OEconomicus
di Giuseppe Pennisi
Consigliere del Cnel e docente
presso l’Università europea di Roma
È senza dubbio imbarazzante. Nel
rapporto sulle “Scelte di Politica
estera dell’Italia” (datato – è
vero – 2009, ma con un orizzonte
al 2020) si sosteneva che la
cooperazione allo sviluppo è una
delle priorità principali dell’azione
internazionale della nazione.
Siamo anche uno dei pochi Paesi
industrializzati ad economia di
mercato che ha un ministro incaricato
della cooperazione internazionale.
Eppure, nelle classifiche
del Comitato di aiuto allo sviluppo
dell’Ocse, siamo il fanalino di coda
con un aiuto ufficiale allo sviluppo
inferiore allo 0,15% del Pil (rispetto
all’obiettivo Onu di portarlo,
e tenerlo, a livelli superiori allo
0,7% del Pil), inferiore pure allo
sforzo di quella Grecia da tempo
sull’orlo dell’insolvenza. Oltre che
imbarazzante è pericoloso: come
possiamo essere i capofila di un
gruppo di Stati (ed avere, quindi,
un seggio) al Fondo monetario
internazionale, alla Banca mondiale
e alle altre Banche regionali
di sviluppo? Nelle stesse Nazioni
unite, e relative agenzie specializzate,
siamo trattati come chi fa
promesse da marinaio.
Quando il programma italiano di
cooperazione allo sviluppo prese
consistenza – ossia all’inizio degli
anni Ottanta – eravamo privi di
esperienza. E vennero commessi
errori sia nella cooperazione bilaterale
sia nei cosiddetti “contributi
volontari” alle agenzie multilaterali.
Senza entrare nelle vicende che
hanno portato la procura della
Repubblica a entrare negli uffici
della direzione generale pertinente,
basti pensare a progetti bilaterali
dai costi stratosferici e benefici
poco consistenti, alla mancanza di
procedure e metodi di valutazione,
al non avere creato un ruolo tecnico
specialistico. Tra i “contributi
volontari” basti pensare al Centro
di formazione internazionale di
Torino di cui l’Italia è rimasta quasi
l’unico finanziatore perché ha per
anni sfoggiato i costi unitari più alti
al mondo e programmi grotteschi
(quali la formazione in riva al Po di
donne vietnamite in artigianato del
sudest asiatico). Indubbiamente
c’è molto da migliorare nel bilaterale,
dove i “contributi volontari”
hanno portato ad elefanti bianchi
che non hanno attirato (dopo 60
anni, sic!) apporti finanziari da altri,
meglio chiudere bottega al più
presto – prima di ulteriori danni.
Ciò non vuole dire, però, che, nonostante
le ristrettezze finanziarie,
l’Italia non debba tornare ad essere
se non protagonista almeno
uno degli attori significativi della
cooperazione internazionale allo
sviluppo.
Come farlo? Per decenni, alcuni
Stati (ad esempio quelli del nord
Europa) hanno concentrato le
risorse disponibili unicamente su
poche aree e su pochissimi settori,
creandosi un corpo specializzato
tanto nelle zone quanto nei comparti
specifici. Dato che, ai livelli
a cui siamo arrivati, si tratta non
di ripartire ma di iniziare di nuovo,
occorre evitare la dispersione delle
poche risorse in piccoli progetti a
pioggia e in settori in cui abbiamo
poca tradizione ed esperienza. Il
gruppo nordico, ad esempio, opera
quasi esclusivamente in alcune
aree della vasta regione a sud del
Sahara dove la “good governance”
è praticata dai governi locali, e
concentra le proprie azioni negli
aiuti alla formazione e allo sviluppo
rurale. È molto parco nella concessione
di “contributi volontari”
ad agenzie internazionali perché
tali somme vanno, in gran misura,
a finanziare apparati burocratici.
Sostiene invece le associazioni
di volontariato che lavorano per
migliorare le condizioni degli “ultimi
tra gli ultimi”. L’Italia potrebbe
concentrarsi nel Mediterraneo
e contribuire, con formazione e
enfasi sullo sviluppo agricolo, alla
Primavera araba e alla lunga strada
verso la pace nella regione.
Principi di buon senso come questi
ci permetterebbero di toglierci
la maglia nera della cooperazione.
Anche se non di ricevere la maglia
gialla.
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