lunedì 30 aprile 2012

Spending review, le due sfide per il "risanatore" Bondi in Il Sussidiario del primo maggio

Spending review, le due sfide per il "risanatore" Bondi Giuseppe Pennisi martedì 1 maggio 2012 Enrico Bondi (Infophoto) Approfondisci FINANZA/ Pelanda: ecco come evitare un’altra stangata BENZINA RECORD/ L'esperto: il prezzo non scenderà a breve. E per il carrello della spesa..., int. a G. Colangelo È fin troppo facile dire, all’indomani della presentazione del primo documento sulla spending review, che la montagna ha partorito un topolino. Da un lato, erano state create aspettative eccessive sulla capacità di giungere a risultati concreti significativi nel lasso di pochi mesi, tramite un’operazione di revisione delle priorità di bilancio condotta, in sostanza, dal Ministro per i Rapporti con il Parlamento, Prof. Piero Giarda, con il supporto di pochi volenterosi, anche se ora potenziato da una task force di Ministri, integrata con un noto ?risanatore?, Enrico Bondi. Da un altro, tentativi precedenti, pur se inquadrati nell’ambito di quella Ragioneria Generale dello Stato dove il bilancio delle pubbliche amministrazioni viene formulato e monitorato, hanno indicato che esercizi di questa natura, per avere risultati positivi, richiedono un quadro istituzionale appropriato, un metodo condiviso e, soprattutto, molta perseveranza e tenacia. Tuttavia, l’amico Piero Giarda, con cui ho in comune non solamente la professione di economista ma ancor di più la passione per la musica lirica, mi consenta di fare alcuni rilievi sul merito e sul metodo. Sul merito, se è vero quanto filtrato dal Consiglio dei ministri di ieri, le riduzioni effettive di spesa corrente da attendersi nell’immediato come prima fase della spending review sarebbero limitatissime, dell’ordine di circa 5 miliardi di euro. Se ciò venisse confermato dalle decisioni dei prossimi giorni e delle prossime settimane, si darebbe un colpo durissimo alla credibilità non tanto della review, ma del Governo stesso, specialmente perché a ragione principalmente dell’aumento dei tassi d’interesse, nell’esercizio finanziario in corso la qualità della distribuzione tra spesa delle pubbliche amministrazione di parte corrente e investimenti pubblici è fortemente deteriorata: in effetti, la spesa per interessi rischia di superare in misura significativa quella in conto capitale. In aggiunta, si sta aggravando il problema dei debiti delle pubbliche amministrazioni nei confronti delle imprese (ormai una somma pari all’8% del Pil - tale da portare il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno al 130%). Non è nel mandato del Prof. Giarda affrontare e risolvere il problema dell’insoluto delle pubbliche amministrazioni nei confronti delle imprese. Tuttavia, nella visione di un’Italia più moderna e più giusta, già nella prima fase, ove non nell’antipasto della spending review, si dovrebbe prevedere, prima della fine del 2012, l’abolizione delle Province, la razionalizzazione dei contributi all’editoria e allo spettacolo, un dimezzamento almeno dei rimborsi elettorali (sarebbe auspicabile la loro totale abolizione), l’entrata in vigore immediata dei tetti a superstipendi nelle pubbliche amministrazioni, nelle aziende a capitale pubblico (quotate e non quotate) e nel variopinto “capitalismo municipale”, l’allineamento delle retribuzioni del personale all’estero (anche diplomatico e militare) alla media di quello degli Stati dell’Europa meridionale in ambasce di finanza pubblica analoghe alle nostre. E via discorrendo. Si potrebbe arrivare facilmente a un totale di 30 miliardi di euro e scongiurare un nuovo aumento dell’Iva o una nuova manovra finanziaria. Nel contempo, per favorire la crescita, si dovrebbero consentire alle imprese detrazioni d’imposta analoghe a quanto a esse dovuto dalle pubbliche amministrazione e una drastica abolizione della miriade di tax expenditures (agevolazioni tributarie) spesso varate unicamente a fini particolaristici. Queste misure “minime” darebbero credibilità alla spending review. E ne permetterebbero la prosecuzione. Sul metodo, è utile riallacciarsi all’esperienza francese del “Programme de Rationalisation des choix budgétaire”, attuato in Francia in due fasi - la prima dalla metà degli anni Settanta sino al 1985 circa, la seconda a partire dalla riforma dei documenti di bilancio nel 1998. È un’esperienza che va valutata con attenzione. In effetti, definiti gli obiettivi generali di governo, si chiedeva alle amministrazioni di studiare l’apporto che ciascuna di esse potesse dare in documenti che venivano pubblicati e messi a confronto gli uni con gli altri ed erano oggetto di dibattito professionale (sulla qualità dell’analisi) e pubblico (sulla corrispondenza con gli obiettivi di politica economica). La prima fase ha dato risultati modesti in quanto impiantata su base volontaristica. Ha comunque contribuito al risanamento della finanza pubblica francese, coronato con l’“accordo del Louvre” del 1987 sul cambio fisso tra franco e marco. La seconda fase - non più volontaristica - si è rivelata uno strumento molto utile non solo per la definizione delle priorità di bilancio, ma anche per la loro trasparenza. Interessante a proposito un saggio di Bernard Perret pubblicato alcuni anni sulla Revue Française d’Administration Publique. Specialmente nella seconda fase, “Programme de Rationalisation des choix budgétaire” è riuscito a incidere perché aveva un’ancora forte nelle varie forme e denominazioni che, negli anni, ha assunto la direzione del bilancio nel Ministero dell’Economia e delle Finanze d’Oltralpe. Giarda, d’intesa con il Vice Ministro Grilli, potrebbe trovare un perno nel servizio studi della Ragioneria Generale dello Stato - servizio creato (vale la pena ricordarlo) proprio a questo scopo. © Riproduzione Riservata.

A Ravenna Rinaldo si mostra a tutto tondo in Milano Finanza 28 aprile

InScena A Ravenna Rinaldo si mostra a tutto tondo di Giuseppe Pennisi Dopo sette anni di sosta, Rinaldo di Händel torna in campo per mostrare come si fa teatro in musica contenendo i costi e attirando pubblico giovane. È partito da Ravenna il 20 aprile e fino al 6 maggio sarà in scena a Reggio e Ferrara. Lo spettacolo è nato nel 1985 ed è stato già visto in 18 teatri in Europa e Asia. A ogni tappa è stato lievemente ritoccato. Per questa messinscena, Pier Luigi Pizzi e Ottavio Dantone (alla guida dell'Accademia Bizantina) hanno ridotto la durata dello spettacolo a due ore e mezzo e utilizzano un'orchestra snella con strumenti il più simili possibile a quelli del 1710. Il confronto con il Rinaldo presentato alla Scala nel 2005 lo mostra a tutto tondo, specialmente negli ottoni che a Milano pareva avessero scambiato Händel con Leoncavallo. Qui il ritmo è incalzante, gli effetti speciali alla Spielberg, che si riallacciano al Teatro Kabuki, un cast giovane e atletico specializzato nella vocalità barocca. Il tenore Krystian Adam (Goffredo) mette in luce agilità virtuosistica. Maria Grazia Schiavo (Almirena) strappa lunghi applausi dopo l'aria Lascia che io pianga. Roberta Invernizzi è un'Armida sensuale (nella seduzione di Rinaldo, Marina de Liso) e gelosa nei confronti di Argante (Riccardo Novaro). Unico neo: l'eros della partitura resta in buca e si avverte nel palcoscenico unicamente in alcuni numeri. Alla prima al Teatro Alighieri, sono state riservate lunghe ovazioni per un quarto d'ora. (riproduzione riservata)

"3e32 Naufragio di Terra", l'Aquila e quelle ferite che si fanno musica in Il Sussidiario 28 aprile

