”; le maggiori città tedesche ed alcuni grandi
città americane hanno ospitato serate monografiche a musica di Dallapiccola; il
conservatorio di Pisa ha organizzato un ciclo di nove conferenze ed una serie
di concerti; alla Settimana Musicale Senese sono stati eseguiti “I canti di
prigionia”. Per non citare che le iniziative più importanti. “Il prigioniero” –
che io ricordi – è stato ripreso nel 2011 a Modena e Bologna con un’ottima
direzione di Michele Mariotti. Non è, quindi, mancata l’attenzione del mondo della musica,
non solo italiana. Ci sono stati nei: a Roma si è fatto oggettivamente troppo
poco, a Palermo è stato cancellato, quasi all’ultimo momento, il programma
predisposto dal Massimo (in co-produzione con Catania, dove è invece andato in
scena) e, soprattutto, nessun sovrintendente di teatri italiani ha trovato il
coraggio di allestire il capolavoro ultimo, quell’Ulisse” a cui Dallapiccola ha
lavorato per quasi metà della sua vita e con il quale voleva trasmettere il
significato dell’esistenza per l’intellettuale che attraversa il Novecento, “il
secolo breve”, secondo la definizione dello storico marxista Erich J.
Hobsbawm. Il neo più significativo, però, è il fatto che non si sia
utilizzato il centenario per una riflessione non solo tecnico-musicale ma sul
ruolo di un intellettuale del valore e dell’importanza di Dallapiccola nella
società italiana proprio in quel “secolo breve” ma non così distante. Iniziamo con una riflessione a carattere editoriale. Si è
fatto cenno al ruolo di Dallapiccola nello sviluppo della musica del Novecento
a livello mondiale. In Italia, esiste una bibliografia, per così dire,
nostrana, ad opera, però, principalmente di pochi autori (Fiamma
Nicolodi, Sandro Perotti, Luigi Pestazzola, Giordano Montecchi, Sergio Sablich)
pubblicata da case editrici universitarie; l’opera maggiore, e più diffusa, è
quella di un tedesco, Dietrich Kämper. Se il panorama cartaceo
è triste, quello discografico è tragico. Elvio Giudici,
critico musicale de “Il Diario”, non cita neanche Dallapiccola nella
monumentale (2000 pagine a stampa fitta) nuova edizione ampliata de “L’opera in
cd e video”. Una ricerca di Giuseppe Rossi individua solo
poche edizioni (prevalentemente in tedesco od in inglese) de “Il prigioniero”;
l’unica trovabile (con difficoltà) in commercio in Italia è quella (molto
diseguale) diretta da Esa-Pekka Salonen dieci anni fa per la
radio svedese. Mi considero fortunato a possedere l’edizione (in italiano)
curata nel 1975 da Antál Dorati (in LP poiché mai riversata in
CD) ed ho per puro caso trovato in un negozio di dischi di Washington in via di
dismissione il CD di un’edizione di “Ulisse” diretta da Ernest Bour
(e con Claudio Desideri come protagonista) in occasione di una
trasmissione radiofonica in Francia. Come mai le case discografiche – neanche
quelle di punta come Dynamic o Bongiovanni – ha mai pensato di registrare “Volo
di notte”, pur riconosciuto come una svolta capitale del teatro in musica del
Novecento? Per comprenderlo, occorre scavare in Dallapiccola e
nell’accezione che il “secolo breve” assunse in Italia – fine dello stato
liberale nel primo dopoguerra, fascismo, seconda guerra mondiale, bipartitismo
imperfetto all’insegna del fattore “K”, terrorismo. Dallapiccola – si pensi –
nacque mentre sonavano i rintocchi del requiem per un Impero defunto e morì nel
bel mezzo della notte della Repubblica. Istriano, imbevuto di cultura
dodecafonica non ebbe difficoltà a prendere decisamente posizione tra le due
scuole che – come narra efficacemente Stefano Biguzzi – si
contendevano l’attenzione del Capo del Governo (che, in effetti, guidava in
proprio la politica musicale entrandone anche nei dettagli): quella dei tradizionalisti
(guidata da un Mascagni, ex-socialista come Mussolini, ma con
una vocazione inarrestabile al carrierismo) e quella dell’avanguardia (Casella,
Malipiero, Rota, Alfano, Castelnuovo Tedesco). Dallapiccola aderì anima e corpo alla seconda e fu,
nonostante la giovane età, tra gli animatori dei festival internazionali di
musica contemporanea di Venezia – il primo tenuto nel settembre 1930 e gli
altri a cadenza biennale sino al 1942 – con il quale il fascismo intendeva
offrire una controproposta a Salisburgo. Attorno alle biennali, riuscì a
raccogliere il meglio della musica contemporanea dell’epoca (in primo luogo Stravinskij
che stabilì un’amicizia forte e personale con Mussolini sino a seconda guerra
mondiale ben inoltrata; tra gli altri, Milhaud, Gershwin, Prokofiev,
Honneger, De Falla, Walton, Bartók, Krenek, Hindemith, Bloch, Scherchen, Berg
– quindi anche molti di in Germania al bando in quanto “degenerati”). Aveva vinto la cattedra di pianoforte al Conservatorio
