giovedì 26 aprile 2012
LA POLITICA DELLA “DONNA SENZ’OMBRA” In Mondoperaio aprile 2012
LA POLITICA DELLA “DONNA SENZ’OMBRA”
Giuseppe Pennisi
Come mai una rivista di cultura politica come “Mondoperaio” entra in un comparto come la musica, ed in particolare quella che il musicologo Herbert Lindenberger ha chiamato La musa bizzarra e altera , ossia la musica lirica? In primo luogo, è forma di arte dal vivo tipicamente italiana non solo perché nata in Italia nel Rinascimento e diventata veicolo essenziale per il movimento di unità nazionale nel Risorgimento (come documentano, tra gli altri, Giovanni Gavazzeni, Armando Torno e Carlo Vitali nel recente libro O mia Patria? Storia musicale del Risorgimento tra inni, eroi e melodrammi. In secondo luogo, perché manca da decenni una politica per la musica in generale e per il teatro lirico in generale con risultati disastrosi: delle 13 fondazioni liriche nel 2010 (ultimo anno per il quale si dispone di consuntivi di bilancio) hanno chiuso i conti in pareggio o attivo, ma il debito accumulato è 300 milioni di euro; si attende da oltre un anno i decreti attuativi della nuova legge di settore; folle di giovani voci e bacchette italiane (nonché di orchestrali) emigrano in Germania, Usa e più di recente Corea, Giappone e anche Cina. Quindi un nodo politico c’è ed è serio. In terzo luogo, accanto a opere chiaramente “politiche” (da La Battaglia di Legnano di Verdi che, dopo un periodo di oblio, sta tornando su vari palcoscenici –Roma, Trieste, Parma – a Die Soltaden di Zimmermann che, co-prodotta con Salisburgo, si vedrà l’anno prossimo alla Scala) ci sono opere apparentemente apolitiche od impolitiche ma che hanno un forte contenuto di politica pubblica.
Questi sono, ad esempio, i lavori di Richard Strauss, specialmente quelli su testi di Hugo von Hofmannsthal. Erroneamente, a mio avviso, Francesco Maria Colombo, allora critico musicale de “Il Corriere della Sera” (oggi direttore d’orchestra), chiamò “impolitico” il carteggio tra Strauss e Hofmannsthal quando, circa vent’anni fa, venne pubblicato dalla casa editrice Adelphi. Correttamente, invece, Mario Bortolotto ha utilizzato la traduzione italiana del nomignolo (Hofbusenschangle) attribuito dal Kaiser tedesco a Strauss negli anni precedenti la prima guerra mondiale : La Serpe in Seno . I suoi lavori (e la sua musica a metà tra due poli come Schoenberg e Stravinskij) corrodevano sia il “finis Europa” prima della “Grande Guerra” sia il regime nazista, di cui non fu mail musicista di corte, come Carl Orff (il cui “Carmina Burana è stato spesso intonato ai Festival dell’Unità dimenticando che era stato composto per il raduno dei giovani hitleriani) ma da Presidente dei Musicisti del Reich poté aiutare molti ebrei a fuggire dagli stessi campi di concentramento. Chiaramente politica la sua ultima opera per la scena (data a Monaco nell’ottobre 1942) Capriccio , non solo per l’ambientazione nella Francia nel periodo pre -rivoluzionario, ma anche per il messaggio libertario a fronte della difficoltà di scegliere e schierarsi.
Ha un valore politico anche “Die Frau ohne Schatten” (“La Donna Senz’Ombra”) elemento centrale del cartellone scaligero 2011-2012, è co-prodotto con la Royal Opera House di Londra dove si vedrà l’anno prossimo. La produzione ha la regia di Claus Guth, uno dei più apprezzati metteurs en scène tedeschi che ha di recente trionfato nella dissacrante edizione della trilogia Mozart Da Ponte realizzata al Festival di Salisburgo. La direzione musicale è di Marc Albrecht, direttore stabile sia dell’opera e della sinfonica olandese e che ha già diretto “Die Frau ohne Schatten “nel tempio straussiano della Semperoper di Dresda. Cast di altissimo livello: Johan Botha, Emily Magee, Michaela Schuster, Samuel Youn, Mandy Fredrich, Maria Radner.
“Die Frau ohne Schatten“ è una delle opere più importanti del Novecento ed il lavoro più amato dallo stesso Richard Strauss che avrebbe voluta dirigerla in tarda età quando si scherniva alle frequenti offerte di dirigere “Der Rosenkavalier” (“Il Cavaliere della Rosa”) dicendo che 78 anni era troppo lunga e faticosa, ma suggerendo che avrebbe ben preso la bacchetta per “Die Frau” (che dura venti minuti di più di “Rosen”). In cento anni è la quarta volta che è approdata alla Scala (dove si è vista due volte lo stesso allestimento, negli Anni Ottanta e Novanta, curato da Jean Pierre Ponnelle). In Italia, che io ricordi,negli ultimi trent’anni è stata messa in scena solamente a Firenze oltre che a Milano; l’allestimento scaligero di Ponnelle all’inizio degli Anni Novanta ed uno per la regia di Yannis Kokkos nel 2010. La regia è uno dei nodi più difficili dell’opera. Non che l’esecuzione musicale complessa: una partitura sontuosa che richiede un doppio coro, un coro di voci bianche e 15 solisti.