OPERA/ "3e32 Naufragio di Terra", l'Aquila e quelle ferite che si fanno musica Giuseppe Pennisi sabato 28 aprile 2012 La Basilica di S. Maria di Collemaggio Approfondisci OPERA/ Trenitalia in svendita ai russi, ma nella "cantata ferroviaria" OPERA/ "Rinaldo" torna a Ravenna e fa scuola Come abbiamo ricordato su Il Sussidiario.net del 20 febbraio, nel centro storico de l’Aquila (ancora in gran misura un cumulo di macerie), è stato riaperto il ridotto del teatro comunale per due brevi opere contemporanee. A poco più di tre anni dal sisma che ha sconvolto L’Aquila, la Società Aquilana dei Concerti “B. Barattelli” presenta in prima esecuzione assoluta 3.32 Naufragio di terra nuovo lavoro di Lucia Ronchetti, fra le più interessanti compositrici italiane di oggi, ideato da Guido Barbieri che ne ha curato la drammaturgia e la messa in scena. L’opera che vuole essere un modo di attraversare la memoria e l’esperienza umana che ha lasciato il terribile sisma avvenuto alle ore 3.32 del 6 aprile 2009, con le sue oltre trecento vittime e che ha causato le devastazioni materiali che hanno sfigurato la città dell'Aquila e i suoi dintorni. La prima rappresentazione sarà sabato 28 aprile alle ore 21 (ingresso libero) nella Basilica di S. Maria di Collemaggio, uno dei monumenti simbolici e più colpiti della città, aperta al pubblico e al culto nel 2010 dopo delicati lavori di messa in sicurezza. Protagonisti della serata saranno sette testimoni di quella tragica notte, le cui storie sono state raccolte e trascritte da Guido Barbieri: Massimo Cinque, Ilaria Carosi, Federico Vittorini, Claudio Bendetti, Federica Fioravanti, Renza Bucci, Roberto Bonura, ciascuno dei quali ha vissuto direttamente la perdita di uno o più cari, parenti e amici. La musica di Lucia Ronchetti è affidata a cori misti (Corale “L’Aquila” e il Coro AMLAS di Albano Laziale (Giulio Gianfelice e Anna Di Baldo, maestri dei cori) e al gruppo vocale Ready-Made Ensemble diretto da Gianluca Ruggeri Guido Barbieri sottolinea: “La Basilica di Collemaggio, costruita alla fine del 1200 e riaperta nel 2010, testimonia insieme la continuità della tradizione e la tragica discontinuità generata dal terremoto, attraverso uno sventramento interno, tuttora dolorosamente visibile, proprio nel luogo deputato dell’altare, dove vi erano la cupola, l’arco trionfale e l’aggancio con le tre navate. Il tetto in quel punto è ora completato da lamine trasparenti che lasciano vedere il cielo e trasmettono i suoni atmosferici, gli scricchiolii della ‘protesi’ architettonica, generando una nuova instabilità, questa volta anche acustica”. Prendendo spunto dal rito delle tenebre che nell’antica tradizione cristiana prevedeva che il mercoledì santo venisse acceso, nel presbiterio della chiesa madre, un grande candelabro con quindici braccia le cui candele venivano spente una dopo l’altra al termine di ogni cantico o salmo, passando lentamente dalla luce all’oscurità, il candelabro del rito delle tenebre riproposto da 3e32 Naufragio di sarà simbolizzato da sette testimoni, persone che realmente e direttamente hanno vissuto la catastrofe, che assumeranno nello spazio scenico della Basilica una posizione precisa ricordando proprio la configurazione di un grande candelabro. Le loro voci rappresentano le fiammelle che bruciano e poi si estinguono. “La drammaturgia ideata da Guido Barbieri – racconta Lucia Ronchetti - evoca il suono controllato della preghiera corale e allo stesso tempo mette in scena la concretezza materica della voce parlata che testimonia e ripercorre l’evento tragico del terremoto subito. Ma il ‘Naufragio di terra’ detta anche il sibilo del vento, la violenza delle zolle di terra rivoltate, lo sprofondare di case, oggetti e persone, la desolazione del presente. Le masse corali sono chiamate a rappresentare il subito prima e il subito dopo di quell’attimo infernale delle 3 e 32 del 6 aprile 2009 in cui tutto si è rovesciato, il ‘naufragio della terra’ che ancora una volta viviamo da spettatori, spaventati e salvi. ________________________________________