“Cherubini” di Firenze, ma furono le sue attività per la musica d’avanguardia
(seguita da Palazzo Venezia con un’attenzione molto maggiore di quella che
riceveva al MinCulPop) a farlo nominare “per chiara fama” titolare della
cattedra di composizione: aveva acquisito reputazione internazionale con
“Partita” e con “I cori di Michelangelo Buonarroti il Giovane”. Tenne la
cattedra molto poco; avendo sposato nel 1938, Laura Luzzato
(ebrea), la cui collaborazione incise non poco per tutta la sua vita
(specialmente nella scelta dei testi letterari), si dimise all’emanazioni delle
leggi razziali per tornare, sempre al “Cherubini”, a insegnare pianoforte. Una rottura con il fascismo? Stava scrivendo e componendo
“Volo di notte”, costruita proprio su alcuni punti forti di quella che allora
veniva chiamata la “dottrina del fascismo”. Dopo qualche tempo, mentre proprio
a Firenze imperversava la seconda guerra mondiale, lavorava a “Il prigioniero”
– vietato, sino a tempi recenti, in molti Paesi dell’Europa centrale ed
orientale. Il nesso tra le due opere è una frase di Nietzsche che Dallapiccola
amava ripetere: “E se tu guardi a lungo dentro l’abisso, anche l’abisso guarda
dentro di te”. Nel “Volo” si specchia nell’abisso Rivière, manager di una
compagnia aerea ed ideatore di un programma innovativo di traversate notturne
per portare il corriere da una parte all’altra dell’America Latina, nonché
dall’Argentina all’Europa; la forza dell’idea deve vincere sulla debolezza
umana ed i suoi tentennamenti, perché “solo l’avvenimento in cammino ha
importanza”. Ne “Il prigioniero” è il protagonista a specchiarsi nell’abisso:
la voce suadente del suo carceriere gli infligge l’ultima tortura – la speranza
della liberazione – prima di consegnarlo al Grande Inquisitore ed al rogo. Curioso destino quello dell’accoglienza delle due opere di
Dallapiccola. Nel 1940, “Volo” venne considerata come un’opera fascista (un pò
per il tema ma soprattutto per l’ardita struttura musicale in cui dodecafonia
si fondeva con tradizione). Anche se “Il Popolo d’Italia” trovò che la partitura
poteva interessare solo “certe minoranze intellettuali” e che il tema non era
tale da “tonificare i nervi ed animare l’entusiamo dei nostri aviatori”, ne “Il
Lavoro” si sottolineò che l’opera mostra “fede, forza e preparazione per
agitare in avanti la fiaccola della giovane musica italiana del tempo di
Mussolini”. Nonostante la sua esecuzione in Germania venne subito vietata dalla
Reichsdramaturgie, il Capo del Governo in persona volle che “Volo” venisse
rappresentato al Teatro Reale dell’Opera Roma nel 1942, quasi a ridosso del
“Wozzeck” di Alban Berg – altro lavoro all’indice nel Reich. Nel 1950, “Il prigioniero” venne accusata di anti-comunismo
viscerale (sono evidenti i nessi con Koestler, Sirone ed i lavori “dissidenti”
di Sartre), nonché di essere “un groviglio di suoni tale che neanche l’orecchio
più educato e più svelto riuscirebbe a districare” (così scrisse “L’Unità”). Da
allora, si sono avuti una diecina di allestimenti di “Volo” in Italia (non ho
contezza di quelli all’estero) ed una settantina di produzioni de “Il
prigioniero” nel mondo (frequentissimi, dalla fine degli Anni Ottanta quelli in
Europa centrale ed orientale). In “Volo di notte”, tratto dall’omonimo romanzo di Antoine
de Saint-Exupéry, l’abisso ed il suo specchio sono in un interrogativo:
si può mettere a repentaglio la vita umana unicamente per un progetto (nel caso
di innovazione tecnologica e commerciale)? I 23 capitoli del romanzo snodano
una vicenda complessa che nell’arco di una sola notte si svolge in vari Paesi
andini. Dallapiccola la sintetizza in sei scene con rigorosa unità di tempo e
di luogo e sceglie una chiave precisa di lettura (molto forte se posta nel
contesto del 1938-39 quando venne scritta e composta): la forza dell’idea sulla
debolezza umana e sui suoi tentennamenti. Pure “Il prigioniero” nasce da un
racconto, di Villiers de l’Isle-Adam. Il libretto venne scritto nel 1942-44, la
“prima” si ebbe al “Comunale” nel 1950. Un prologo ed un atto i cui
protagonisti sono stereotipi archetipi (la madre, il prigioniero, il
carceriere, il grande inquisitore, i sacerdoti, il frate) è ambientato nella
Spagna della Controriforma: l’”abisso” è nella speranza di liberazione, ultima
tortura prima dell’esecuzione. Un rimpianto. Perché Firenze – o un’altra grande
fondazione lirica italiana – non ha colto l’occasione per mettere in scena il
capolavoro ultimo di Dallapiccola, quell’”Ulisse” (un prologo e due atti),
rappresentato a Berlino (in tedesco) nel 1968 (dirigeva Lorin Maazel)?