Il libretto è una favola che può sembrare molto complicata. Per comprenderla non è necessario addentrarsi nelle molteplici fonti e nei simboli dei numerosi personaggi, di cui uno solo ha un nome (Barak, il tintore) mentre gli altri sono indicati per la loro funzione o per una loro caratteristica (L’Imperatore, l’Imperatrice, la Donna, la Nutrice, Il Messaggero degli Spiriti, il Guardiano del Tempio, lo Storpio, il Cieco, il Monco e così via). L’apologo è, però, lineare: un uomo e una donna non sono tali se non hanno figli – i quali, a loro volta, sono il nesso tra passato e futuro. Senza figli, l’amore è unicamente sesso e la coppia resta un eterno presente senza significato (e senza storia). La vera gioia si ha, però, unicamente al termine di uno percorso iniziatico pieno di dolori. Paternità e maternità, da un canto, e gioia grazie alla sofferenza, dall’altro, colpiscono tutti i personaggi del lavoro.
Le due coppie al centro della vicenda sono, da un lato, il giovane e bell’Imperatore e la giovane e bella Imperatrice, e, dall’altro, un povero tintore con tre fratelli disabili e la di lui donna. La prima coppia non può generare perché l’Imperatrice non ha un’ombra (quindi non è una donna completa). L’altra perché troppo stanca e stressata dalle fatiche quotidiane. L’Imperatrice riesce, con un sotterfugio suggeritole dalla sua mefistofelica nutrice, a carpire l’ombra dalla donna, creando, però, a quest’ultima ed al suo Barak sofferenze ancora più gravi di quelle che avevano nella loro condizione precedente. La truffa – dell’ombra – non salva neanche la coppia imperiale, perché avviene troppo tardi. La salvezza viene dalla comprensione del dolore che Imperatore e Imperatrice hanno causato alla donna senz’ombra e dal tentativo di aiutare Barak e sua moglie. La compassione dei Cieli a questo punto non può non intervenire: risolvere i problemi di ambedue le coppie e trasformare il coro dei bambini non nati con cui termina il primo atto in un coro di bambini che stanno nascendo nel grandioso finale.
Tutto avviene in un mondo mitico che richiede nel primo e nel terzo frequenti cambiamenti di scena a sipario aperto o solo leggermente abbassato mentre in orchestra si avvicendando (tra un quadro e l’altro) sette interludi, tutti differenti pur se tutti sullo stessa cellula musicale. Non solo, è necessario un palcoscenico a due livelli e nel terzo atto nei rapidi avvicendamenti ci vorrebbe anche una cascata, un bosco e via discorrendo
Ho visto “Die Frau ohne Schatten“ più volte . La prima volte fu nel 1967 (ero studente; ero “studente e povero” per usare un noto verso di un’aria verdiana, del Rigoletto, ma riuscivo sempre ad andare al loggione) in quello che allora il “nuovo” Teatro dell’Opera di Francoforte, struttura modernissima. Non conoscevo l’opera che per averne sentito qualche sezione in disco. La messa in scena era tradizionale: palcoscenico a due livelli e scene dipinte. Oggi sembrerebbe semplice ma trasmise il grande fascino del lavoro. Negli Anni Settanta, il Metropolitan Opera di York sfoggiava un allestimento grandioso con cui metteva in mostra tutta la tecnologia allora disponibile.
Molto differenti tra loro le ultime edizioni. Ho visto a Firenze quella firmata da Ponnelle (presentata due volte alla Scala ma nata a Colonia): una scena unica minimalista da teatro cinese, valida grazie al grande supporto della direzione musicale, dell’orchestra, dei cori e dei cantanti. Grandiosa nel maggio 2010, sempre nella città del Giglio, la produzione di Kokkos, di cui a causa degli scioperi ci sono state due sole recite; una grande festa di immagini e di colori. Così grandiosa da essere una delle determinanti del dissesto del teatro. Totalmente differente, la messa in scena di Christof Loy al Festival di Saliburgo: siamo nella leggendaria Sofiensaal di Vienna (ormai distrutta) dove nel 1955 Karl Böhn ed un cast stellare registrano l’opera e man mano che il lavoro procede gli interpreti in abiti anni cinquanta di fronte a microfoni e leggi, e seduti su semplici sedie quando non è il loro turno di cantare, entrano nei personaggi sino a soffrire e gioire per loro. Cosa fanno Claus Guth e Ronny Dietrich ? Prima che inizi la musica, vediamo una bella giovane donna (l’Imperatrice) ed il marito (l’Imperatore) ed un medico, in una clinica. La donna ha chiaramente disturbi mentali e la vicenda si dipana come un suo sogno. Non manche né una parola del testo né una nota; ci sono anche gli animali (il falco, la gazzella, il cervo); ma tutto diventa plausibile – un segno, al tempo stesso, erotico ed etico con un allestimento facilmente trasportabile da teatro a teatro. A supporto del disegno generale di Guth, ci sono le scene ed i costumi di Christian Schmidt, le luci di Olaf Winter ed i video di Andi Müller.
Quale il messaggio politico che si trae? In primo luogo, come si è detto, quello della gioia dopo la sofferenza, della necessità della paternità e della maternità per essere completi, dei figlio come legame essenziale tra passato e presente. In secondo luogo, quello dell’amore coniugale che i quegli anni, Strauss lo esaltava in due opere date una sola volta in Italia : “Die Aegyptische Helena” (“Elena in Egitto”) e “Intermezzo”. In terzo luogo –ma è il più importante – quello di guardare in modo positivo al futuro, con la certezza di superare gli ostacoli. L’epistolario rivela che “Die Frau ohne Schatten“ era stata completata nel 1917, ma Strauss e Hofmannsthal vollero che andasse in scena dopo la fine del conflitto, quale che fosse l’esito. Gli Imperi Centrali – lo sappiamo – persero la guerra, ma Strauss e Hofmannsthal lanciarono lo stesso dall’Opera di Vienna il loro messaggio di speranza e fiducia nell’umanità. Un gesto più “politico” di questo?
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