giovedì 26 aprile 2012

LA POLITICA DELLA “DONNA SENZ’OMBRA” In Mondoperaio aprile 2012

LA POLITICA DELLA “DONNA SENZ’OMBRA” Giuseppe Pennisi Come mai una rivista di cultura politica come “Mondoperaio” entra in un comparto come la musica, ed in particolare quella che il musicologo Herbert Lindenberger ha chiamato La musa bizzarra e altera , ossia la musica lirica? In primo luogo, è forma di arte dal vivo tipicamente italiana non solo perché nata in Italia nel Rinascimento e diventata veicolo essenziale per il movimento di unità nazionale nel Risorgimento (come documentano, tra gli altri, Giovanni Gavazzeni, Armando Torno e Carlo Vitali nel recente libro O mia Patria? Storia musicale del Risorgimento tra inni, eroi e melodrammi. In secondo luogo, perché manca da decenni una politica per la musica in generale e per il teatro lirico in generale con risultati disastrosi: delle 13 fondazioni liriche nel 2010 (ultimo anno per il quale si dispone di consuntivi di bilancio) hanno chiuso i conti in pareggio o attivo, ma il debito accumulato è 300 milioni di euro; si attende da oltre un anno i decreti attuativi della nuova legge di settore; folle di giovani voci e bacchette italiane (nonché di orchestrali) emigrano in Germania, Usa e più di recente Corea, Giappone e anche Cina. Quindi un nodo politico c’è ed è serio. In terzo luogo, accanto a opere chiaramente “politiche” (da La Battaglia di Legnano di Verdi che, dopo un periodo di oblio, sta tornando su vari palcoscenici –Roma, Trieste, Parma – a Die Soltaden di Zimmermann che, co-prodotta con Salisburgo, si vedrà l’anno prossimo alla Scala) ci sono opere apparentemente apolitiche od impolitiche ma che hanno un forte contenuto di politica pubblica. Questi sono, ad esempio, i lavori di Richard Strauss, specialmente quelli su testi di Hugo von Hofmannsthal. Erroneamente, a mio avviso, Francesco Maria Colombo, allora critico musicale de “Il Corriere della Sera” (oggi direttore d’orchestra), chiamò “impolitico” il carteggio tra Strauss e Hofmannsthal quando, circa vent’anni fa, venne pubblicato dalla casa editrice Adelphi. Correttamente, invece, Mario Bortolotto ha utilizzato la traduzione italiana del nomignolo (Hofbusenschangle) attribuito dal Kaiser tedesco a Strauss negli anni precedenti la prima guerra mondiale : La Serpe in Seno . I suoi lavori (e la sua musica a metà tra due poli come Schoenberg e Stravinskij) corrodevano sia il “finis Europa” prima della “Grande Guerra” sia il regime nazista, di cui non fu mail musicista di corte, come Carl Orff (il cui “Carmina Burana è stato spesso intonato ai Festival dell’Unità dimenticando che era stato composto per il raduno dei giovani hitleriani) ma da Presidente dei Musicisti del Reich poté aiutare molti ebrei a fuggire dagli stessi campi di concentramento. Chiaramente politica la sua ultima opera per la scena (data a Monaco nell’ottobre 1942) Capriccio , non solo per l’ambientazione nella Francia nel periodo pre -rivoluzionario, ma anche per il messaggio libertario a fronte della difficoltà di scegliere e schierarsi. Ha un valore politico anche “Die Frau ohne Schatten” (“La Donna Senz’Ombra”) elemento centrale del cartellone scaligero 2011-2012, è co-prodotto con la Royal Opera House di Londra dove si vedrà l’anno prossimo. La produzione ha la regia di Claus Guth, uno dei più apprezzati metteurs en scène tedeschi che ha di recente trionfato nella dissacrante edizione della trilogia Mozart Da Ponte realizzata al Festival di Salisburgo. La direzione musicale è di Marc Albrecht, direttore stabile sia dell’opera e della sinfonica olandese e che ha già diretto “Die Frau ohne Schatten “nel tempio straussiano della Semperoper di Dresda. Cast di altissimo livello: Johan Botha, Emily Magee, Michaela Schuster, Samuel Youn, Mandy Fredrich, Maria Radner. “Die Frau ohne Schatten“ è una delle opere più importanti del Novecento ed il lavoro più amato dallo stesso Richard Strauss che avrebbe voluta dirigerla in tarda età quando si scherniva alle frequenti offerte di dirigere “Der Rosenkavalier” (“Il Cavaliere della Rosa”) dicendo che 78 anni era troppo lunga e faticosa, ma suggerendo che avrebbe ben preso la bacchetta per “Die Frau” (che dura venti minuti di più di “Rosen”). In cento anni è la quarta volta che è approdata alla Scala (dove si è vista due volte lo stesso allestimento, negli Anni Ottanta e Novanta, curato da Jean Pierre Ponnelle). In Italia, che io ricordi,negli ultimi trent’anni è stata messa in scena solamente a Firenze oltre che a Milano; l’allestimento scaligero di Ponnelle all’inizio degli Anni Novanta ed uno per la regia di Yannis Kokkos nel 2010. La regia è uno dei nodi più difficili dell’opera. Non che l’esecuzione musicale complessa: una partitura sontuosa che richiede un doppio coro, un coro di voci bianche e 15 solisti. Il libretto è una favola che può sembrare molto complicata. Per comprenderla non è necessario addentrarsi nelle molteplici fonti e nei simboli dei numerosi personaggi, di cui uno solo ha un nome (Barak, il tintore) mentre gli altri sono indicati per la loro funzione o per una loro caratteristica (L’Imperatore, l’Imperatrice, la Donna, la Nutrice, Il Messaggero degli Spiriti, il Guardiano del Tempio, lo Storpio, il Cieco, il Monco e così via). L’apologo è, però, lineare: un uomo e una donna non sono tali se non hanno figli – i quali, a loro volta, sono il nesso tra passato e futuro. Senza figli, l’amore è unicamente sesso e la coppia resta un eterno presente senza significato (e senza storia). La vera gioia si ha, però, unicamente al termine di uno percorso iniziatico pieno di dolori. Paternità e maternità, da un canto, e gioia grazie alla sofferenza, dall’altro, colpiscono tutti i personaggi del lavoro. Le due coppie al centro della vicenda sono, da un lato, il giovane e bell’Imperatore e la giovane e bella Imperatrice, e, dall’altro, un povero tintore con tre fratelli disabili e la di lui donna. La prima coppia non può generare perché l’Imperatrice non ha un’ombra (quindi non è una donna completa). L’altra perché troppo stanca e stressata dalle fatiche quotidiane. L’Imperatrice riesce, con un sotterfugio suggeritole dalla sua mefistofelica nutrice, a carpire l’ombra dalla donna, creando, però, a quest’ultima ed al suo Barak sofferenze ancora più gravi di quelle che avevano nella loro condizione precedente. La truffa – dell’ombra – non salva neanche la coppia imperiale, perché avviene troppo tardi. La salvezza viene dalla comprensione del dolore che Imperatore e Imperatrice hanno causato alla donna senz’ombra e dal tentativo di aiutare Barak e sua moglie. La compassione dei Cieli a questo punto non può non intervenire: risolvere i problemi di ambedue le coppie e trasformare il coro dei bambini non nati con cui termina il primo atto in un coro di bambini che stanno nascendo nel grandioso finale. Tutto avviene in un mondo mitico che richiede nel primo e nel terzo frequenti cambiamenti di scena a sipario aperto o solo leggermente abbassato mentre in orchestra si avvicendando (tra un quadro e l’altro) sette interludi, tutti differenti pur se tutti sullo stessa cellula musicale. Non solo, è necessario un palcoscenico a due livelli e nel terzo atto nei rapidi avvicendamenti ci vorrebbe anche una cascata, un bosco e via discorrendo Ho visto “Die Frau ohne Schatten“ più volte . La prima volte fu nel 1967 (ero studente; ero “studente e povero” per usare un noto verso di un’aria verdiana, del Rigoletto, ma riuscivo sempre ad andare al loggione) in quello che allora il “nuovo” Teatro dell’Opera di Francoforte, struttura modernissima. Non conoscevo l’opera che per averne sentito qualche sezione in disco. La messa in scena era tradizionale: palcoscenico a due livelli e scene dipinte. Oggi sembrerebbe semplice ma trasmise il grande fascino del lavoro. Negli Anni Settanta, il Metropolitan Opera di York sfoggiava un allestimento grandioso con cui metteva in mostra tutta la tecnologia allora disponibile. Molto differenti tra loro le ultime edizioni. Ho visto a Firenze quella firmata da Ponnelle (presentata due volte alla Scala ma nata a Colonia): una scena unica minimalista da teatro cinese, valida grazie al grande supporto della direzione musicale, dell’orchestra, dei cori e dei cantanti. Grandiosa nel maggio 2010, sempre nella città del Giglio, la produzione di Kokkos, di cui a causa degli scioperi ci sono state due sole recite; una grande festa di immagini e di colori. Così grandiosa da essere una delle determinanti del dissesto del teatro. Totalmente differente, la messa in scena di Christof Loy al Festival di Saliburgo: siamo nella leggendaria Sofiensaal di Vienna (ormai distrutta) dove nel 1955 Karl Böhn ed un cast stellare registrano l’opera e man mano che il lavoro procede gli interpreti in abiti anni cinquanta di fronte a microfoni e leggi, e seduti su semplici sedie quando non è il loro turno di cantare, entrano nei personaggi sino a soffrire e gioire per loro. Cosa fanno Claus Guth e Ronny Dietrich ? Prima che inizi la musica, vediamo una bella giovane donna (l’Imperatrice) ed il marito (l’Imperatore) ed un medico, in una clinica. La donna ha chiaramente disturbi mentali e la vicenda si dipana come un suo sogno. Non manche né una parola del testo né una nota; ci sono anche gli animali (il falco, la gazzella, il cervo); ma tutto diventa plausibile – un segno, al tempo stesso, erotico ed etico con un allestimento facilmente trasportabile da teatro a teatro. A supporto del disegno generale di Guth, ci sono le scene ed i costumi di Christian Schmidt, le luci di Olaf Winter ed i video di Andi Müller. Quale il messaggio politico che si trae? In primo luogo, come si è detto, quello della gioia dopo la sofferenza, della necessità della paternità e della maternità per essere completi, dei figlio come legame essenziale tra passato e presente. In secondo luogo, quello dell’amore coniugale che i quegli anni, Strauss lo esaltava in due opere date una sola volta in Italia : “Die Aegyptische Helena” (“Elena in Egitto”) e “Intermezzo”. In terzo luogo –ma è il più importante – quello di guardare in modo positivo al futuro, con la certezza di superare gli ostacoli. L’epistolario rivela che “Die Frau ohne Schatten“ era stata completata nel 1917, ma Strauss e Hofmannsthal vollero che andasse in scena dopo la fine del conflitto, quale che fosse l’esito. Gli Imperi Centrali – lo sappiamo – persero la guerra, ma Strauss e Hofmannsthal lanciarono lo stesso dall’Opera di Vienna il loro messaggio di speranza e fiducia nell’umanità. Un gesto più “politico” di questo? .

