lunedì 30 aprile 2012
Spending review, le due sfide per il "risanatore" Bondi in Il Sussidiario del primo maggio
Spending review, le due sfide per il "risanatore" Bondi
Giuseppe Pennisi
martedì 1 maggio 2012
Enrico Bondi (Infophoto)
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FINANZA/ Pelanda: ecco come evitare un’altra stangata
BENZINA RECORD/ L'esperto: il prezzo non scenderà a breve. E per il carrello della spesa..., int. a G. Colangelo
È fin troppo facile dire, all’indomani della presentazione del primo documento sulla spending review, che la montagna ha partorito un topolino. Da un lato, erano state create aspettative eccessive sulla capacità di giungere a risultati concreti significativi nel lasso di pochi mesi, tramite un’operazione di revisione delle priorità di bilancio condotta, in sostanza, dal Ministro per i Rapporti con il Parlamento, Prof. Piero Giarda, con il supporto di pochi volenterosi, anche se ora potenziato da una task force di Ministri, integrata con un noto ?risanatore?, Enrico Bondi. Da un altro, tentativi precedenti, pur se inquadrati nell’ambito di quella Ragioneria Generale dello Stato dove il bilancio delle pubbliche amministrazioni viene formulato e monitorato, hanno indicato che esercizi di questa natura, per avere risultati positivi, richiedono un quadro istituzionale appropriato, un metodo condiviso e, soprattutto, molta perseveranza e tenacia.
Tuttavia, l’amico Piero Giarda, con cui ho in comune non solamente la professione di economista ma ancor di più la passione per la musica lirica, mi consenta di fare alcuni rilievi sul merito e sul metodo.
Sul merito, se è vero quanto filtrato dal Consiglio dei ministri di ieri, le riduzioni effettive di spesa corrente da attendersi nell’immediato come prima fase della spending review sarebbero limitatissime, dell’ordine di circa 5 miliardi di euro. Se ciò venisse confermato dalle decisioni dei prossimi giorni e delle prossime settimane, si darebbe un colpo durissimo alla credibilità non tanto della review, ma del Governo stesso, specialmente perché a ragione principalmente dell’aumento dei tassi d’interesse, nell’esercizio finanziario in corso la qualità della distribuzione tra spesa delle pubbliche amministrazione di parte corrente e investimenti pubblici è fortemente deteriorata: in effetti, la spesa per interessi rischia di superare in misura significativa quella in conto capitale. In aggiunta, si sta aggravando il problema dei debiti delle pubbliche amministrazioni nei confronti delle imprese (ormai una somma pari all’8% del Pil - tale da portare il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno al 130%).
Non è nel mandato del Prof. Giarda affrontare e risolvere il problema dell’insoluto delle pubbliche amministrazioni nei confronti delle imprese. Tuttavia, nella visione di un’Italia più moderna e più giusta, già nella prima fase, ove non nell’antipasto della spending review, si dovrebbe prevedere, prima della fine del 2012, l’abolizione delle Province, la razionalizzazione dei contributi all’editoria e allo spettacolo, un dimezzamento almeno dei rimborsi elettorali (sarebbe auspicabile la loro totale abolizione), l’entrata in vigore immediata dei tetti a superstipendi nelle pubbliche amministrazioni, nelle aziende a capitale pubblico (quotate e non quotate) e nel variopinto “capitalismo municipale”, l’allineamento delle retribuzioni del personale all’estero (anche diplomatico e militare) alla media di quello degli Stati dell’Europa meridionale in ambasce di finanza pubblica analoghe alle nostre. E via discorrendo.
Si potrebbe arrivare facilmente a un totale di 30 miliardi di euro e scongiurare un nuovo aumento dell’Iva o una nuova manovra finanziaria. Nel contempo, per favorire la crescita, si dovrebbero consentire alle imprese detrazioni d’imposta analoghe a quanto a esse dovuto dalle pubbliche amministrazione e una drastica abolizione della miriade di tax expenditures (agevolazioni tributarie) spesso varate unicamente a fini particolaristici. Queste misure “minime” darebbero credibilità alla spending review. E ne permetterebbero la prosecuzione.
Sul metodo, è utile riallacciarsi all’esperienza francese del “Programme de Rationalisation des choix budgétaire”, attuato in Francia in due fasi - la prima dalla metà degli anni Settanta sino al 1985 circa, la seconda a partire dalla riforma dei documenti di bilancio nel 1998. È un’esperienza che va valutata con attenzione. In effetti, definiti gli obiettivi generali di governo, si chiedeva alle amministrazioni di studiare l’apporto che ciascuna di esse potesse dare in documenti che venivano pubblicati e messi a confronto gli uni con gli altri ed erano oggetto di dibattito professionale (sulla qualità dell’analisi) e pubblico (sulla corrispondenza con gli obiettivi di politica economica).
La prima fase ha dato risultati modesti in quanto impiantata su base volontaristica. Ha comunque contribuito al risanamento della finanza pubblica francese, coronato con l’“accordo del Louvre” del 1987 sul cambio fisso tra franco e marco. La seconda fase - non più volontaristica - si è rivelata uno strumento molto utile non solo per la definizione delle priorità di bilancio, ma anche per la loro trasparenza. Interessante a proposito un saggio di Bernard Perret pubblicato alcuni anni sulla Revue Française d’Administration Publique. Specialmente nella seconda fase, “Programme de Rationalisation des choix budgétaire” è riuscito a incidere perché aveva un’ancora forte nelle varie forme e denominazioni che, negli anni, ha assunto la direzione del bilancio nel Ministero dell’Economia e delle Finanze d’Oltralpe.
Giarda, d’intesa con il Vice Ministro Grilli, potrebbe trovare un perno nel servizio studi della Ragioneria Generale dello Stato - servizio creato (vale la pena ricordarlo) proprio a questo scopo.
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A Ravenna Rinaldo si mostra a tutto tondo in Milano Finanza 28 aprile
InScena
A Ravenna Rinaldo si mostra a tutto tondo
di Giuseppe Pennisi
Dopo sette anni di sosta, Rinaldo di Händel torna in campo per mostrare come si fa teatro in musica contenendo i costi e attirando pubblico giovane. È partito da Ravenna il 20 aprile e fino al 6 maggio sarà in scena a Reggio e Ferrara. Lo spettacolo è nato nel 1985 ed è stato già visto in 18 teatri in Europa e Asia.
A ogni tappa è stato lievemente ritoccato.
Per questa messinscena, Pier Luigi Pizzi e Ottavio Dantone (alla guida dell'Accademia Bizantina) hanno ridotto la durata dello spettacolo a due ore e mezzo e utilizzano un'orchestra snella con strumenti il più simili possibile a quelli del 1710. Il confronto con il Rinaldo presentato alla Scala nel 2005 lo mostra a tutto tondo, specialmente negli ottoni che a Milano pareva avessero scambiato Händel con Leoncavallo. Qui il ritmo è incalzante, gli effetti speciali alla Spielberg, che si riallacciano al Teatro Kabuki, un cast giovane e atletico specializzato nella vocalità barocca. Il tenore Krystian Adam (Goffredo) mette in luce agilità virtuosistica. Maria Grazia Schiavo (Almirena) strappa lunghi applausi dopo l'aria Lascia che io pianga. Roberta Invernizzi è un'Armida sensuale (nella seduzione di Rinaldo, Marina de Liso) e gelosa nei confronti di Argante (Riccardo Novaro). Unico neo: l'eros della partitura resta in buca e si avverte nel palcoscenico unicamente in alcuni numeri. Alla prima al Teatro Alighieri, sono state riservate lunghe ovazioni per un quarto d'ora. (riproduzione riservata)
"3e32 Naufragio di Terra", l'Aquila e quelle ferite che si fanno musica in Il Sussidiario 28 aprile
OPERA/ "3e32 Naufragio di Terra", l'Aquila e quelle ferite che si fanno musica
Giuseppe Pennisi
sabato 28 aprile 2012
La Basilica di S. Maria di Collemaggio
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OPERA/ Trenitalia in svendita ai russi, ma nella "cantata ferroviaria"
OPERA/ "Rinaldo" torna a Ravenna e fa scuola
Come abbiamo ricordato su Il Sussidiario.net del 20 febbraio, nel centro storico de l’Aquila (ancora in gran misura un cumulo di macerie), è stato riaperto il ridotto del teatro comunale per due brevi opere contemporanee. A poco più di tre anni dal sisma che ha sconvolto L’Aquila, la Società Aquilana dei Concerti “B. Barattelli” presenta in prima esecuzione assoluta 3.32 Naufragio di terra nuovo lavoro di Lucia Ronchetti, fra le più interessanti compositrici italiane di oggi, ideato da Guido Barbieri che ne ha curato la drammaturgia e la messa in scena.
L’opera che vuole essere un modo di attraversare la memoria e l’esperienza umana che ha lasciato il terribile sisma avvenuto alle ore 3.32 del 6 aprile 2009, con le sue oltre trecento vittime e che ha causato le devastazioni materiali che hanno sfigurato la città dell'Aquila e i suoi dintorni.
