Italia, I tre "peccati" che bloccano la crescita
Giuseppe Pennisi
mercoledì 4 aprile 2012
Nel giorno in cui l’Eurostat certifica che lo scorso febbraio nell’Eurozona si è raggiunto il più alto di disoccupazione degli ultimi 15 anni (circa l’11% della forza lavoro - in termini assoluti 17 milioni di persone, soprattutto giovani e donne che cercano lavoro senza trovarli), i 20 maggiori centri internazionali (tutti privati, nessuno italiano) di ricerca previsionale - il “gruppo del consensus” - hanno confermato che l’interna area sta scivolando verso la recessione; l’Italia vi è già entrata e rischia non di uscirne prima della seconda metà del 2013, con un perdita ulteriore di posti di lavoro e di gettito fiscale (ponendo, quindi, a repentaglio sia il pareggio del bilancio, sia l’alleggerimento del fardello del debito sulla crescita).
Il Consiglio dei Ministri si è riunito per varare nuove misure per l’espansione, dopo che il Decreto chiamato “Cresci Italia” è stato, in gran misura, depotenziato durante il processo di conversione in legge. Il comunicato del Consiglio dei Ministri è molto laconico in materia, ma è altamente possibile che nei prossimi giorni il ddl sul mercato del lavoro raggiunga finalmente il Parlamento e che si veda quel Piano nazionale di riforme (Pnr) atteso da tempo. Quasi in parallelo, una quarantina di economisti si sono riuniti in un seminario a porte chiuse organizzato dalla Fondazione Astrid.
Quali gli ostacoli da rimuovere per riprendere a crescere e come farlo? Ritrovare fiducia in noi stessi (come predicano gli specialisti di neuroeconomia) è essenziale ma non sufficiente. Occorre curare i tre peccati originari che ci causano “la crescita zero”:
1) A ragione di un errore tecnico effettuato a fine dicembre 1989, dal primo gennaio 1999 abbiamo un tasso di cambio sovrapprezzato (come avvenne al Giappone a causa dell’accordo del Louvre del 1985). È un freno che si è acuito a ragione del differenziali di produttività e di parità di potere d’acquisto interno tra l’Italia e molti partner dell’eurozona (ad esempio, il paniere di beni e servizi che con 1000 euro si può acquistare in Italia o Germania). Uno studio per il Cnel, utilizzando dati della Commissione europea, documenta una “fiscal appreciation” (ossia un apprezzamento dell’euro in Italia) del 30% dalla nascita della moneta unica. Il cambio è il prezzo dei prezzi - amava ripetere l’allora giovane Amartya Sen quando lavorava al Manuale dell’Unido per la valutazione dei progetti industriali.
Dato che l’errore tecnico di 22 anni pone a rischio non solo l’Italia ma l’intera eurozona è interesse di tutti i partner trovare una soluzione. Scartata l’ipotesi di un euro a cerchi concentrici o a più velocità, poiché potrebbe far implodere l’intera costruzione, accantonata la possibilità di imporre tariffe all’import e sovvenzioni all’export (salterebbe l’intero mercato comune, non solo l’eurozona e il mercato unico), impossibile una flessibilità verso il basso di prezzi e salari, irrealistico pensare ad aumenti della produttività multifattoriali che portino la competitività italiana a superare quella dei nostri partner più competitivi, la sola via d’uscita potrebbe essere un’allocazione suppletiva di eurobond (in caso di successo del negoziato in corso sulle politiche di bilancio) per effettuare (entro un lasso di tempo determinato) l’aggiustamento mirato a maggiore produttività e competitività.
2) Il peso del debito può essere ridotto tramite operazioni di riscatto che incidano sul tasso d’interesse. Ci sono varie proposte sul tappeto. Meritano di essere vagliate con cura dal Governo, specialmente quelle che si basano su esperienze positive fatte all’estero, quali quelle attuate da alcuni Paesi dell’America Latina e dalla Germania. In America Latina non si trattava di risolvere il nodo del debito pubblico interno (abbastanza contenuto a differenza di quello sull’estero), ma di affrontare il peso di un insostenibile debito previdenziale. In Germania, il problema era come coniugare denazionalizzazioni con la riduzione del debito dei Länder orientali. In tutti questi casi, per il riscatto sono stati istituiti fondi specifici quali il Treuhandanstalt (THA) tedesco e si è utilizzato parte dello stock di ricchezza pubblica e privata.
3) Il nodo demografico (analogo, ancora una volta, a quello del Giappone) e delle piccole dimensioni d’impresa può essere risolto solo nel medio-lungo termine. Tuttavia, non si esce dalla sindrome della stagnazione-con-rischio-di-recessione se i passi immediati del Governo e del Parlamento non prevedono “fiscalità di vantaggio” (c’è un’ampia gamma di variazione tecniche che comportano perdite minuscole di gettito complessivo) per le famiglie dei ceti a medio e basso reddito con almeno tre figli a carico. Parimenti, vale la pena riflettere sui programmi attuati negli anni Novanta in Germania per facilitare le aggregazioni di imprese.
Sulla correzione dell’errore del 1989 e sul debito si possono aspettare effetti positivi pure nel breve periodo. In materia di “fiscalità di vantaggio” per le famiglie con almeno tre figli e di misure per l’aggregazione gli esiti si potranno avvertire benefici nel medio periodo, ma quanto più tardi si inizia, tanto più sarà difficile mettersi sulla strada della crescita sostenibile e inclusiva.
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