TUTTE LE LETTERE DI MOZART in Il Foglio 26 aprile

Marco Murara (a cura di) TUTTE LE LETTERE DI MOZART L’epistolario completo della famiglia Mozart 1755-1791 Presentazione di Sandro Cappelletto Varese, Zecchini Editore, tre Vol. pp. 1900 € 89 E’ diventato nel giro di pochi mesi un piccolo caso letterario – e di cultura politica . In un anno in cui non c’è alcuna ricorrenza mozartiana ma tutti sono intenti a predisporre i 200 anni dalla nascita di Verdi e Wagner (ambedue cadono nel 2013). L’edizione italiana, in tre volumi, dell’epistolario integrale di Wolfgang Amadeus Mozart, e dei suoi congiunti, è stato uno dei successi editoriali dell’ultimo scorcio i del 2011. La prima tornata è sparita in poche settimane e si è prodotta subito una ristampa cha è giunta in questi giorni nelle librerie o che si può richiedere all’editore (info@zecchini.com). Come spiegare il successo? Tanto più che si tratta di un’opera giunta sul mercato italiano con cinquanta anni di ritardo dall’edizione originale in tedesco pubblicata da Bärenrieter di Kassel sotto gli auspici del Mozarteum di Salisburgo – un testo che gli specialisti mozartiani conoscono ed hanno letto e studiato Il cofanetto è elegante- I tre tomi sono stampati su carta fine e con una grafia preziosa. Possono sembrare un grazioso soprammobile in un’abitazione di chi voglia essere considerato “persona colta” da ospiti e da amici. Non è questa la spiegazione. Non mancano antologie dell’epistolario di Mozart, in gran misura basate sull’opera della Bärenrieter del 1962. La più importante è un volume curato da Elisa Ranucci e pubblicato nel 1981 dall’Editore Guanda, ma limitata e carente per quanto riguarda le note. Gran parte delle lettere, poi, è di carattere familiare; la metà circa tra Wolfgang Amadeus ed il padre Leopoldo, con cui il compositore aveva un rapporto complicato. A differenza di quanto hanno scritto altri (ad esempio, Norbert Elias) la “psicologia” di un genio, nei suoi rapporti con i congiunti non credo interessino più di tanto gli italiani di oggi. Così come i lunghi carteggi relativi alle opere (particolarmente stimolante quello relativo al libretto, alla composizione ed alla messa in scena di “Idomeneo”) sono materiale di analisi per specialisti. Ciò che attrae maggiormente nei tre volumi – la cui lettura è da centellinare – è l’utilizzazione dell’epistolario come chiave interpretativa di una società in rapida trasformazione (le ultime decadi del Settecento) in cui il riformismo dell’illuminismo (delle varie sette massoni-cattoliche a cui Mozart ed il suo mondo appartenevano) si scontrava con una reazione oscurantistica. Sotto il profilo socio-politico, l’epistolario rileva i rapporti dei Mozart con gli “illuministi settentrionali” del Lombardo veneto (i fratelli Verri, Cesare Beccaria, Gian Rinaldo Carli, Francesco Algarotti, Salerio Bettinelli, Carlo Denina) e nell’ultima fase della breve esistenza terrena quelli tra Wolfgang Amadeus e gli illuministi bavaresi, impregnati di “socialismo paradisiaco”, oggi verrebbe aggettivato “utopistico” (Franz Heinrich Ziegenhagen, Rudolf Blumauer). Altro aspetto di rilievo le cognizioni di economia che Mozart padre trasmetteva il figlio (su temi come inflazione, livelli e distribuzione dei redditi e dei consumi, politica dei prezzi), nonché la spiegazione di perché Wolfgang Amadeus declinò due ricche proposte di impiego (a Londra ed a Berlino): massone, cattolico ed illuminista, consapevole del proprio valore optò per la libera professione- anzi fu uno dei rari musicisti del periodo a fare questa scelta. Senza, peraltro, ottenerne soddisfazioni finanziarie. E tentare, quindi, negli ultimi mesi della vita, di tornare ad un impiego salariato, quello a cui aveva dato un calcio sbattendo la porta al Principe Arcivescovo di Salisburgo.

mercoledì 25 aprile 2012

Allarme per la Spagna Servono 200 miliardi in Avvenire 26 aprile

Allarme per la Spagna Servono 200 miliardi in Avvenire 26 aprile Il Fmi: un piano di salvataggio in caso di default DI GIUSEPPE PENNISI I l primo maggio, Festa del Lavoro in Europa, le diplomazie economiche e finanziarie internazionali saranno molto operose. Al capezzale della Spagna cercheranno di mettere a punto un programma di salvataggio per molti aspetti analogo a quel¬lo firmato alcune di settimane fa, ma non ancora attuato, per la Grecia. Se ne è parlato a lungo nei corridoi delle riunioni primaverili del Fondo monetario e della Banca mondiale terminate il 22 aprile. La notizia è stata ovviamente tenuta riservata anche se qualcosa è trapelato sul New York Times di ieri. La crisi del debito spagnolo non ha origine – come quella del debito greco – da politiche economiche errate e da conti 'massaggiati' inviati alle autorità europee e al Fondo monetario. Al pari di quella che circa un anno fa ha travolto l’Irlanda, nasce da un 'boom' artificiale dell’edilizia residenziale e commerciale e da finanziamenti poco ac¬corti concessi al settore immobiliare; quindi si sviluppa a causa degli interventi pubblici resisi necessari per evitare serie difficoltà a istituti bancari che sono all’apparenza dei colossi, in realtà con i piedi d’argilla. Proprio ieri il Fmi ha dichiarato che se le maggiori banche sono sufficientemente capitalizzate, «il settore nel suo complesso resta vulnerabile». Quali che siano le determinanti della crisi, ciò che più preoccupa l’Eurozona e il resto della comunità internazionale sono le sue dimensioni. Il programma di salvataggio che si sta delineando sarebbe di almeno 200 miliardi di euro, molto più ampio di quello per il salvataggio dell’Irlanda (80 miliardi di euro) e per la Grecia (110 miliardi). Se ci si rivolgesse unicamente al Fondo europeo Sal¬va- Stati si rischierebbe di prosciugarlo, o quasi, perché la capacità effettiva di presti¬ti 'diretti', ossia senza ricorrere ad altri strumenti, è ancora di 440 miliardi di euro. Quindi è evidente la necessità di un intervento del Fondo monetario. Nonostante le fonti ufficiali smentiscano la nuova crisi – per il fin troppo evidente timore di generare turbolenze sui mercati in giorni in cui sono in corso campagne elettorali e crisi di governo in Paesi chiave dell’Eurozona – è proprio da Washington che giungono indicazioni di u¬na trattativa già sostanzialmente in corso e di un dialogo già in atto con l’Institute of International Finance (l’organizzazione, con sede nella capitale degli Stati Uniti, che raggruppa le maggiori banche internazionali e le ha rappresentate nel recente negoziato con Atene). Ragionando su cosa sia meglio fare per la Spagna, sarebbe in ogni caso errato concentrarsi s¬lo o principalmente sul breve periodo e sulla migliore ingegneria finanziaria per evitare l’insolvenza, come si è fatto quando si è cercato di risolvere le crisi del debito di Irlanda prima, e di Gre¬cia poi. Lo stesso Multilateral Surveillance Report presentato circa una settimana fa come documento di ri-flessione per le riunioni di Banca mondiale e Fondo monetario tratteggia, in uno dei tre scenari descritti, il rischio che correre da una crisi all’altra per tampona¬e questa o quella falla dell’Eurozona può portare all’implosione dell’Unione mone¬taria europea, con conseguenze gravissime per l’intera economia internazionale. Questo rischio si può evitare 'socializzando', ossia mettendo in comune, parte del debito. Premessa, comunque, per una politica di crescita. In questi giorni sono stati presentati programmi specifici per raggiungere questo obiettivo. Vanno presi in considerazione con attenzione. © RIPRODUZIONE RISERVATA ________________________________________ La Spagna attraversa una profonda recessione, i poveri a Barcellona sono aumentati drasticamente (Ap)