La prima rappresentazione sarà sabato 28 aprile alle ore 21 (ingresso libero) nella Basilica di S. Maria di Collemaggio, uno dei monumenti simbolici e più colpiti della città, aperta al pubblico e al culto nel 2010 dopo delicati lavori di messa in sicurezza. Protagonisti della serata saranno sette testimoni di quella tragica notte, le cui storie sono state raccolte e trascritte da Guido Barbieri: Massimo Cinque, Ilaria Carosi, Federico Vittorini, Claudio Bendetti, Federica Fioravanti, Renza Bucci, Roberto Bonura, ciascuno dei quali ha vissuto direttamente la perdita di uno o più cari, parenti e amici. La musica di Lucia Ronchetti è affidata a cori misti (Corale “L’Aquila” e il Coro AMLAS di Albano Laziale (Giulio Gianfelice e Anna Di Baldo, maestri dei cori) e al gruppo vocale Ready-Made Ensemble diretto da Gianluca Ruggeri
Guido Barbieri sottolinea: “La Basilica di Collemaggio, costruita alla fine del 1200 e riaperta nel 2010, testimonia insieme la continuità della tradizione e la tragica discontinuità generata dal terremoto, attraverso uno sventramento interno, tuttora dolorosamente visibile, proprio nel luogo deputato dell’altare, dove vi erano la cupola, l’arco trionfale e l’aggancio con le tre navate. Il tetto in quel punto è ora completato da lamine trasparenti che lasciano vedere il cielo e trasmettono i suoni atmosferici, gli scricchiolii della ‘protesi’ architettonica, generando una nuova instabilità, questa volta anche acustica”.
Prendendo spunto dal rito delle tenebre che nell’antica tradizione cristiana prevedeva che il mercoledì santo venisse acceso, nel presbiterio della chiesa madre, un grande candelabro con quindici braccia le cui candele venivano spente una dopo l’altra al termine di ogni cantico o salmo, passando lentamente dalla luce all’oscurità, il candelabro del rito delle tenebre riproposto da 3e32 Naufragio di sarà simbolizzato da sette testimoni, persone che realmente e direttamente hanno vissuto la catastrofe, che assumeranno nello spazio scenico della Basilica una posizione precisa ricordando proprio la configurazione di un grande candelabro. Le loro voci rappresentano le fiammelle che bruciano e poi si estinguono.
“La drammaturgia ideata da Guido Barbieri – racconta Lucia Ronchetti - evoca il suono controllato della preghiera corale e allo stesso tempo mette in scena la concretezza materica della voce parlata che testimonia e ripercorre l’evento tragico del terremoto subito. Ma il ‘Naufragio di terra’ detta anche il sibilo del vento, la violenza delle zolle di terra rivoltate, lo sprofondare di case, oggetti e persone, la desolazione del presente. Le masse corali sono chiamate a rappresentare il subito prima e il subito dopo di quell’attimo infernale delle 3 e 32 del 6 aprile 2009 in cui tutto si è rovesciato, il ‘naufragio della terra’ che ancora una volta viviamo da spettatori, spaventati e salvi.
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giovedì 26 aprile 2012
LA POLITICA DELLA “DONNA SENZ’OMBRA” In Mondoperaio aprile 2012
LA POLITICA DELLA “DONNA SENZ’OMBRA”
Giuseppe Pennisi
Come mai una rivista di cultura politica come “Mondoperaio” entra in un comparto come la musica, ed in particolare quella che il musicologo Herbert Lindenberger ha chiamato La musa bizzarra e altera , ossia la musica lirica? In primo luogo, è forma di arte dal vivo tipicamente italiana non solo perché nata in Italia nel Rinascimento e diventata veicolo essenziale per il movimento di unità nazionale nel Risorgimento (come documentano, tra gli altri, Giovanni Gavazzeni, Armando Torno e Carlo Vitali nel recente libro O mia Patria? Storia musicale del Risorgimento tra inni, eroi e melodrammi. In secondo luogo, perché manca da decenni una politica per la musica in generale e per il teatro lirico in generale con risultati disastrosi: delle 13 fondazioni liriche nel 2010 (ultimo anno per il quale si dispone di consuntivi di bilancio) hanno chiuso i conti in pareggio o attivo, ma il debito accumulato è 300 milioni di euro; si attende da oltre un anno i decreti attuativi della nuova legge di settore; folle di giovani voci e bacchette italiane (nonché di orchestrali) emigrano in Germania, Usa e più di recente Corea, Giappone e anche Cina. Quindi un nodo politico c’è ed è serio. In terzo luogo, accanto a opere chiaramente “politiche” (da La Battaglia di Legnano di Verdi che, dopo un periodo di oblio, sta tornando su vari palcoscenici –Roma, Trieste, Parma – a Die Soltaden di Zimmermann che, co-prodotta con Salisburgo, si vedrà l’anno prossimo alla Scala) ci sono opere apparentemente apolitiche od impolitiche ma che hanno un forte contenuto di politica pubblica.
Questi sono, ad esempio, i lavori di Richard Strauss, specialmente quelli su testi di Hugo von Hofmannsthal. Erroneamente, a mio avviso, Francesco Maria Colombo, allora critico musicale de “Il Corriere della Sera” (oggi direttore d’orchestra), chiamò “impolitico” il carteggio tra Strauss e Hofmannsthal quando, circa vent’anni fa, venne pubblicato dalla casa editrice Adelphi. Correttamente, invece, Mario Bortolotto ha utilizzato la traduzione italiana del nomignolo (Hofbusenschangle) attribuito dal Kaiser tedesco a Strauss negli anni precedenti la prima guerra mondiale : La Serpe in Seno . I suoi lavori (e la sua musica a metà tra due poli come Schoenberg e Stravinskij) corrodevano sia il “finis Europa” prima della “Grande Guerra” sia il regime nazista, di cui non fu mail musicista di corte, come Carl Orff (il cui “Carmina Burana è stato spesso intonato ai Festival dell’Unità dimenticando che era stato composto per il raduno dei giovani hitleriani) ma da Presidente dei Musicisti del Reich poté aiutare molti ebrei a fuggire dagli stessi campi di concentramento. Chiaramente politica la sua ultima opera per la scena (data a Monaco nell’ottobre 1942) Capriccio , non solo per l’ambientazione nella Francia nel periodo pre -rivoluzionario, ma anche per il messaggio libertario a fronte della difficoltà di scegliere e schierarsi.
Ha un valore politico anche “Die Frau ohne Schatten” (“La Donna Senz’Ombra”) elemento centrale del cartellone scaligero 2011-2012, è co-prodotto con la Royal Opera House di Londra dove si vedrà l’anno prossimo. La produzione ha la regia di Claus Guth, uno dei più apprezzati metteurs en scène tedeschi che ha di recente trionfato nella dissacrante edizione della trilogia Mozart Da Ponte realizzata al Festival di Salisburgo. La direzione musicale è di Marc Albrecht, direttore stabile sia dell’opera e della sinfonica olandese e che ha già diretto “Die Frau ohne Schatten “nel tempio straussiano della Semperoper di Dresda. Cast di altissimo livello: Johan Botha, Emily Magee, Michaela Schuster, Samuel Youn, Mandy Fredrich, Maria Radner.
“Die Frau ohne Schatten“ è una delle opere più importanti del Novecento ed il lavoro più amato dallo stesso Richard Strauss che avrebbe voluta dirigerla in tarda età quando si scherniva alle frequenti offerte di dirigere “Der Rosenkavalier” (“Il Cavaliere della Rosa”) dicendo che 78 anni era troppo lunga e faticosa, ma suggerendo che avrebbe ben preso la bacchetta per “Die Frau” (che dura venti minuti di più di “Rosen”). In cento anni è la quarta volta che è approdata alla Scala (dove si è vista due volte lo stesso allestimento, negli Anni Ottanta e Novanta, curato da Jean Pierre Ponnelle). In Italia, che io ricordi,negli ultimi trent’anni è stata messa in scena solamente a Firenze oltre che a Milano; l’allestimento scaligero di Ponnelle all’inizio degli Anni Novanta ed uno per la regia di Yannis Kokkos nel 2010. La regia è uno dei nodi più difficili dell’opera. Non che l’esecuzione musicale complessa: una partitura sontuosa che richiede un doppio coro, un coro di voci bianche e 15 solisti.
Il libretto è una favola che può sembrare molto complicata. Per comprenderla non è necessario addentrarsi nelle molteplici fonti e nei simboli dei numerosi personaggi, di cui uno solo ha un nome (Barak, il tintore) mentre gli altri sono indicati per la loro funzione o per una loro caratteristica (L’Imperatore, l’Imperatrice, la Donna, la Nutrice, Il Messaggero degli Spiriti, il Guardiano del Tempio, lo Storpio, il Cieco, il Monco e così via). L’apologo è, però, lineare: un uomo e una donna non sono tali se non hanno figli – i quali, a loro volta, sono il nesso tra passato e futuro. Senza figli, l’amore è unicamente sesso e la coppia resta un eterno presente senza significato (e senza storia). La vera gioia si ha, però, unicamente al termine di uno percorso iniziatico pieno di dolori. Paternità e maternità, da un canto, e gioia grazie alla sofferenza, dall’altro, colpiscono tutti i personaggi del lavoro.
Le due coppie al centro della vicenda sono, da un lato, il giovane e bell’Imperatore e la giovane e bella Imperatrice, e, dall’altro, un povero tintore con tre fratelli disabili e la di lui donna. La prima coppia non può generare perché l’Imperatrice non ha un’ombra (quindi non è una donna completa). L’altra perché troppo stanca e stressata dalle fatiche quotidiane. L’Imperatrice riesce, con un sotterfugio suggeritole dalla sua mefistofelica nutrice, a carpire l’ombra dalla donna, creando, però, a quest’ultima ed al suo Barak sofferenze ancora più gravi di quelle che avevano nella loro condizione precedente. La truffa – dell’ombra – non salva neanche la coppia imperiale, perché avviene troppo tardi. La salvezza viene dalla comprensione del dolore che Imperatore e Imperatrice hanno causato alla donna senz’ombra e dal tentativo di aiutare Barak e sua moglie. La compassione dei Cieli a questo punto non può non intervenire: risolvere i problemi di ambedue le coppie e trasformare il coro dei bambini non nati con cui termina il primo atto in un coro di bambini che stanno nascendo nel grandioso finale.