In Italia ci sono state solo tre rappresentazioni sceniche (a fronte delle 25
de “Il prigioniero”) di cui l’ultima nel lontano 1986, a Torino. “Ulisse” è
l’approdo sia musicale sia filosofico di Dallapiccola. La dodecafonia si
dissolve in lirica sublime. Al termine del viaggio alla ricerca del significato
dell’esistenza, Ulisse non guarda più nell’abisso, ma scoperto “l’Essere
superiore” può dire:”non più soli sono il mio cuore ed il mare”. Ecco alcune foto dell’evento
Entra nella galassia dei diritto tributario italiano
un nuovo strumento: lo spesometro. Già il nome fa paura: ricorda i
film horror giapponesi o coreani, dove pullulano le camere e gli strumenti di
tortura. Sappiamo a chi non va giù: a tutti coloro (il 90% degli italiani) che
si troveranno a dovere compilare moduli telematici che finiranno in un
“cervellone” per decifrare il quale si dovrà fare appello alla Spectre dei
film di James Bond o mettere su un apparato burocratico da Unione Sovietica.
Chiediamoci chi sono gli amici dello spesometro.
In primo luogo, coloro che lo hanno invitato. Gratta gratta, si scopre che sono
la stessa squadra che negli Anni Novanta ha inventato la DIT (Dual Income
Tax) ed in tempi più recenti si è occupata di tassazione
sull’edilizia. Passano allegramente da flop a flop, promuovendosi a vicenda e
senza curarsi del resto degli italiani. That is the world, come
scrisse nell’incipit del suo capolavoro (A Bend in the River) il
premio Nobel Naipul.
Altri amici sono gli evasori di professione,
specialmente i grandi evasori: quanto più si complica il sistema tanto più si
amplia l’area delle transazioni non ufficiali (magari inventandosi unità di
transazione come i bitcoin) e tanto più è facile sfuggire al fisco
e farla in barba agli inventori dello speso metro.
Non occorre essere esperti di scienza delle finanze.
Manzoni ne I Promessi Sposi lo descrive con accuratezza. Da un
lato, la Lombardia governata dagli spagnoli con miriadi di norme e ‘grida’ per assicurare
che tutti si comportino bene: abbondano i Don Rodrigo, i Conte Zio, le Monache
di Monza e tanti altri trasgressori. Non solo ma l’Himalaya di norme porta alla
carestia ed alle lotte per un pezzo di pane e quando si scatena un’epidemia i
governanti hanno la geniale idea di mettere malati e a rischio di contagio tra
quattro mura (il Lazzaretto) così che si giunge a pandemia.
Dall’altra parte dell’Adda, dove si è rifugiato Renzo, il quadro è ben diverso:
poche norme, ma condivise, forte controllo sociale non burocratico o
poliziesco: le attività produttive prosperano, il grado di osservanza fiscale è
elevato, la salute della popolazione buona.
Non voglio dire che quella parte degli amici
dello spesometro che ha inventato lo strumento non abbia
ottime intenzioni. Le ha probabilmente avute anche a riguardo della DIT e della
tassazione edilizia. Senza escogitare rimedi controproducenti, basterebbe
imitare il sistema americano di contrapposizione di interessi nelle
transazioni: ampie deduzioni giustificate da prova di pagamento.
Che suggerire che facciano dopo il fallimento prossimo
venturo? Tornino al liceo, a studiare I Promessi Sposi. Oppure
vengano inviati, dalla Cooperazione allo Sviluppo, per alcuni anni nel Sudan
del Sud. Di guai lì che ne sono già tanti che potranno fare poco male
aggiuntivo.