martedì 24 aprile 2012

"Rinaldo" torna a Ravenna e fa scuola in Il Sussidiario 25 aprile

"Rinaldo" torna a Ravenna e fa scuola Giuseppe Pennisi mercoledì 25 aprile 2012 Un momento del Rinaldo Approfondisci OPERA/ Il Barbiere di Siviglia e il vizio di voler "aggiornare" Rossini OPERA/ Stiffelio, il capolavoro "trascurato" di Giuseppe Verdi Il Ministro Ornaghi ricorda certamente quando Piero Bargellini, allora Sindaco di Firenze, con il fango sino alle ginocchia nella Galleria degli Uffici, disse, con voce stentorea : Non è tempo di piagnistei! Con quella frase, infervorò tutta Firenze che, come una sola persona, si mise all’opera per risollevare la città dopo l’alluvione.Qualcosa di analogo lo ha fatto la Fondazione Ravenna Manifestazioni, il cui Teatro Alighieri, ha presentato, mentre fondazioni liriche e teatri di tradizioni si rotolavano per terra e intonavano geremiadi sugli effetti della recessione e dell’austerity sui loro bilanci, ha realizzato una stagione di opera e balletto di dieci titoli, sempre condividendo le spese con altri enti e tenendo alta la qualità Ultimo spettacolo “Rinaldo” di Händel che Pier Luigi Pizzi firmò nel 1985 per il Teatro Valli di Reggio Emilia e poi ripreso nei teatri più prestigiosi del mondo. Da allora è stato visto a Parigi, a Seul, a Milano, a Venezia, a Madrid, a Lisbona, nel circuito toscano e nel circuito emiliano. In breve in 18 teatri. “Rinaldo” si riposava dal 2007. E’ tornato in scena il 20 aprile a Ravenna e sino al 6 maggio si vedrà pure a Reggio Emilia e Ferrara. Non è escluso che il nuovo viaggio lo porti a Catanzaro ed ad alcuni tra i maggiori festival estivi. Non è una semplice “ripresa” di uno spettacolo del 1985. Curata personalmente da Pizzi per quanto riguarda il riallestimento di scene e costume, è affidata a Ottavio Dantone che con l’Accademia Bizantina da lui creata e diretta, propone, per la prima volta, un “Rinaldo” con strumenti più simili a quelli d’epoca e con un cast internazionale di specialisti in vocalità barocca. Il confronto con il “Rinaldo” presentato alla Scala nel 2005 lo mostra a tutto tondo, specialmente negli ottoni che, a Milano, suonavano Händel come se fosse Mascagni mentre all’Alighieri di Ravenna lo mostravano in tutto il suo splendore. In sala, poi, c’era un pubblico nuovo, giovane, attirato dalla grande fantasia del barocco. Facciamo parlare Pizzi “Nella concezione dello spettacolo l’asso nella manica fu di inserire macchine sceniche umanizzate. L’utilizzo di queste macchine era comune nella scenografia barocca, così pensai di affidare all’uomo il compito di dare mobilità al dispositivo scenico, decisi che fossero dei figuranti a movimentare l’impianto e a far circuitare i personaggi su appositi carri. Questi mimi interamente vestiti di nero e mascherati come nel teatro giapponese kabuki, sono diventati i veri protagonisti dello spettacolo perché proprio a loro era affidato il compito di animare l’intera regia”. Oggi, a differenza del settecento, il pubblico non ha familiarità con gli eroi cavallereschi messi in scena da Händel, per questo, secondo il regista, è opportuno rappresentare i personaggi come se fossero delle icone, delle statue su piedistalli, in grado di evocare la maestosità dell’arte barocca, ma con quella sottile ironia che caratterizza un sapiente uso della citazione visiva. Quello che viene dunque messo in scena in questo “Rinaldo” è Il “rituale del teatro”, il cui motore, afferma il regista, è la musica: “Il libretto dell’opera è solo un pretesto, come spesso accadeva nel teatro barocco. Fortunatamente la musica è un formidabile motore e la successione delle arie non genera monotonia, ma anzi spinge l’azione in modo vivo ed energico”. Il capolavoro handeliano segnò il debutto del compositore a Londra e la prima rappresentazione, al Teatro di Haymarket il 24 febbraio 1711, fu un successo abilmente orchestrato dal drammaturgo e impresario Aaron Hill. Il Rinaldo fu anche la prima opera totalmente in italiano ad andare in scena nella capitale britannica. Il giovane Händel la compose in soli quindici giorni, riadattando in parte partiture scritte durante gli anni trascorsi in Italia e che lo avevano reso famoso. Rinaldo fu un successo di lunga durata, tant’è che fu più volte ripreso per vent’anni e oggetto di due rifacimenti: il primo nel 1717, il secondo, più incisivo, nel 1731. Proprio il riutilizzo di arie precedenti e le modifiche apportate nel tempo dallo stesso Händel hanno suggerito a Pizzi e a Dantone di rivedere in parte la struttura dell’opera con lo spostamento di alcune arie e tagli di recitativi funzionali alla drammaturgia inscritta nel libretto. La vicenda è collocata a Gerusalemme nel 1099. Negli gli ultimi giorni dell’assedio che mise fine alla prima crociata, i cristiani, capeggiati da Goffredo di Buglione, sono opposti ai saraceni guidati dal re Argante. Il libretto di Aaron Hill, tradotto da Giacomo Rossi, è tratto dalla Gerusalemme liberata di Tasso e dall’Orlando furioso di Ariosto. L’abile Hill vi introdusse il personaggio di Almirena, figlia di Goffredo e promessa sposa di Rinaldo, arricchendo di significati la vicenda di Rinaldo e Armida, l’incantatrice, regina di Damasco. Tra tagli e interpolazioni, questo nuovo “Rinaldo” dura due ore e mezzo, intervallo compreso, timing perfetto per uno spettacolo del nostro tempo, mentre nella Londra di Händel (che compose tre versioni dell’opera) si stava a teatro per circa 5-6 ore banchettando ed amoreggiando tra un’aria e l’altra. Delle meraviglie dell’orchestra si è detto. Le voci sono tutte ben calibrate. Il tenore polacco Krystian Adam (Goffredo) mette in luce un’agilità virtuosistica. Maria Grazia Schiavo (Almirena) strappa lunghi applausi dopo l’aria Lascia che io pianga. Roberta Invernizzi è un’Armida sensuale (nella seduzione di Rinaldo, Marina de Liso) e gelosa nei confronti di Argante (Riccardo Novaro). Antonio Vincenzo Serra un pastoso Mago Cristiano (il Deus ex Machina che risolve l’intrigo). William Corrò e Savinia Bini completano l’affiatato cast. La sera della prima, quindici minuti di ovazioni al calar del sipario. © Riproduzione Riservata. ________________________________________

Da Washington un nuovo allarme per l’Europa in Il Sussidiario 25 aprile


GEOFINANZA/ Da Washington un nuovo allarme per l’Europa Giuseppe Pennisi mercoledì 25 aprile 2012 Infophoto Approfondisci GEOFINANZA/ Quei conti che fanno tremare l’Europa, di M. Bottarelli FINANZA/ Pelanda: così la vittoria di Hollande può aiutare l’Italia La stampa italiana è stata molto parca di informazioni a proposito delle riunioni primaverili degli organi di Governo di Banca mondiale e di Fondo monetario internazionale. Non sono mancate corrispondenze sull’aumento di dotazione delle risorse del Fmi e sulla nomina del nuovo Presidente della Banca. Si è anche messo l’accento su come la comunità internazionale avrebbe ben accolto le misure adottate dal Governo Monti, pur se il volto tirato del viceministro Vittorio Grilli (quale trapelava dagli schermi televisivi) poteva indurre a pensare non solo che fosse fisicamente stanco della trasferta, ma anche che l’accoglienza sia stata inferiore alle aspettative. Per chi, come il vostro “chroniqueur”, ha vissuto a Washington per oltre tre lustri e ora osserva la capitale Usa con il cannocchiale, ciò che è importante è leggere con attenzione il rapporto sull’economia internazionale (“Multilateral Surveillance Report”) che in questa occasione il Fondo produce come base di riflessione e discussione per i ministri e i governatori di banche centrali convenuti nella capitale degli Stati Uniti. Come sottolineato (anche troppo) dalla stampa italiana, le prospettive presentate adesso dal Fmi per l’economia mondiale sono (leggermente) migliori di quelle delineate circa sei mesi fa. Tuttavia, per la prima volta da quando il Fondo è stato creato nel lontano 1944, il documento mette l’accento sul ruolo dell’Europa (e in particolare dell’eurozona) nel futuro a breve e medio termine dell’economia internazionale. L’Europa non viene presentata come un traino potenzialmente importante, ma come la “più grande nuvola all’orizzonte”. Non solo le speranze suscitate quando la Banca centrale europea (Bce) ha fornito un trilione di liquidità agli istituti di credito dell’eurozona si sono “ben presto affievolite”. I buoni decennali del Tesoro spagnolo sono “ancora una volta tornati a livelli non sostenibili”. Grazie alle operazioni straordinarie di quantitative easing (di immissione di liquidità nel sistema) della Bce, l’eurozona “ha guadagnato tempo”. Occorre valutare con attenzione come lo utilizzerà. Nel capitolo del documento dedicato al continente vecchio, il Fmi tratteggia tre scenari. Nel primo, a politiche sostanzialmente invariate, la recessione in atto si trascinerebbe sino alla seconda metà del 2013 (ovviamente morderebbe più in alcuni paesi e meno in altri in termini di perdita di valore aggiunto, di reddito e di posti di lavoro). Nel secondo scenario, se il credito raggiunge le imprese e se il Fondo salva-Stati opera con efficacia, l’eurozona potrebbe tornare a crescere moderatamente prima della fine del 2012. e, invece, il credit crunch si inasprisce (anche a ragione di meno oculate gestioni dei conti pubblici) la recessione non potrà che diventare più profonda. Con implicazioni pesanti sulle aree limitrofe - in primo luogo in Europa centrale ed orientale, nel Medio Oriente e in Nord Africa; una più severa recessione nell’eurozona, infatti, colpirà il loro export e ciò si avvertirà a livello mondiale. Il documento fa intendere che ci potrebbe essere un altro scenario ancora: insolvenze del debito sovrano e anche la stessa implosione dell’eurozona. Ciò causerebbe tensioni molto forti su tutti i mercati finanziari, pure su quelli fisicamente più lontani dall’Europa. Il continente vecchio aggrava un problema interno del Fondo: il negoziato sul numero dei seggi nel Consiglio d’Amministrazione (20 o 24) e se l’Europa possa continuare ad averne cinque. Sinora, il continente vecchio ha trovato come proprio difensore gli Usa. Ma nel nuovo quadro, la situazione potrebbe cambiare. E l’Italia, il cui seggio diventa vacante in ottobre, potrebbe essere candidata a rimetterci le penne.