Tutto avviene in un mondo mitico che richiede nel primo e nel terzo frequenti cambiamenti di scena a sipario aperto o solo leggermente abbassato mentre in orchestra si avvicendando (tra un quadro e l’altro) sette interludi, tutti differenti pur se tutti sullo stessa cellula musicale. Non solo, è necessario un palcoscenico a due livelli e nel terzo atto nei rapidi avvicendamenti ci vorrebbe anche una cascata, un bosco e via discorrendo
Ho visto “Die Frau ohne Schatten“ più volte . La prima volte fu nel 1967 (ero studente; ero “studente e povero” per usare un noto verso di un’aria verdiana, del Rigoletto, ma riuscivo sempre ad andare al loggione) in quello che allora il “nuovo” Teatro dell’Opera di Francoforte, struttura modernissima. Non conoscevo l’opera che per averne sentito qualche sezione in disco. La messa in scena era tradizionale: palcoscenico a due livelli e scene dipinte. Oggi sembrerebbe semplice ma trasmise il grande fascino del lavoro. Negli Anni Settanta, il Metropolitan Opera di York sfoggiava un allestimento grandioso con cui metteva in mostra tutta la tecnologia allora disponibile.
Molto differenti tra loro le ultime edizioni. Ho visto a Firenze quella firmata da Ponnelle (presentata due volte alla Scala ma nata a Colonia): una scena unica minimalista da teatro cinese, valida grazie al grande supporto della direzione musicale, dell’orchestra, dei cori e dei cantanti. Grandiosa nel maggio 2010, sempre nella città del Giglio, la produzione di Kokkos, di cui a causa degli scioperi ci sono state due sole recite; una grande festa di immagini e di colori. Così grandiosa da essere una delle determinanti del dissesto del teatro. Totalmente differente, la messa in scena di Christof Loy al Festival di Saliburgo: siamo nella leggendaria Sofiensaal di Vienna (ormai distrutta) dove nel 1955 Karl Böhn ed un cast stellare registrano l’opera e man mano che il lavoro procede gli interpreti in abiti anni cinquanta di fronte a microfoni e leggi, e seduti su semplici sedie quando non è il loro turno di cantare, entrano nei personaggi sino a soffrire e gioire per loro. Cosa fanno Claus Guth e Ronny Dietrich ? Prima che inizi la musica, vediamo una bella giovane donna (l’Imperatrice) ed il marito (l’Imperatore) ed un medico, in una clinica. La donna ha chiaramente disturbi mentali e la vicenda si dipana come un suo sogno. Non manche né una parola del testo né una nota; ci sono anche gli animali (il falco, la gazzella, il cervo); ma tutto diventa plausibile – un segno, al tempo stesso, erotico ed etico con un allestimento facilmente trasportabile da teatro a teatro. A supporto del disegno generale di Guth, ci sono le scene ed i costumi di Christian Schmidt, le luci di Olaf Winter ed i video di Andi Müller.
Quale il messaggio politico che si trae? In primo luogo, come si è detto, quello della gioia dopo la sofferenza, della necessità della paternità e della maternità per essere completi, dei figlio come legame essenziale tra passato e presente. In secondo luogo, quello dell’amore coniugale che i quegli anni, Strauss lo esaltava in due opere date una sola volta in Italia : “Die Aegyptische Helena” (“Elena in Egitto”) e “Intermezzo”. In terzo luogo –ma è il più importante – quello di guardare in modo positivo al futuro, con la certezza di superare gli ostacoli. L’epistolario rivela che “Die Frau ohne Schatten“ era stata completata nel 1917, ma Strauss e Hofmannsthal vollero che andasse in scena dopo la fine del conflitto, quale che fosse l’esito. Gli Imperi Centrali – lo sappiamo – persero la guerra, ma Strauss e Hofmannsthal lanciarono lo stesso dall’Opera di Vienna il loro messaggio di speranza e fiducia nell’umanità. Un gesto più “politico” di questo?
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TUTTE LE LETTERE DI MOZART in Il Foglio 26 aprile
Marco Murara (a cura di)
TUTTE LE LETTERE DI MOZART
L’epistolario completo della famiglia Mozart 1755-1791
Presentazione di Sandro Cappelletto
Varese, Zecchini Editore, tre Vol. pp. 1900 € 89
E’ diventato nel giro di pochi mesi un piccolo caso letterario – e di cultura politica . In un anno in cui non c’è alcuna ricorrenza mozartiana ma tutti sono intenti a predisporre i 200 anni dalla nascita di Verdi e Wagner (ambedue cadono nel 2013). L’edizione italiana, in tre volumi, dell’epistolario integrale di Wolfgang Amadeus Mozart, e dei suoi congiunti, è stato uno dei successi editoriali dell’ultimo scorcio i del 2011. La prima tornata è sparita in poche settimane e si è prodotta subito una ristampa cha è giunta in questi giorni nelle librerie o che si può richiedere all’editore (info@zecchini.com). Come spiegare il successo? Tanto più che si tratta di un’opera giunta sul mercato italiano con cinquanta anni di ritardo dall’edizione originale in tedesco pubblicata da Bärenrieter di Kassel sotto gli auspici del Mozarteum di Salisburgo – un testo che gli specialisti mozartiani conoscono ed hanno letto e studiato
Il cofanetto è elegante- I tre tomi sono stampati su carta fine e con una grafia preziosa. Possono sembrare un grazioso soprammobile in un’abitazione di chi voglia essere considerato “persona colta” da ospiti e da amici. Non è questa la spiegazione. Non mancano antologie dell’epistolario di Mozart, in gran misura basate sull’opera della Bärenrieter del 1962. La più importante è un volume curato da Elisa Ranucci e pubblicato nel 1981 dall’Editore Guanda, ma limitata e carente per quanto riguarda le note. Gran parte delle lettere, poi, è di carattere familiare; la metà circa tra Wolfgang Amadeus ed il padre Leopoldo, con cui il compositore aveva un rapporto complicato. A differenza di quanto hanno scritto altri (ad esempio, Norbert Elias) la “psicologia” di un genio, nei suoi rapporti con i congiunti non credo interessino più di tanto gli italiani di oggi. Così come i lunghi carteggi relativi alle opere (particolarmente stimolante quello relativo al libretto, alla composizione ed alla messa in scena di “Idomeneo”) sono materiale di analisi per specialisti. Ciò che attrae maggiormente nei tre volumi – la cui lettura è da centellinare – è l’utilizzazione dell’epistolario come chiave interpretativa di una società in rapida trasformazione (le ultime decadi del Settecento) in cui il riformismo dell’illuminismo (delle varie sette massoni-cattoliche a cui Mozart ed il suo mondo appartenevano) si scontrava con una reazione oscurantistica. Sotto il profilo socio-politico, l’epistolario rileva i rapporti dei Mozart con gli “illuministi settentrionali” del Lombardo veneto (i fratelli Verri, Cesare Beccaria, Gian Rinaldo Carli, Francesco Algarotti, Salerio Bettinelli, Carlo Denina) e nell’ultima fase della breve esistenza terrena quelli tra Wolfgang Amadeus e gli illuministi bavaresi, impregnati di “socialismo paradisiaco”, oggi verrebbe aggettivato “utopistico” (Franz Heinrich Ziegenhagen, Rudolf Blumauer). Altro aspetto di rilievo le cognizioni di economia che Mozart padre trasmetteva il figlio (su temi come inflazione, livelli e distribuzione dei redditi e dei consumi, politica dei prezzi), nonché la spiegazione di perché Wolfgang Amadeus declinò due ricche proposte di impiego (a Londra ed a Berlino): massone, cattolico ed illuminista, consapevole del proprio valore optò per la libera professione- anzi fu uno dei rari musicisti del periodo a fare questa scelta. Senza, peraltro, ottenerne soddisfazioni finanziarie. E tentare, quindi, negli ultimi mesi della vita, di tornare ad un impiego salariato, quello a cui aveva dato un calcio sbattendo la porta al Principe Arcivescovo di Salisburgo.
mercoledì 25 aprile 2012
Allarme per la Spagna Servono 200 miliardi in Avvenire 26 aprile
Allarme per la Spagna Servono 200 miliardi in Avvenire 26 aprile
Il Fmi: un piano di salvataggio in caso di default
DI GIUSEPPE PENNISI
I l primo maggio, Festa del Lavoro in Europa, le diplomazie economiche e finanziarie internazionali saranno molto operose. Al capezzale della Spagna cercheranno di mettere a punto un programma di salvataggio per molti aspetti analogo a quel¬lo firmato alcune di settimane fa, ma non ancora attuato, per la Grecia. Se ne è parlato a lungo nei corridoi delle riunioni primaverili del Fondo monetario e della Banca mondiale terminate il 22 aprile. La notizia è stata ovviamente tenuta riservata anche se qualcosa è trapelato sul New York Times di ieri. La crisi del debito spagnolo non ha origine – come quella del debito greco – da politiche economiche errate e da conti 'massaggiati' inviati alle autorità europee e al Fondo monetario. Al pari di quella che circa un anno fa ha travolto l’Irlanda, nasce da un 'boom' artificiale dell’edilizia residenziale e commerciale e da finanziamenti poco ac¬corti concessi al settore immobiliare; quindi si sviluppa a causa degli interventi pubblici resisi necessari per evitare serie difficoltà a istituti bancari che sono all’apparenza dei colossi, in realtà con i piedi d’argilla. Proprio ieri il Fmi ha dichiarato che se le maggiori banche sono sufficientemente capitalizzate, «il settore nel suo complesso resta vulnerabile».
