l’analisi Cosa insegna il nuovo venerdì nero
DI GIUSEPPE PENNISI
P erché ieri operatori di tutto il mondo hanno venduto alla grande titoli spagnoli ed italiani? L’attacco è iniziato contro Madrid; la sera di giovedì quando sono giunte agli abbonati le prime copie dell’Economist in edicola la mattina del 13: un richia¬mo in copertina alla «Spagna che annaspa» ed un affondo in apertura della sezione finanzia¬ria alla gestione «clumsy», ossia «da pagliacci», dei conti pubblici , il cui disavanzo, per l’eser¬cizio in corso, pare oggi superare il 6% del Pil invece del 4,4% programmato. Inoltre, le insolvenze attanagliano le banche iberiche. E ol¬tre la metà del debito privato spagnolo è nelle mani di stranieri (che temono di restare in bra¬che di tela). Perché il male ispanico contagia l’Italia? Il nostro Tesoro , al pari di quello spagnolo, ha do¬vuto aumentare i tassi per collocare i propri ti¬toli. L’Economist scrive che «Spagna ed Italia non ce la faranno a reggere il costo del loro indebitamento se non migliorano rapidamente le prospettive di crescita». Esagerazioni?
Nell’ultimo fascicolo dell’autorevole rivista acca¬demica Economic Policy, Ashoka Mody e Damiano Sandri, del servizio studi del Fondo monetario, tracciano un quadro allarmante di come la crisi del debito sovrano della zona euro si è estesa ai servizi finanziari in tutta l’area ma in alcuni Sta¬ti peggio che in altri. In parallelo, Christos Pitelis dell’Università di Cambridge ha appena distribuito ai suoi amici un lavoro su come la «crisi ellenica» sia un tarlo per tutti i PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Spagna, Grecia). Il mondo accademico traccia ancora un quadro più allarmante del settimanale londinese. Per questo da mercoledì 11 aprile è nell’aria un declassamento generalizzato dei titoli bancari di Spa¬gna ed Italia da parte delle maggiori agenzie di rating.
L’Italia pensava di avere messo i propri conti «in sicurezza» con la manovra di pochi mesi fa. Tuttavia, ci basava su ipo¬tesi meno pessimistiche delle attuali sulla contrazione eco¬nomica e sul costo delle emissioni. Tanto che i due documenti di finanza pubblica – in gergo il Def ed il Pnr –non sono stati ancora approvati dal Consiglio dei Ministri. Il ritardo (il Pnr è stata annunciato per il 15 marzo) innervosisce gli o¬peratori non solo per gli aspetti tecnici ma per il quadro po¬litico di contorno. Gli aspetti tecnici che preoccupano di più sono due. Il primo è il rischio che la recessione si aggravi a ragione dell’aumento della pressione tributaria non controbilanciato da una stra¬tegia di crescita. Il secondo è la apparente mancanza di un 'piano B' da mettere in atto nel caso l’Unione monetaria scricchioli sino a dar cenni di una possibile implosione, che le farebbe fare la fine delle altre 69 unioni monetarie defunte dal 1910. Un lavoro di Stéphanie Collet dell’Université Libre di Bruxelles ricorda che ci vollero almeno vent’anni (dal 1861 al 1880 circa) per convincere i mercati della qualità dei titoli dell’allora neonato Regno d’Italia. Un fenomeno analogo ri¬guarda oggi l’euro. E i Paesi più deboli.
Gli aspetti politici si riferiscono alla scarsa probabilità che nell’attuale marasma di scandali sulle finanze di più di un partito, Governo e Parlamento non siano in grado né di attuare le politiche di crescita né di ridurre drasticamente i costi del¬la politica (dimezzando almeno gli eletti, portando le loro retribuzioni a non più della media di quelle nei PIIGS, riducendo di due terzi il finanziamento pubblico dei partiti e via discorrendo). Sta solo a noi smentirli.
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Gli operatori aspettano i documenti di finanza pubblica del governo Monti
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