METTIAMO UN PO' D'ORDINE IN MATERIA DI EUROBONDS in Il Velino 24 aprile

METTIAMO UN PO' D'ORDINE IN MATERIA DI EUROBONDS Edizione completa Stampa l'articolo Roma - A fine 2011, la Commissione Europea ha proposto (in apposito ”Libro Verde”) nuovi “eurobonds” da affiancare ai “project bonds” in circolazione da decenni. Per evitare confusione, viene proposto un nuovo nome “stability bonds” che enfatizza il loro ruolo macro-economico. Il “Libro Verde” presenta tre opzioni senza prendere posizione: a) “stability bonds” per sostituire tutto il debito dell’eurozona con garanzie in solido di tutti gli Stati membri; b) “stability bonds” per sostituire parte del debito (ci possono essere numerose variazioni sul tema) con garanzie in solido; c) “stability bonds” per sostituire quote del debito nazionale con garanzia pro-quota di ciascun Stato membro. Occorre dare atto alla Commissione Europea di avere presentato proposte innovative. Sino ad ora, gran parte delle proposte presentate in passato (pure i mai decollati “Ortoli bonds” ed i “Delors bonds”) riguardavano essenzialmente le spese per investimento , in particolare le grandi infrastrutture inter-europee. Le più recenti proposte Junker-Tremonti e Prodi-Quadro Curzio concernevano principalmente il nuovo indebitamento (tra cui il rifinanziamento dello stock di debito in essere man mano che vecchie emissioni giungevano a scadenza) ed anche i grandi progetti d’investimento. Queste nuove proposte sono state poi delineate ma non declinate nei loro aspetti tecnici. La documentazione, in italiano, forse più completa è nel “Dossier Eurobonds” del centro studi Astrid consultabile a www.astri-online.it , a cui si rimandano gli interessati. “Socializzando” tutto o parte lo stock di debito pubblico si abbasserebbe il costo di rinnovo dello stock di debito per gli Stati ritenuti maggiormente “a rischio”, a torto od a ragione, da parte dei mercati internazionali. Le tre proposte sul tappeto escludono Grecia, Irlanda e Portogallo, i cui titoli sono classificati “spazzatura” dalle agenzie di rating. Spagna e Italia ne sarebbero i principali beneficiari. Stati fortemente indebitati come l’Italia dovrebbero mettere in atto anche strumenti nazionali (come il fondo “taglia debito” in merito al quale sono in discussione una dozzina di proposte). Non possiamo aspettarci che una “manna europea” cada dal cielo per risolvere i problemi che ci siamo creati con le nostre mani. Occorre pensare che i primi “Federal Bonds” americani sono stati emessi per finanziare il debito di guerra della prima guerra mondiale, ossia circa un secolo e mezzo dopo la creazione degli Stati Uniti ed oltre 50 anni dopo la guerra di secessione. I tempi della politica e dell’economia si sono, senza dubbio, accorciati ma è difficile pensare che gli Stati che si considerano “virtuosi” siano pronti a garantire in solido i debiti di quelli che essi giudicano “discoli”. Nelle tre grandi categorie di “stability bonds” vengono delineate numerose variazioni. L’alternativa più prudente prevede emissioni congiunte di nuove obbligazioni con garanzie parziali di ciascun emittente, che resterebbe comunque responsabile per lo stock in essere. Quindi la trasformazione da debito “nazionale” a debito “europeo” sarebbe molto graduale con almeno due tipologie coesistenti per diversi lustri. Si ricomincia a parlare di “eurobonds”e di “project bonds”. In materia dei primi, la settimana scorsa, tre centri studi hanno presentato proposte per sostituire con titoli europei, parte dei titoli di Stato nazionali. Quasi in parallelo, un Commissario europeo ha proposto di rilanciare “project bonds” europei per il finanziamento degli investimenti necessari alla ripresa. Sino a tempi recentissimi, gli unici “eurobonds” sul mercato sono quelli emessi da istituzioni finanziarie europee come la Bei e la Bers. Al pari di quelli emessi da altre istituzioni finanziarie internazionali (il Gruppo Banca mondiale, le Banche regionali di sviluppo) sono sostanzialmente “project bonds”, garantiti da tutti gli Stati membri delle pertinenti istituzioni ma destinati al finanziamento di progetti d’investimento - in certi casi pure partecipando a capitale di rischio. In effetti, più importante della garanzia degli Stati “soci” delle istituzioni in questione, è la qualità degli investimenti finanziati sulla base di progetti sottoposti a rigorosa analisi finanziaria ed economica tanto ex-ante quanto ex-post (sia a completamento della fase di cantiere sia dopo un certo numero di anni di operatività a regime). Per questa ragione, i rapporti di valutazione ex-ante ed ex-post hanno di norma vasta distribuzione e sono, comunque, accessibili. Di recente, la BCE ha effettuato emissioni speciali di obbligazioni destinate alle banche, al fine d’alleggerire il peso del loro indebitamento e facilitare investimenti a investimenti privati direttamente produttivi. Anche questi appartengono, a mio avviso alla categoria dei “project bonds” (ilVelino/AGV) (Giuseppe Pennisi) 24 Aprile 2012 11:40