Quali che siano le determinanti della crisi, ciò che più preoccupa l’Eurozona e il resto della comunità internazionale sono le sue dimensioni. Il programma di salvataggio che si sta delineando sarebbe di almeno 200 miliardi di euro, molto più ampio di quello per il salvataggio dell’Irlanda (80 miliardi di euro) e per la Grecia (110 miliardi). Se ci si rivolgesse unicamente al Fondo europeo Sal¬va- Stati si rischierebbe di prosciugarlo, o quasi, perché la capacità effettiva di presti¬ti 'diretti', ossia senza ricorrere ad altri strumenti, è ancora di 440 miliardi di euro. Quindi è evidente la necessità di un intervento del Fondo monetario. Nonostante le fonti ufficiali smentiscano la nuova crisi – per il fin troppo evidente timore di generare turbolenze sui mercati in giorni in cui sono in corso campagne elettorali e crisi di governo in Paesi chiave dell’Eurozona – è proprio da Washington che giungono indicazioni di u¬na trattativa già sostanzialmente in corso e di un dialogo già in atto con l’Institute of International Finance (l’organizzazione, con sede nella capitale degli Stati Uniti, che raggruppa le maggiori banche internazionali e le ha rappresentate nel recente negoziato con Atene).
Ragionando su cosa sia meglio fare per la Spagna, sarebbe in ogni caso errato concentrarsi s¬lo o principalmente sul breve periodo e sulla migliore ingegneria finanziaria per evitare l’insolvenza, come si è fatto quando si è cercato di risolvere le crisi del debito di Irlanda prima, e di Gre¬cia poi. Lo stesso Multilateral Surveillance Report presentato circa una settimana fa come documento di ri-flessione per le riunioni di Banca mondiale e Fondo monetario tratteggia, in uno dei tre scenari descritti, il rischio che correre da una crisi all’altra per tampona¬e questa o quella falla dell’Eurozona può portare all’implosione dell’Unione mone¬taria europea, con conseguenze gravissime per l’intera economia internazionale. Questo rischio si può evitare 'socializzando', ossia mettendo in comune, parte del debito. Premessa, comunque, per una politica di crescita.
In questi giorni sono stati presentati programmi specifici per raggiungere questo obiettivo. Vanno presi in considerazione con attenzione.
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La Spagna attraversa una profonda recessione, i poveri a Barcellona sono aumentati drasticamente (Ap)
martedì 24 aprile 2012
"Rinaldo" torna a Ravenna e fa scuola in Il Sussidiario 25 aprile
"Rinaldo" torna a Ravenna e fa scuola
Giuseppe Pennisi
mercoledì 25 aprile 2012
Un momento del Rinaldo
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OPERA/ Il Barbiere di Siviglia e il vizio di voler "aggiornare" Rossini
OPERA/ Stiffelio, il capolavoro "trascurato" di Giuseppe Verdi
Il Ministro Ornaghi ricorda certamente quando Piero Bargellini, allora Sindaco di Firenze, con il fango sino alle ginocchia nella Galleria degli Uffici, disse, con voce stentorea : Non è tempo di piagnistei! Con quella frase, infervorò tutta Firenze che, come una sola persona, si mise all’opera per risollevare la città dopo l’alluvione.Qualcosa di analogo lo ha fatto la Fondazione Ravenna Manifestazioni, il cui Teatro Alighieri, ha presentato, mentre fondazioni liriche e teatri di tradizioni si rotolavano per terra e intonavano geremiadi sugli effetti della recessione e dell’austerity sui loro bilanci, ha realizzato una stagione di opera e balletto di dieci titoli, sempre condividendo le spese con altri enti e tenendo alta la qualità
Ultimo spettacolo “Rinaldo” di Händel che Pier Luigi Pizzi firmò nel 1985 per il Teatro Valli di Reggio Emilia e poi ripreso nei teatri più prestigiosi del mondo. Da allora è stato visto a Parigi, a Seul, a Milano, a Venezia, a Madrid, a Lisbona, nel circuito toscano e nel circuito emiliano. In breve in 18 teatri.
“Rinaldo” si riposava dal 2007. E’ tornato in scena il 20 aprile a Ravenna e sino al 6 maggio si vedrà pure a Reggio Emilia e Ferrara. Non è escluso che il nuovo viaggio lo porti a Catanzaro ed ad alcuni tra i maggiori festival estivi.
Non è una semplice “ripresa” di uno spettacolo del 1985. Curata personalmente da Pizzi per quanto riguarda il riallestimento di scene e costume, è affidata a Ottavio Dantone che con l’Accademia Bizantina da lui creata e diretta, propone, per la prima volta, un “Rinaldo” con strumenti più simili a quelli d’epoca e con un cast internazionale di specialisti in vocalità barocca. Il confronto con il “Rinaldo” presentato alla Scala nel 2005 lo mostra a tutto tondo, specialmente negli ottoni che, a Milano, suonavano Händel come se fosse Mascagni mentre all’Alighieri di Ravenna lo mostravano in tutto il suo splendore. In sala, poi, c’era un pubblico nuovo, giovane, attirato dalla grande fantasia del barocco.
Facciamo parlare Pizzi “Nella concezione dello spettacolo l’asso nella manica fu di inserire macchine sceniche umanizzate. L’utilizzo di queste macchine era comune nella scenografia barocca, così pensai di affidare all’uomo il compito di dare mobilità al dispositivo scenico, decisi che fossero dei figuranti a movimentare l’impianto e a far circuitare i personaggi su appositi carri. Questi mimi interamente vestiti di nero e mascherati come nel teatro giapponese kabuki, sono diventati i veri protagonisti dello spettacolo perché proprio a loro era affidato il compito di animare l’intera regia”.
Oggi, a differenza del settecento, il pubblico non ha familiarità con gli eroi cavallereschi messi in scena da Händel, per questo, secondo il regista, è opportuno rappresentare i personaggi come se fossero delle icone, delle statue su piedistalli, in grado di evocare la maestosità dell’arte barocca, ma con quella sottile ironia che caratterizza un sapiente uso della citazione visiva. Quello che viene dunque messo in scena in questo “Rinaldo” è Il “rituale del teatro”, il cui motore, afferma il regista, è la musica: “Il libretto dell’opera è solo un pretesto, come spesso accadeva nel teatro barocco. Fortunatamente la musica è un formidabile motore e la successione delle arie non genera monotonia, ma anzi spinge l’azione in modo vivo ed energico”.
Il capolavoro handeliano segnò il debutto del compositore a Londra e la prima rappresentazione, al Teatro di Haymarket il 24 febbraio 1711, fu un successo abilmente orchestrato dal drammaturgo e impresario Aaron Hill. Il Rinaldo fu anche la prima opera totalmente in italiano ad andare in scena nella capitale britannica. Il giovane Händel la compose in soli quindici giorni, riadattando in parte partiture scritte durante gli anni trascorsi in Italia e che lo avevano reso famoso. Rinaldo fu un successo di lunga durata, tant’è che fu più volte ripreso per vent’anni e oggetto di due rifacimenti: il primo nel 1717, il secondo, più incisivo, nel 1731.
Proprio il riutilizzo di arie precedenti e le modifiche apportate nel tempo dallo stesso Händel hanno suggerito a Pizzi e a Dantone di rivedere in parte la struttura dell’opera con lo spostamento di alcune arie e tagli di recitativi funzionali alla drammaturgia inscritta nel libretto. La vicenda è collocata a Gerusalemme nel 1099. Negli gli ultimi giorni dell’assedio che mise fine alla prima crociata, i cristiani, capeggiati da Goffredo di Buglione, sono opposti ai saraceni guidati dal re Argante. Il libretto di Aaron Hill, tradotto da Giacomo Rossi, è tratto dalla Gerusalemme liberata di Tasso e dall’Orlando furioso di Ariosto. L’abile Hill vi introdusse il personaggio di Almirena, figlia di Goffredo e promessa sposa di Rinaldo, arricchendo di significati la vicenda di Rinaldo e Armida, l’incantatrice, regina di Damasco.
Tra tagli e interpolazioni, questo nuovo “Rinaldo” dura due ore e mezzo, intervallo compreso, timing perfetto per uno spettacolo del nostro tempo, mentre nella Londra di Händel (che compose tre versioni dell’opera) si stava a teatro per circa 5-6 ore banchettando ed amoreggiando tra un’aria e l’altra.
Delle meraviglie dell’orchestra si è detto. Le voci sono tutte ben calibrate. Il tenore polacco Krystian Adam (Goffredo) mette in luce un’agilità virtuosistica. Maria Grazia Schiavo (Almirena) strappa lunghi applausi dopo l’aria Lascia che io pianga. Roberta Invernizzi è un’Armida sensuale (nella seduzione di Rinaldo, Marina de Liso) e gelosa nei confronti di Argante (Riccardo Novaro). Antonio Vincenzo Serra un pastoso Mago Cristiano (il Deus ex Machina che risolve l’intrigo). William Corrò e Savinia Bini completano l’affiatato cast. La sera della prima, quindici minuti di ovazioni al calar del sipario.
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Da Washington un nuovo allarme per l’Europa in Il Sussidiario 25 aprile
METTIAMO UN PO' D'ORDINE IN MATERIA DI EUROBONDS in Il Velino 24 aprile
METTIAMO UN PO' D'ORDINE IN MATERIA DI EUROBONDS
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Roma - A fine 2011, la Commissione Europea ha proposto (in apposito ”Libro Verde”) nuovi “eurobonds” da affiancare ai “project bonds” in circolazione da decenni. Per evitare confusione, viene proposto un nuovo nome “stability bonds” che enfatizza il loro ruolo macro-economico. Il “Libro Verde” presenta tre opzioni senza prendere posizione: a) “stability bonds” per sostituire tutto il debito dell’eurozona con garanzie in solido di tutti gli Stati membri; b) “stability bonds” per sostituire parte del debito (ci possono essere numerose variazioni sul tema) con garanzie in solido; c) “stability bonds” per sostituire quote del debito nazionale con garanzia pro-quota di ciascun Stato membro.
Occorre dare atto alla Commissione Europea di avere presentato proposte innovative. Sino ad ora, gran parte delle proposte presentate in passato (pure i mai decollati “Ortoli bonds” ed i “Delors bonds”) riguardavano essenzialmente le spese per investimento , in particolare le grandi infrastrutture inter-europee. Le più recenti proposte Junker-Tremonti e Prodi-Quadro Curzio concernevano principalmente il nuovo indebitamento (tra cui il rifinanziamento dello stock di debito in essere man mano che vecchie emissioni giungevano a scadenza) ed anche i grandi progetti d’investimento. Queste nuove proposte sono state poi delineate ma non declinate nei loro aspetti tecnici. La documentazione, in italiano, forse più completa è nel “Dossier Eurobonds” del centro studi Astrid consultabile a www.astri-online.it , a cui si rimandano gli interessati.
“Socializzando” tutto o parte lo stock di debito pubblico si abbasserebbe il costo di rinnovo dello stock di debito per gli Stati ritenuti maggiormente “a rischio”, a torto od a ragione, da parte dei mercati internazionali. Le tre proposte sul tappeto escludono Grecia, Irlanda e Portogallo, i cui titoli sono classificati “spazzatura” dalle agenzie di rating. Spagna e Italia ne sarebbero i principali beneficiari. Stati fortemente indebitati come l’Italia dovrebbero mettere in atto anche strumenti nazionali (come il fondo “taglia debito” in merito al quale sono in discussione una dozzina di proposte). Non possiamo aspettarci che una “manna europea” cada dal cielo per risolvere i problemi che ci siamo creati con le nostre mani.
Occorre pensare che i primi “Federal Bonds” americani sono stati emessi per finanziare il debito di guerra della prima guerra mondiale, ossia circa un secolo e mezzo dopo la creazione degli Stati Uniti ed oltre 50 anni dopo la guerra di secessione. I tempi della politica e dell’economia si sono, senza dubbio, accorciati ma è difficile pensare che gli Stati che si considerano “virtuosi” siano pronti a garantire in solido i debiti di quelli che essi giudicano “discoli”. Nelle tre grandi categorie di “stability bonds” vengono delineate numerose variazioni. L’alternativa più prudente prevede emissioni congiunte di nuove obbligazioni con garanzie parziali di ciascun emittente, che resterebbe comunque responsabile per lo stock in essere. Quindi la trasformazione da debito “nazionale” a debito “europeo” sarebbe molto graduale con almeno due tipologie coesistenti per diversi lustri.
Si ricomincia a parlare di “eurobonds”e di “project bonds”. In materia dei primi, la settimana scorsa, tre centri studi hanno presentato proposte per sostituire con titoli europei, parte dei titoli di Stato nazionali. Quasi in parallelo, un Commissario europeo ha proposto di rilanciare “project bonds” europei per il finanziamento degli investimenti necessari alla ripresa.
Sino a tempi recentissimi, gli unici “eurobonds” sul mercato sono quelli emessi da istituzioni finanziarie europee come la Bei e la Bers. Al pari di quelli emessi da altre istituzioni finanziarie internazionali (il Gruppo Banca mondiale, le Banche regionali di sviluppo) sono sostanzialmente “project bonds”, garantiti da tutti gli Stati membri delle pertinenti istituzioni ma destinati al finanziamento di progetti d’investimento - in certi casi pure partecipando a capitale di rischio. In effetti, più importante della garanzia degli Stati “soci” delle istituzioni in questione, è la qualità degli investimenti finanziati sulla base di progetti sottoposti a rigorosa analisi finanziaria ed economica tanto ex-ante quanto ex-post (sia a completamento della fase di cantiere sia dopo un certo numero di anni di operatività a regime). Per questa ragione, i rapporti di valutazione ex-ante ed ex-post hanno di norma vasta distribuzione e sono, comunque, accessibili. Di recente, la BCE ha effettuato emissioni speciali di obbligazioni destinate alle banche, al fine d’alleggerire il peso del loro indebitamento e facilitare investimenti a investimenti privati direttamente produttivi. Anche questi appartengono, a mio avviso alla categoria dei “project bonds” (ilVelino/AGV)
(Giuseppe Pennisi) 24 Aprile 2012 11:40
lunedì 23 aprile 2012
Da Il Velino 23 aprile
il Velino/AGV presenta, in esclusiva per gli abbonati, le notizie via via che vengono inserite.
OPERA, A SALISBURGO TUTTI MATTI PER CLEOPATRA
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Roma - Per il Festival di Pentecoste di Salisburgo (25-28 maggio) è corsa all’accaparramento di biglietti; il mezzo soprano italiano Cecilia Bartoli ha preso il testimone da Riccardo Muti e dopo cinque anni in cui la manifestazione è stata dedicata alla scuola napoletana, il tema di quest’anno è Cleopatra. Viene presentata una nuova grandiosa edizione di “Giulio Cesare in Egitto” di Händel (che verrà ripresa in agosto nel festival estivo). Questa barocca “Cleopatra raffinata” (replicata due volte) viene accompagnata da una “Cleopatra amorosa”: la versione integrale in traduzione tedesca del rinascimentale “Antony and Cleopatra” di Shakespeare. A queste due proposte teatrali vengono affiancati quattro concerti: “Cleopatra sensuale” (la versione in forma di concerto dell’opera di Massenet concertata da Vladimir Fedoseyev e con un cast stellare, da Sophie Kock a Ludovic Tézier); “Cleopatra tragica” su musiche di Schumann, Berlioz e Brahms, interpretate da Vesselina Kasarova e Piotr Beczala con Sir Eliot Gardiner alla guida dell’orchestra; “Cleopatra orientale” con musiche di Rubistein, Shchedrin , Gounod, Prokofiev e Massenet interpretate da Anna Netrebko, Alexei Tanovitski e l’orchestra del Mariinski concertata da Valery Gergiev. In programma, anche un vero banchetto egiziano nel grand foyer dedicato a Karl Böhm.
Il piatto più gustoso e l’opera di Händel. In primo luogo, la durata: l’integrale di “Giulio Cesare in Egitto” sfiora i 250 minuti. In secondo luogo, la tessitura: quando i lavori di Händel per il teatro ricominciarono ad apparire (in sostanza nella seconda metà del Novecento dopo alcuni tentativi sperimentali all’inizio del secolo), dato che i principali ruoli maschili erano stati scritti per castrati, non c’è altra scelta che abbassarli di qualche ottava per affidarli a baritoni (o anche a bassi-baritoni) oppure, come si fa adesso, utilizzare mezzo-soprani o contralti. Nell’edizione in programma a Salisburgo si fa ricorso a Andreas Scholl, uno dei rari controtenori al mondo per il ruolo di Giulio Cesare, Cecilia Bartoli sarà Cleopatra, Anna Sophie von Otter, Cornelia. Il cast internazionale si presenta tutto di alto livello. Inoltre l’orchestrazione era stata concepita per strumenti d’epoca, in pratica introvabili e le arie erano ripetitive (articolate, spesso, su due “da capo”). Infine, gli allestimenti erano difficili e onerosi poiché prevedevano frequenti cambiamenti di scena (in epoca barocca risolti tramite siparietti dipinti e complessi macchinari). A Salisburgo, Giovanni Antonini concerterà con il complesso da lui creato “Il Giardino Armonico” che suonerà con strumenti il più simile possibile a quelli dell’epoca barocca. Regia, scene, costumi, luci e coreografia sono affidati a a Moshe Leiser, Patrice Caurier, Christian Fenouillet, Agostino Calvava, Christophe Forey, Konrad Kuhn e Beate Vollack. Un vero team internazionale.
Occorre ricordare che l’edizione che rilanciò il “Giulio Cesare in Egitto” in tempi moderni fu il risultato di alcuni testardi - Beverly Sills, Norman Triegle, Julius Ruidel, Tito Capobianco e Ming Cho Lee - in un teatro allora secondario, la New York City Opera (fratello molto minore del Metropolitan che lo fiancheggia al Lincoln Center). Nel 1966, Ruidel non aveva alcuna ambizione filologica: tagliò a destra e a manca; Capobianco (regia) e Ming Cho Lee si ispirarono al bianco e nero di Piranesi, Cesare era incarnato dal miglior basso-baritono su piazza (Triegle) e le seduzioni di Cleopatra affidate alla Sills. L’edizione ebbe in enorme successo; fu portata in tournée attraverso gli Usa e reggeva ancora bene alla metà degli anni Settanta quando la compagnia visitò il Kennedy Center di Washington dove chi scrive ebbe modo di vederlo. Il rilancio europeo ebbe luogo a Monaco di Baviera, sempre con un basso baritono (Fischer-Dieskau) come protagonista, l’affascinante Tatiana Troyanos nel ruolo della Regina d’Egitto, la bacchetta di Karl Richter (che aveva tagliato una mezz’ora di musica) e un’ambientazione abbastanza tradizionale. Affascinante anche l’allestimento romano del 1984 con Margerita Zimmerman e Monserrat Caballé, con Gabriele Ferro alla guida dell’orchestra e la regia di Alberto Fassini; si era scelto un mezzo soprano come protagonista maschile. L’allestimento ebbe successo e venne ripreso qualche anno più tardi con Cecilia Gasdia nel fulgore delle sue qualità sceniche e vocali.