lunedì 23 aprile 2012


stampa A Salisburgo un Festival per Cleopatra in quotidiano arte 24 aprile Dal 25 al 28 maggio 2012 [Cecilia Bartoli, © Alberto Venzago] stampa Dal 25 al 28 maggio 2012 [Cecilia Bartoli, © Alberto Venzago] A Salisburgo un Festival per Cleopatra Giuseppe Pennisi Il mezzo soprano italiano Cecilia Bartoli ha preso il testimone da Riccardo Muti e firma l’edizione del Festival di Pentecoste di Salisburgo, che si svolgerà dal 25 al 28 maggio. Dopo cinque anni in cui la manifestazione è stata dedicata alla “scuola napoletana” , il tema di quest’anno è “Cleopatra”. Viene presentata una nuova grandiosa edizione di “Giulio Cesare in Egitto” di Händel (che verrà ripresa in agosto nel Festival Estivo). Questa barocca “Cleopatra raffinata” (replicata due volte) viene accompagnata da una “Cleopatra amorosa”: la versione integrale in traduzione tedesca del rinascimentale “Antony and Cleopatra” di Shakespeare. A queste due proposte teatrali vengono affiancati quattro concerti: “Cleopatra sensuale” (la versione in forma di concerto dell’opera di Massenet concertata da Vladimir Fedoseyev e con un cast stellare, da Sophie Kock a Ludovic Tézier); “Cleopatra tragica” su musiche di Schumann, Berlioz e Brahms, interpretate da Vesselina Kasarova e Piotr Beczala con Sir Eliot Gardiner alla guida dell’orchestra; “Cleopatra orientale” con musiche di Rubistein, Shchedrin, Gounod, Prokofiev e Massenet interpretate da Anna Netrebko, Alexei Tanovitski e l’orchestra del Mariinski concertata da Valery Gergiev. In programma, anche un vero banchetto egiziano nel grand foyer dedicato a Karl Böhm. Attenzione: sono disponibili ancora pochi biglietti perché la manifestazione ha un folto gruppo di fidelizzati provenienti da tutto il mondo. info: http://www.salzburgerfestspiele.at/
Da Il Velino 23 aprile il Velino/AGV presenta, in esclusiva per gli abbonati, le notizie via via che vengono inserite. OPERA, A SALISBURGO TUTTI MATTI PER CLEOPATRA Edizione completa Stampa l'articolo Roma - Per il Festival di Pentecoste di Salisburgo (25-28 maggio) è corsa all’accaparramento di biglietti; il mezzo soprano italiano Cecilia Bartoli ha preso il testimone da Riccardo Muti e dopo cinque anni in cui la manifestazione è stata dedicata alla scuola napoletana, il tema di quest’anno è Cleopatra. Viene presentata una nuova grandiosa edizione di “Giulio Cesare in Egitto” di Händel (che verrà ripresa in agosto nel festival estivo). Questa barocca “Cleopatra raffinata” (replicata due volte) viene accompagnata da una “Cleopatra amorosa”: la versione integrale in traduzione tedesca del rinascimentale “Antony and Cleopatra” di Shakespeare. A queste due proposte teatrali vengono affiancati quattro concerti: “Cleopatra sensuale” (la versione in forma di concerto dell’opera di Massenet concertata da Vladimir Fedoseyev e con un cast stellare, da Sophie Kock a Ludovic Tézier); “Cleopatra tragica” su musiche di Schumann, Berlioz e Brahms, interpretate da Vesselina Kasarova e Piotr Beczala con Sir Eliot Gardiner alla guida dell’orchestra; “Cleopatra orientale” con musiche di Rubistein, Shchedrin , Gounod, Prokofiev e Massenet interpretate da Anna Netrebko, Alexei Tanovitski e l’orchestra del Mariinski concertata da Valery Gergiev. In programma, anche un vero banchetto egiziano nel grand foyer dedicato a Karl Böhm. Il piatto più gustoso e l’opera di Händel. In primo luogo, la durata: l’integrale di “Giulio Cesare in Egitto” sfiora i 250 minuti. In secondo luogo, la tessitura: quando i lavori di Händel per il teatro ricominciarono ad apparire (in sostanza nella seconda metà del Novecento dopo alcuni tentativi sperimentali all’inizio del secolo), dato che i principali ruoli maschili erano stati scritti per castrati, non c’è altra scelta che abbassarli di qualche ottava per affidarli a baritoni (o anche a bassi-baritoni) oppure, come si fa adesso, utilizzare mezzo-soprani o contralti. Nell’edizione in programma a Salisburgo si fa ricorso a Andreas Scholl, uno dei rari controtenori al mondo per il ruolo di Giulio Cesare, Cecilia Bartoli sarà Cleopatra, Anna Sophie von Otter, Cornelia. Il cast internazionale si presenta tutto di alto livello. Inoltre l’orchestrazione era stata concepita per strumenti d’epoca, in pratica introvabili e le arie erano ripetitive (articolate, spesso, su due “da capo”). Infine, gli allestimenti erano difficili e onerosi poiché prevedevano frequenti cambiamenti di scena (in epoca barocca risolti tramite siparietti dipinti e complessi macchinari). A Salisburgo, Giovanni Antonini concerterà con il complesso da lui creato “Il Giardino Armonico” che suonerà con strumenti il più simile possibile a quelli dell’epoca barocca. Regia, scene, costumi, luci e coreografia sono affidati a a Moshe Leiser, Patrice Caurier, Christian Fenouillet, Agostino Calvava, Christophe Forey, Konrad Kuhn e Beate Vollack. Un vero team internazionale. Occorre ricordare che l’edizione che rilanciò il “Giulio Cesare in Egitto” in tempi moderni fu il risultato di alcuni testardi - Beverly Sills, Norman Triegle, Julius Ruidel, Tito Capobianco e Ming Cho Lee - in un teatro allora secondario, la New York City Opera (fratello molto minore del Metropolitan che lo fiancheggia al Lincoln Center). Nel 1966, Ruidel non aveva alcuna ambizione filologica: tagliò a destra e a manca; Capobianco (regia) e Ming Cho Lee si ispirarono al bianco e nero di Piranesi, Cesare era incarnato dal miglior basso-baritono su piazza (Triegle) e le seduzioni di Cleopatra affidate alla Sills. L’edizione ebbe in enorme successo; fu portata in tournée attraverso gli Usa e reggeva ancora bene alla metà degli anni Settanta quando la compagnia visitò il Kennedy Center di Washington dove chi scrive ebbe modo di vederlo. Il rilancio europeo ebbe luogo a Monaco di Baviera, sempre con un basso baritono (Fischer-Dieskau) come protagonista, l’affascinante Tatiana Troyanos nel ruolo della Regina d’Egitto, la bacchetta di Karl Richter (che aveva tagliato una mezz’ora di musica) e un’ambientazione abbastanza tradizionale. Affascinante anche l’allestimento romano del 1984 con Margerita Zimmerman e Monserrat Caballé, con Gabriele Ferro alla guida dell’orchestra e la regia di Alberto Fassini; si era scelto un mezzo soprano come protagonista maschile. L’allestimento ebbe successo e venne ripreso qualche anno più tardi con Cecilia Gasdia nel fulgore delle sue qualità sceniche e vocali. Una decina di anni fa in un allestimento coprodotto dal Teatro Real di Madrid e dal Comunale di Bologna, oltre un’ora di musica veniva eliminata, tagliando completamente sette dei 45 numeri, riducendo i recitativi e operando anche all’interno delle singole arie (falcidiando i “da capo”); lo spettacolo non durava più di tre ore e mezzo (rispetto alle oltre quattro ore delle edizioni romane del 1984 e del 1998 e di quella di Martina Franca del 1989). I ruoli maschili erano affidati, in gran misura, a mezzo-soprani e contralti, nonostante che nell’opera, Giulio Cesare, giunto a 54 anni d’età, in Egitto sia più seduttore che condottiero. La scrittura orchestrale non veniva modernizzata (dirigeva Rinaldo Alessandrini); non si scivolava, però, nella tentazione di aggiungerle fioriture alla Hornancourt. Luca Ronconi trattava gli aspetti scenici con misura: un impianto fisso con due maxischermi dove venivano proiettati spezzoni di deserti e piramidi nonché di vari “Cesare e Cleopatra” della miglior tradizione di Hollywood e di Cinecittà. Il kitsch veniva esaltato dai costumi (dai romani in abito coloniale a Cleopatra abbigliata alla Claudette Colbert). In questo quadro, il complicato libretto di seduzioni, intrighi, tradimenti e sangue veniva letto con ironia dall’inizio alla fine. In effetti, l’unica edizione filologica, sotto il profilo musicale, presentata di recente è quella curata da Ottavio Dantone un anno fa che si è vista ed ascoltata, oltre che a Ravenna, Ferrara e Modena, all’Opera Nazionale polacca di Poznan, all’Opera di Brema in Germania e all’annuale Festival Händeliano a Halle). Questi non sono che alcuni esempi di allestimenti che mostrano come il considero “Giulio Cesare in Egitto” sia una pietra miliare del teatro in musica, non solo per la caratterizzazione dei personaggi (insolita in un’epoca barocca dove i vocalizzi contavano più dell’evoluzione psicologica) ma anche perché anticipa - ad esempio l’uso del recitativo accompagnato che esplode in un’aria nella scena dell’appuntamento tramutato in imboscata - pure il declamato del Novecento. Concepito per essere vista e ascoltata da esperti della musica di Händel, l’allestimento di Ottavio Datone non faceva sconti, specialmente sotto il profilo musicale: per questo il lavoro è affidato alla ravennate Accademia Bizantina guidata da Dantone, che utilizza un organico il più possibile simile all’originale: 28 strumentisti e l’impiego di strumenti d’epoca come la tiorba, la viola da gamba, i violoni e i flauti traversi. Il suono ha la ruvida dolcezza (solo in apparenza una contraddizione in termini) del teatro barocco, è di grande supporto alle voci, tranne che nelle “sinfonie” che fungono da preludi o intermezzi (grandioso quello della battaglia). Cecilia Bartoli promette che non ne farà nessuno a Salisburgo. (ilVelino/AGV) (Hans Sachs) 23 Aprile