Una decina di anni fa in un allestimento coprodotto dal Teatro Real di Madrid e dal Comunale di Bologna, oltre un’ora di musica veniva eliminata, tagliando completamente sette dei 45 numeri, riducendo i recitativi e operando anche all’interno delle singole arie (falcidiando i “da capo”); lo spettacolo non durava più di tre ore e mezzo (rispetto alle oltre quattro ore delle edizioni romane del 1984 e del 1998 e di quella di Martina Franca del 1989). I ruoli maschili erano affidati, in gran misura, a mezzo-soprani e contralti, nonostante che nell’opera, Giulio Cesare, giunto a 54 anni d’età, in Egitto sia più seduttore che condottiero. La scrittura orchestrale non veniva modernizzata (dirigeva Rinaldo Alessandrini); non si scivolava, però, nella tentazione di aggiungerle fioriture alla Hornancourt. Luca Ronconi trattava gli aspetti scenici con misura: un impianto fisso con due maxischermi dove venivano proiettati spezzoni di deserti e piramidi nonché di vari “Cesare e Cleopatra” della miglior tradizione di Hollywood e di Cinecittà. Il kitsch veniva esaltato dai costumi (dai romani in abito coloniale a Cleopatra abbigliata alla Claudette Colbert). In questo quadro, il complicato libretto di seduzioni, intrighi, tradimenti e sangue veniva letto con ironia dall’inizio alla fine. In effetti, l’unica edizione filologica, sotto il profilo musicale, presentata di recente è quella curata da Ottavio Dantone un anno fa che si è vista ed ascoltata, oltre che a Ravenna, Ferrara e Modena, all’Opera Nazionale polacca di Poznan, all’Opera di Brema in Germania e all’annuale Festival Händeliano a Halle).
Questi non sono che alcuni esempi di allestimenti che mostrano come il considero “Giulio Cesare in Egitto” sia una pietra miliare del teatro in musica, non solo per la caratterizzazione dei personaggi (insolita in un’epoca barocca dove i vocalizzi contavano più dell’evoluzione psicologica) ma anche perché anticipa - ad esempio l’uso del recitativo accompagnato che esplode in un’aria nella scena dell’appuntamento tramutato in imboscata - pure il declamato del Novecento. Concepito per essere vista e ascoltata da esperti della musica di Händel, l’allestimento di Ottavio Datone non faceva sconti, specialmente sotto il profilo musicale: per questo il lavoro è affidato alla ravennate Accademia Bizantina guidata da Dantone, che utilizza un organico il più possibile simile all’originale: 28 strumentisti e l’impiego di strumenti d’epoca come la tiorba, la viola da gamba, i violoni e i flauti traversi. Il suono ha la ruvida dolcezza (solo in apparenza una contraddizione in termini) del teatro barocco, è di grande supporto alle voci, tranne che nelle “sinfonie” che fungono da preludi o intermezzi (grandioso quello della battaglia). Cecilia Bartoli promette che non ne farà nessuno a Salisburgo. (ilVelino/AGV)
(Hans Sachs) 23 Aprile
sabato 21 aprile 2012
A Roma il Barbiere non fa bella mostra di sé in Milano Finanza 21 aprile
di Giuseppe Pennisi
Lascia a bocca asciutta il molto atteso nuovo allestimento del Barbiere di Siviglia in scena a Roma fino al 26 aprile e successivamente in arrivo a Trieste, la cui fondazione lo coproduce. La regia affidata a Ruggero Cappuccio ha due innovazioni. La prima risiede nella presenza in scena del ventiquattrenne Rossini.
L'opera è l'immaginazione dell'autore mentre la compone. Non si tratta di una commedia farsesca, ma di un apologo della rivoluzione dei giovani contro gli anziani in una Siviglia stilizzata e onirica. Il primo punto resta irrisolto. È suggestivo il secondo, marcato dalle differenze dei colori dei costumi (bianchi e crema per i due giovani, sgargianti per gli altri) ma il palcoscenico è troppo affollato da mimi e giocolieri da far comprendere l'apologo a tutti gli spettatori.
Sotto il profilo musicale, è corretta ma fiacca la concertazione di Bruno Campanella. Di alta qualità il cast: giovane e in grado di recitare e anche danzare con efficacia. Con Paolo Bordogna (Bartolo), Alessandro Luogo (Figaro), Nicola Ulivieri (Basilio) e Laura Clerici (Berta) si va sul sicuro. Nella prima parte spiccano Juan Francisco Gatell (Almaviva) per la vocalità chiara e l'agilità e soprattutto Annalisa Stroppa per il timbro scuro e la coloratura. Meno brillante nella seconda parte, Gatell scansa la difficile aria Cessa di più resistere, decurtando il finale. E lasciando questo Barbiere in mezzo al guado. Da auspicare correzioni di tiro nelle numerose repliche prima dell'approdo al Teatro Verdi di Trieste. (riproduzione riservata)
il progetto In Portogallo c’è chi studia l’uscita dall’euro in Avvenire 21 aprile
DI GIUSEPPE PENNISI
G li occhi sono puntati sulla Grecia e sulla Spagna ma il prossi¬mo duro colpo all’eurozona potrebbe venire dal piccolo Portogallo, il cui debito pubblico sfiora il 93% del Pil. Lisbona sfiora l’insolvenza, nonostante si tratti di cifre modeste se raffrontate con il debito pubblico di altri Paesi: quello del Portogallo ammonta a meno di 200 miliardi di euro, il 66% di quello del¬la Grecia ed un decimo di quello dell’Italia. I titoli emessi dal Tesoro di Lisbona, però, vengono classificati da Fitch come «spazzatura», mentre nel Paese è molto attivo il movimento per il 'ripudio' del debito.
In Portogallo il 18 aprile è stato pubblicato il primo programma dettagliato per uscire dall’euro senza farsi trop¬po male. È differente da quel¬li lanciati da alcuni economisti greci, accademici anziani ed imbevuti di cultura nazionalista. Questo è invece redatto da Pedro Cosme Vieria, un giovane professore di economia dell’Università di Porto che pubblica sulle princi¬pali riviste di econometria di Gran Bretagna e Stati Uniti. Il programma parte dalla considerazione che a 20 anni dal¬la firma del Trattato di Maa¬stricht l’eurozona è «sull’orlo di un precipizio», soprattutto a causa dei differenziali d’in¬lazione che hanno causato massicci disavanzi dei conti con l’estero, forti aumenti del credito totale interno nei Paesi in deficit e quindi montagne di debito pubblico. Il lavoro contiene stime detta¬gliate per ciascun Paese di quanto dovrebbe svalutare (rispetto all’euro) per competere (ad esempio, la Grecia del 20%, la Spagna del 15%, il Portogallo del 10%, l’Italia dell’8%). Non potendo utilizzare il cambio, si stanno comprimendo i salari reali netti in busta paga. Cosme Vieria accusa di «catastrofismo terroristico » coloro secondo i quali la fine dell’eurozona provo¬cherebbe il caos e propone un percorso semplice per i Paesi a cui la «camicia di forza del¬l’eurozona » sta stretta: an¬nunciare una strada per tornare alle monete precedenti all’euro con un «cambio mobile » (in gergo crawling peg )
agganciato all’euro di chi re¬sta nell’eurozona ed intro¬durre uno spread per i con¬tratti in valuta locale indiciz¬zato all’Euribor (i tassi dei mutui aggiornati periodicamente) . I conti bancari continue¬rebbero ad essere denominati in euro, ma prezzi e salari nella moneta locale. Ciò servirebbe a contenere prezzi e salari (non solo i secondi come avviene adesso) in termini di euro, ad aumentare le e-sportazioni e frenare le importazioni, senza incidere sul¬la libertà di movimento di fat¬tori produttivi, merci e servi¬zi. Dopo una fase di transizione ciascun Paese potrebbe valutare se rientrare negli ac-cordi europei sui cambi oggi in vigore e di solito chiamati Sme II in quanto prevedono fasce di oscillazione (attorno all’euro) differenziate per ciascun Paese. Un programma a¬nalogo (ma meno specifico) viene fatto circolare dal finanziare franco-americano André Cabannes. Pare che il committente sia il candidato all’Eliseo François Hollande .
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Il giovane economista Cosme Vieira propone di passare a valute con un cambio mobile per svalutare anche i prezzi, non solo i salari
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giovedì 19 aprile 2012
Il Barbiere di Siviglia e il vizio di voler "aggiornare" Rossini in Il Sussidiario del 20 aprile
Il Barbiere di Siviglia e il vizio di voler "aggiornare" Rossini
Giuseppe Pennisi
venerdì 20 aprile 2012
Un momento de “Il Barbiere di Siviglia”
Approfondisci
OPERA/ Stiffelio, il capolavoro "trascurato" di Giuseppe Verdi
MAGGIO FIORENTINO/ Il Festival sta per sbocciare: sarà vera "svolta"?
Quando nel lontano 1972, Claudio Abbado e Jean–Pierre Ponnelle presentarono alla Scala un’edizione “storica” del rossiniano “Il Barbiere di Siviglia” che si può ancora ammirare in dvd, non toccarono una virgola e una nota del libretto e si dotarono di un cast stellare (Prey, Berganza, Alva, Dara, Montarsolo). “Il Barbiere” – una delle quattro maggiori commedie in musica del diciannovesimo secolo – è una macchina perfetta: basta avere ingredienti buoni e freschi perché funzioni alla perfezione..
Ricordiamo brevemente la trama della pièce di Beaumarchais: Bartolo, medico di una certa età, vuole impalmare la giovane, bella e ricca Rosina di cui è tutore ossia, rifacendoci al clima dell’epoca, protettore-amante da qualche tempo. Il desiderio di convolare a nozze non è tanto di carpirne una cospicua eredità (non se ne parla mai) ma perché vede giovanotti di bella presenza, e pure con il portafoglio pieno, ronzare attorno alla ragazza con l’intenzione di portargliela via. In effetti, la fanciulla ha messo gli occhi su un attraente studente (si dichiara tale, ma è un contino donnaiolo di chiara fama).
Con l’aiuto di un barbiere tuttofare (Figaro), specialmente se c’è denaro in vista, il giovanotto assume varie vesti (i panni di militare e di prete insegnante di musica) per entrare nella barricatissima abitazione di Bartolo, corteggiare la ragazza e sposarla, per poi tentare di tradirla con la cameriera (come si vede nella seconda puntata della trilogia). Ma finendo per essere beffato dalle due donne. In breve sono tutti “cattivi”, ma Rossini li guarda con brio, quasi prendendoli in giro.
A fine Settecento, la pièce di Beaumarchais aveva una certa carica rivoluzionaria: il “Terzo stato” (Figaro) metteva ordine nei pasticci di clero, aristocrazia decadente e borghesia emergente. Messa in musica dall’anziano Giovanni Paisiello, diventò un’elegante e delicata commedia sentimentale. Pochi anni più tardi, al giovane Gioacchino Rossini venne chiesto di musicarla nell’arco di una settimana.
Nelle mani di Rossini, “teocon” davvero reazionario ma bonvivant e pieno di amanti già a 24 anni, diventò frizzante come il lambrusco e brillante come la cucina romagnola, dove il Cigno di Pesaro trascorse la sua infanzia girovaga. Riconosciuta come una delle quattro maggiori commedie in musica dell’Ottocento, “Il Barbiere” continuò ad avere strepitoso successo anche quando imperversava il melodramma verdiano e quasi tutti i lavori rossiniani erano finiti nel dimenticatoio. Tanto da essere ancora oggi una delle opere del pesarese più frequentemente rappresentate.
Da qualche tempo, si usa metter mano al capolavoro con ambizioni sbagliate e risultati deludenti. A Roma, il direttore d’orchestra si trasformò anche in regista, anzi “capocomico”, rendendo la commedia una farsa e interrompendola per dialogare con gli spettatori . Un paio di anni fa, il Teatro Massimo di Palermo ha presentato un “Barbiere di Siviglia” con una lettura in cui Figaro visto veniva come un “precario” in una Siviglia in cui tutti hanno un ruolo ben definito: Almaviva quello del ricco spasimante, Rosina quello dell’innamorata avvinghiata da lacci e lacciuoli relativi alla propria condizione sociale, Bartolo quello del burbero a caccia di fanciulle e doti, Basilio quello dell’Azzeccagarbugli pronto a farsi convincere con una manciata di denaro.
Al Regio di Parma, poco più di un anno fa, Figaro ere ancora una volta un “precario” che mette le sue doti al servizio dei potenti sia al tramonto (Don Bartolo, Don Basilio) sia emergenti (il giovane Conte d’Almaviva e, soprattutto, la pepata Rosina). Cerca, come tutti i “precari”, un posto fisso. E lo otterrà. Al servizio di Almaviva che, come sapremo dal prosieguo della vicenda, tenterà di portare nel proprio letto la sua fidanzata, restandone però scornato di fronte all’universo mondo. Nell’allestimento di Parma non c’ere la vis polemica presente in quello palermitano, ma si perdeva l’inimitabile “brio” rossiniano.
Lascia a bocca asciutta l'attesissimo nuovo allestimento che ha debuttato a Roma (dove resta in scena al 26 aprile) e che successivamente andrà a Trieste.
La regia affidata a Ruggero Cappuccio ha due innovazioni: a) il ventiquattrenne Rossini è in scena e l’opera è l’immaginazione dell’autore mentre la compone; b) non è una commedia farsesca, ma un apologo della rivoluzione dei giovani contro gli anziani in una Siviglia stilizzata e onirica. Il primo punto resta irrisolto. Suggestivo il secondo, marcato dalle differenze dei colori dei costumi (bianchi e crema per i due giovani, sgargianti - come quelli delle statuette di Capodimonte - per gli altri) ma il palcoscenico è troppo affollato da mimi e giocolieri da far comprendere l’apologo a tutti gli spettatori.
Sotto il profilo musicale, corretta ma fiacca la concertazione di Bruno Campanella. Di alta qualità il cast: giovane e in grado di recitare, e anche di danzare con efficacia. Con Paolo Bordogna (Bartolo), Alessandro Luogo (Figaro), Nicola Ulivieri (Basilio) e Laura Clerici (Berta) si va sul sicuro.
Nella prima parte spiccano Juan Francisco Gatell (Almaviva) per la vocalità chiara e l’agilità e soprattutto Annalisa Stroppa per il timbro scuro e la coloratura. Meno brillante nella seconda parte, Gatell scansa la difficile aria Cessa di più resistere, decurtando il finale. E lasciando questo“Barbiere” in mezzo al guado. Da augurare correzioni di tiro nelle numerose repliche prima dell’approdo al Teatro Verdi di Trieste.
© Riproduzione Riservata.
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Giuseppe Pennisi
venerdì 20 aprile 2012
Un momento de “Il Barbiere di Siviglia”
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OPERA/ Stiffelio, il capolavoro "trascurato" di Giuseppe Verdi
MAGGIO FIORENTINO/ Il Festival sta per sbocciare: sarà vera "svolta"?
Quando nel lontano 1972, Claudio Abbado e Jean–Pierre Ponnelle presentarono alla Scala un’edizione “storica” del rossiniano “Il Barbiere di Siviglia” che si può ancora ammirare in dvd, non toccarono una virgola e una nota del libretto e si dotarono di un cast stellare (Prey, Berganza, Alva, Dara, Montarsolo). “Il Barbiere” – una delle quattro maggiori commedie in musica del diciannovesimo secolo – è una macchina perfetta: basta avere ingredienti buoni e freschi perché funzioni alla perfezione..
Ricordiamo brevemente la trama della pièce di Beaumarchais: Bartolo, medico di una certa età, vuole impalmare la giovane, bella e ricca Rosina di cui è tutore ossia, rifacendoci al clima dell’epoca, protettore-amante da qualche tempo. Il desiderio di convolare a nozze non è tanto di carpirne una cospicua eredità (non se ne parla mai) ma perché vede giovanotti di bella presenza, e pure con il portafoglio pieno, ronzare attorno alla ragazza con l’intenzione di portargliela via. In effetti, la fanciulla ha messo gli occhi su un attraente studente (si dichiara tale, ma è un contino donnaiolo di chiara fama).
Con l’aiuto di un barbiere tuttofare (Figaro), specialmente se c’è denaro in vista, il giovanotto assume varie vesti (i panni di militare e di prete insegnante di musica) per entrare nella barricatissima abitazione di Bartolo, corteggiare la ragazza e sposarla, per poi tentare di tradirla con la cameriera (come si vede nella seconda puntata della trilogia). Ma finendo per essere beffato dalle due donne. In breve sono tutti “cattivi”, ma Rossini li guarda con brio, quasi prendendoli in giro.
A fine Settecento, la pièce di Beaumarchais aveva una certa carica rivoluzionaria: il “Terzo stato” (Figaro) metteva ordine nei pasticci di clero, aristocrazia decadente e borghesia emergente. Messa in musica dall’anziano Giovanni Paisiello, diventò un’elegante e delicata commedia sentimentale. Pochi anni più tardi, al giovane Gioacchino Rossini venne chiesto di musicarla nell’arco di una settimana.
Nelle mani di Rossini, “teocon” davvero reazionario ma bonvivant e pieno di amanti già a 24 anni, diventò frizzante come il lambrusco e brillante come la cucina romagnola, dove il Cigno di Pesaro trascorse la sua infanzia girovaga. Riconosciuta come una delle quattro maggiori commedie in musica dell’Ottocento, “Il Barbiere” continuò ad avere strepitoso successo anche quando imperversava il melodramma verdiano e quasi tutti i lavori rossiniani erano finiti nel dimenticatoio. Tanto da essere ancora oggi una delle opere del pesarese più frequentemente rappresentate.
Da qualche tempo, si usa metter mano al capolavoro con ambizioni sbagliate e risultati deludenti. A Roma, il direttore d’orchestra si trasformò anche in regista, anzi “capocomico”, rendendo la commedia una farsa e interrompendola per dialogare con gli spettatori . Un paio di anni fa, il Teatro Massimo di Palermo ha presentato un “Barbiere di Siviglia” con una lettura in cui Figaro visto veniva come un “precario” in una Siviglia in cui tutti hanno un ruolo ben definito: Almaviva quello del ricco spasimante, Rosina quello dell’innamorata avvinghiata da lacci e lacciuoli relativi alla propria condizione sociale, Bartolo quello del burbero a caccia di fanciulle e doti, Basilio quello dell’Azzeccagarbugli pronto a farsi convincere con una manciata di denaro.
Al Regio di Parma, poco più di un anno fa, Figaro ere ancora una volta un “precario” che mette le sue doti al servizio dei potenti sia al tramonto (Don Bartolo, Don Basilio) sia emergenti (il giovane Conte d’Almaviva e, soprattutto, la pepata Rosina). Cerca, come tutti i “precari”, un posto fisso. E lo otterrà. Al servizio di Almaviva che, come sapremo dal prosieguo della vicenda, tenterà di portare nel proprio letto la sua fidanzata, restandone però scornato di fronte all’universo mondo. Nell’allestimento di Parma non c’ere la vis polemica presente in quello palermitano, ma si perdeva l’inimitabile “brio” rossiniano.
Lascia a bocca asciutta l'attesissimo nuovo allestimento che ha debuttato a Roma (dove resta in scena al 26 aprile) e che successivamente andrà a Trieste.
La regia affidata a Ruggero Cappuccio ha due innovazioni: a) il ventiquattrenne Rossini è in scena e l’opera è l’immaginazione dell’autore mentre la compone; b) non è una commedia farsesca, ma un apologo della rivoluzione dei giovani contro gli anziani in una Siviglia stilizzata e onirica. Il primo punto resta irrisolto. Suggestivo il secondo, marcato dalle differenze dei colori dei costumi (bianchi e crema per i due giovani, sgargianti - come quelli delle statuette di Capodimonte - per gli altri) ma il palcoscenico è troppo affollato da mimi e giocolieri da far comprendere l’apologo a tutti gli spettatori.
Sotto il profilo musicale, corretta ma fiacca la concertazione di Bruno Campanella. Di alta qualità il cast: giovane e in grado di recitare, e anche di danzare con efficacia. Con Paolo Bordogna (Bartolo), Alessandro Luogo (Figaro), Nicola Ulivieri (Basilio) e Laura Clerici (Berta) si va sul sicuro.
Nella prima parte spiccano Juan Francisco Gatell (Almaviva) per la vocalità chiara e l’agilità e soprattutto Annalisa Stroppa per il timbro scuro e la coloratura. Meno brillante nella seconda parte, Gatell scansa la difficile aria Cessa di più resistere, decurtando il finale. E lasciando questo“Barbiere” in mezzo al guado. Da augurare correzioni di tiro nelle numerose repliche prima dell’approdo al Teatro Verdi di Trieste.
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martedì 17 aprile 2012
Da Usa e Giappone una nuova "grana" per Monti il Il Sussidiario 18 aprile
GEOFINANZA/ Da Usa e Giappone una nuova "grana" per Monti
Giuseppe Pennisi
mercoledì 18 aprile 2012
Infophoto
Approfondisci
FINANZA/ Quadrio Curzio: Italia, quattro riforme per "superare" la Germania
FINANZA/ Così la "maga" Merkel trasforma Monti in Berlusconi, di M. Arnese
vai al dossier Crisi o ripresa?
Oggi il Consiglio dei ministri dovrebbe varare la Decisione di economia e finanza (Def) e il Programma nazionale per le riforme (Pnr). Il condizionale è d’obbligo perché la Def era attesa da almeno una settimana e i rumors di corridoio davano il Pnr in arrivo addirittura il 15 marzo - dato che la Commissione europea ha presentato in novembre, invece che in gennaio, lo scenario di riferimento entro cui formularlo.
Con questo calendario in mente il Cnel ha inviato all’inizio di marzo al Governo proposte per il Pnr; non solo, l’Osservatorio sulle strategie europee per la crescita e l’occupazione (Oseco) ha da alcuni giorni rimesso all’Intergruppo parlamentare Europa 2020 (una formazione di parlamentari europei provenienti da vari scacchieri politici) i propri suggerimenti, mettendo l’accento sulle aree meno coperte dal documento del Cnel. Non mancano altre iniziative.
Sarebbe difficile comprendere le ragioni dell’inazione se il Bollettino della Banca d’Italia pubblicato ieri non raggelasse le aspettative ricordando a tutti che oggi le prospettive sono meno brillanti di quanto lo fossero soltanto pochi mesi fa, al tempo dei Decreti Legge chiamati “Salva Italia” e “Cresci Italia”. In aggiunta, il Bollettino tratta la contrazione in corso come un fenomeno macro-economico standard e non come una ben più perniciosa balance sheets recession, ossia una recessione innescata da un eccesso di indebitamento che ha causato un mutamento di paradigma a individui, famiglie, imprese e servizi finanziari - da un obiettivo di massimizzazione dell’utile si è passati a quello della minimizzazione dell’indebitamento.
Ci vorranno mesi per comprendere come uscire dalla balance sheets recession: negli Usa - lo documenta un lavoro di Richard Koo - ci sono voluti trent’anni, il Giappone ci sta tentando da almeno quindici. Cosa fare? Tre modeste proposte possono servire a dipanare una complessa matassa. Esse si basano sul principio rawlsiano di beni primari, che sono quelli che una persona ragionevole considera essenziali, qualsiasi altra cosa la stessa persona giudicasse utile. Quindi sono proposte non solo modeste, ma anche minimali da arricchirsi con quanto è possibile tirare fuori da una finanza pubblica in cui la coperta è corta e che rischia di essere ancora più corta in futuro a ragione del pesante aumento della pressione tributaria.
La prima proposta riguarda i debiti delle amministrazioni (centrali e locali, grandi e piccoli) nei confronti delle imprese. Non solo stanno portando al dissesto numerose realtà imprenditoriali, ma stanno diffondendo a macchia d’olio balance sheets recession: devono essere saldati al più presto, anche se ciò comporta sforare gli obiettivi di un Fiscal Compact sulla cui efficacia nessuno pare più credere. Parte delle risorse possono essere trovate da una moratoria ai rimborsi elettorali in attesa che si trovi un sistema sostenibile e trasparente di finanziamento pubblico della politica (sempre che lo si consideri utile).
La seconda proposta riguarda il riassetto degli ammortizzatori sociali. Deve andare di pari passo con la nuova normativa sul mercato del lavoro, non su due binari differenti e accavallando meccanismi differenti. Dalla razionalizzazione si potrebbero trovare risorse per obiettivi più meritevoli e più prioritari.
La terza proposta riguarda l’occupazione giovanile, la vera vergogna dell’Italia nei confronti internazionali. Esiste una pletora di agenzie (ItaliaLavoro spa, l’Isfol, i centri per l’impiego e via discorrendo) che se ne occupa, con duplicazioni di ogni sorta e una marea di personale (l’Isfol ha 600 dipendenti, mentre il suo omologo tedesco ne ha 40). I risultati sono quanto meno tali da destare perplessità. Qui ci vorrebbero razionalizzazione e uno snellimento urgente al fine di utilizzare le risorse per impieghi produttivi per i giovani, non per burocrazie che paiono girare a vuoto.
Giuseppe Pennisi
mercoledì 18 aprile 2012
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Con questo calendario in mente il Cnel ha inviato all’inizio di marzo al Governo proposte per il Pnr; non solo, l’Osservatorio sulle strategie europee per la crescita e l’occupazione (Oseco) ha da alcuni giorni rimesso all’Intergruppo parlamentare Europa 2020 (una formazione di parlamentari europei provenienti da vari scacchieri politici) i propri suggerimenti, mettendo l’accento sulle aree meno coperte dal documento del Cnel. Non mancano altre iniziative.
Sarebbe difficile comprendere le ragioni dell’inazione se il Bollettino della Banca d’Italia pubblicato ieri non raggelasse le aspettative ricordando a tutti che oggi le prospettive sono meno brillanti di quanto lo fossero soltanto pochi mesi fa, al tempo dei Decreti Legge chiamati “Salva Italia” e “Cresci Italia”. In aggiunta, il Bollettino tratta la contrazione in corso come un fenomeno macro-economico standard e non come una ben più perniciosa balance sheets recession, ossia una recessione innescata da un eccesso di indebitamento che ha causato un mutamento di paradigma a individui, famiglie, imprese e servizi finanziari - da un obiettivo di massimizzazione dell’utile si è passati a quello della minimizzazione dell’indebitamento.
Ci vorranno mesi per comprendere come uscire dalla balance sheets recession: negli Usa - lo documenta un lavoro di Richard Koo - ci sono voluti trent’anni, il Giappone ci sta tentando da almeno quindici. Cosa fare? Tre modeste proposte possono servire a dipanare una complessa matassa. Esse si basano sul principio rawlsiano di beni primari, che sono quelli che una persona ragionevole considera essenziali, qualsiasi altra cosa la stessa persona giudicasse utile. Quindi sono proposte non solo modeste, ma anche minimali da arricchirsi con quanto è possibile tirare fuori da una finanza pubblica in cui la coperta è corta e che rischia di essere ancora più corta in futuro a ragione del pesante aumento della pressione tributaria.
La prima proposta riguarda i debiti delle amministrazioni (centrali e locali, grandi e piccoli) nei confronti delle imprese. Non solo stanno portando al dissesto numerose realtà imprenditoriali, ma stanno diffondendo a macchia d’olio balance sheets recession: devono essere saldati al più presto, anche se ciò comporta sforare gli obiettivi di un Fiscal Compact sulla cui efficacia nessuno pare più credere. Parte delle risorse possono essere trovate da una moratoria ai rimborsi elettorali in attesa che si trovi un sistema sostenibile e trasparente di finanziamento pubblico della politica (sempre che lo si consideri utile).
La seconda proposta riguarda il riassetto degli ammortizzatori sociali. Deve andare di pari passo con la nuova normativa sul mercato del lavoro, non su due binari differenti e accavallando meccanismi differenti. Dalla razionalizzazione si potrebbero trovare risorse per obiettivi più meritevoli e più prioritari.
La terza proposta riguarda l’occupazione giovanile, la vera vergogna dell’Italia nei confronti internazionali. Esiste una pletora di agenzie (ItaliaLavoro spa, l’Isfol, i centri per l’impiego e via discorrendo) che se ne occupa, con duplicazioni di ogni sorta e una marea di personale (l’Isfol ha 600 dipendenti, mentre il suo omologo tedesco ne ha 40). I risultati sono quanto meno tali da destare perplessità. Qui ci vorrebbero razionalizzazione e uno snellimento urgente al fine di utilizzare le risorse per impieghi produttivi per i giovani, non per burocrazie che paiono girare a vuoto.
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