sabato 21 aprile 2012


PRIVATIZZAZIONI : DIECI ANNI DI SPERANZE E DI DELUSIONI in Società Libera "Liberalizzazioni: è vera svolta?" Giuseppe Pennisi Le speranze dell’inizio del Secolo Quando nel 2000 venne redatto e pubblicato il primo Rapporto di Società Libera sul Processo di Liberalizzazione della Società Italiana, si nutrivano serie speranze che privatizzazioni e liberalizzazioni, pur se iniziate tardivamente rispetto al resto d’Europa (Reviglio, 2012), venissero accelerate a cavallo tra la fine del Ventesimo Secolo e l’inizio del Ventunesimo. Nel primo Rapporto, analizzati gli effetti del processo d’integrazione economica internazionale nell’innescare le privatizzazioni alla fine degli Anni Ottanta, ci si soffermava sulle due fasi che hanno marcato il processo negli Anni Novanta: quella dal 1992 al 1995 di approntamento degli strumenti e quella dal 1996 al 2001 di realizzazione della riduzione del peso delle imprese a controllo e partecipazione statale nell’economia. Si concludeva che a dieci anni circa dall’avvio del programma molto restava ancora da cedere, in termini sia di partecipazioni di controllo, sia di quote minoritarie. Lo Stato – si stimava - “potrebbe ottenere circa 108.000 miliardi dalla vendita delle quote ancora detenute in società solo in parte cedute, ed un ricavo nettamente più elevato dalla cessione delle partecipazioni di maggioranza in altre aziende, quali le imprese operanti nei settori della cantieristica navale, navigazione e difesa, le Ferrovie, le Poste, e la Rai”. Naturalmente, queste stime presupponevano che si fosse superata la fase di cedimento dei mercati azionari su scala mondiale, allora in corso a ragione dell’implosione della bolla della “net economy”. Nell’ipotesi in cui avesse portato a compimento la cessione delle attività produttive commerciabili, lo Stato avrebbe potuto chiudere l’era delle partecipazioni statali con un guadagno molto consistente, anche se calcolato al netto dell’indebitamento dalle stesse indotto. Inoltre, avrebbe potuto disporre di mezzi per abbassare il debito pubblico in essere per un importo stimabile attorno al 10 %, senza contare i proventi di un’eventuale vendita delle aziende per i servizi pubblici locali. Ma perché ciò si realizzi – si sottolineava – sarebbe stata necessaria, a parte un miglioramento delle condizioni di mercato, una forte determinazione a dismettere la proprietà e a reinterpretare il ruolo dello Stato nell’economia. Per riprendere un verso cruciale tra i 12.000 di cui si compone il Faust di Wolfgang Goethe Es irtt der Mensch/solang’ er strebt – l’uomo può sbagliare nell’”impegno totale”, ma per raggiungere obiettivi concreti è essenziale tale impegno-. Utile sottolineare che streben è un verbo per cui non esiste un equivalente italiano: vuole dire darsi da fare con una tenacia che rasenta la cocciutaggine. Allora il Governo in carica sembrava intenzionato ad andare avanti in queste direzioni : il Dpef 2001 -2003 prevedeva, infatti, di realizzare 120.000 miliardi di introiti nel corso del quinquennio che stava per iniziare, un programma graduale giustificato alla luce degli obiettivi che si è posto di “rafforzare gli assetti produttivi nazionali” e di realizzare guadagni di efficienza nelle società da porre in vendita. “Un programma di gradualità nelle vendite va, pertanto, bilanciato – avvertiva Società Libera - con un maggiore impegno nel superare le manchevolezze del contesto economico ed istituzionale emerse nel processo di privatizzazione”. Prima fra esse era la sperequazione esistente in termini di assetto concorrenziale nei settori in cui le imprese pubbliche continuavano a godere di un rilevante potere di mercato. Maggiori benefici per l’economia sarebbero potuti derivare da una politica attiva volta a favorire l’ingresso di nuovi concorrenti sul mercato e a livellare le posizioni concorrenziali. Altre carenze andavano sanate su tre fronti: contendibilità della proprietà delle società, trasparenza dell’informazione disponibile per i mercati e protezione degli azionisti di minoranza. Una revisione dei vincoli all’OPA e dei limiti di possesso azionario, un’integrazione delle regole di controllo societario al fine di ottenere completezza, tempestività e trasparenza nell’informazione diretta ai mercati, e un potenziamento dei poteri d’intervento della Consob, inclusi alcuni poteri di sanzione, apparivano passi necessari per elevare l’efficienza allocativa dei mercati. In questa azione sarebbe auspicabile che si perseguisse l’allineamento delle regole interne alle best practices in vigore tra i paesi dell’euro; ancor più desiderabile sarebbe un approccio diretto a stabilire a livello di area dell’euro un unico modello generale di corporate governance per le società. Verso le imprese ancora da privatizzare si richiedeva, invece, un’azione più intensa volta a responsabilizzare il management nel perseguimento dell’efficienza, benché sia difficile attendersi salti di produttività, data la debolezza dei meccanismi di responsabilizzazione del management, quando sono in mano politica. Nel settore bancario, il problema di una maggiore efficienza nell’allocazione delle risorse si intrecciava tra l’altro con il nodo del ruolo ancora preponderante delle fondazioni. Allora non si avvertivano quelle barriere ideologiche, sociali e strutturali che negli anni Novanta hanno reso arduo e a tratti impervio il cammino verso le privatizzazioni. Ma stava anche venendo meno la forte spinta esterna ad andare avanti. Rimaneva una pressione indiretta, meno evidente, che derivava dall’inarrestabile processo di apertura dei nostri mercati, e che non necessariamente nel breve periodo spingeva a ricercare maggiore efficienza e competitività a livello sia di impresa sia di sistema. In questo contesto di pressioni latenti, “saprà il Paese- concludeva il Rapporto di dieci anni fa- a trovare al suo interno la determinazione necessaria per completare in pochi anni entrambi, privatizzazione e liberalizzazione?” Il verbo “streben”, richiamato da Faust. Le due fasi del primo decennio del Ventunesimo Secolo Il decennio appena concluso può essere diviso in due fasi. Nella prima, il Governo ed il resto società hanno cercato di intraprendere quella che abbiamo chiamato “l’erta via delle privatizzazioni” (Pennisi, Zecchini, 2003). Si è portata a conclusione la liquidazione dell’IRI, si è definito il nuovo regolamento delle fondazioni bancarie e soprattutto si è fatto ricorso a tecniche innovative per predisporre la cessione a privati, anche in campi come la vendita di immobili di proprietà pubblica ed ad utilizzare lo strumento dei fondi pensione (allora in via di costituzione e regolamentazione) pure al fine di favorire le denazionalizzazioni. La strada sembrava, ed era, tutta in salita ma era promettente anche in quanto il Dpef 2003-2006 indicava quattro precise direzioni di marcia: a)vendita entro 18 mesi dell’insieme delle partecipazioni ritenute non strategiche; b) cessione di una quota delle partecipazioni più importanti che non intacchi il controllo sulle imprese; c) ristrutturazione delle aziende ancora in mano pubblica per prepararle alla vendita nel medio periodo; d) interventi per promuovere e tutelare la concorrenza, specialmente nel settore dei servizi di pubblica utilità. Ci sarebbe voluta tenacia e coraggio ( e cocciutaggine nei confronti di interessi particolaristici costituiti) per portare avanti un programma di tale sorta. Ma, come si è detto, il verbo streben non ha equivalenti in italiano. Già nel Rapporto relativo alle privatizzazioni nel 2005 (Pennisi, 2006), analizzando le privatizzazioni nella XIV Legislatura, si sottolineava come gli obiettivi dichiarati fossero tutt’altri che chiari, come anche al solo scopo di “fare cassa” per ridurre il fardello del debito pubblico si sarebbero potute utilizzare tecniche più efficienti e più efficaci, come poco si fosse fatto in materia di liberalizzazioni, specialmente dei servizi pubblici locali e come metodo, procedure e tecniche per la privatizzazione dell’Alitalia (allora in fase preliminare) sollevassero numerose perplessità. Il 2007 sarebbe dovuto essere l’anno (ove non del completamento) quanto meno di un considerevole progresso nel processo di privatizzazione iniziato negli Anni Novanta. E’ stato, invece L’anno delle privatizzazioni mancate come indicato nel nostro Rapporto (Pennisi, 2008) a ragione della crisi economica internazionale che, cominciata negli Stati Uniti, ha comportato un ritorno alla grande dell’intervento pubblico, in una prima fase, nel settore bancario e, successivamente, nel resto dell’economia. Non sono mancati spiragli (Pennisi, 2009) ed opportunità nelle strategie di uscita dalla crisi economica (Pennisi, 2010), nonché suggerimenti e proposte su come tornare a privatizzare (Pennisi 2011). Si sono citati i Rapporti di Società Libera non solo per continuità e coerenza di analisi ma soprattutto in quanto rappresentano uno strumento efficace per uno studio retrospettivo delle aspettative con cui si è aperto il decennio e delle progressive delusioni. Non sono certo mancate altre analisi, italiane e straniere; ad esempio, la Fondazione Eni Enrico Mattei ha condotto periodicamente studi di qualità in materia e, prima delle elezioni del 2008, l’Istituto Bruno Leoni ha pubblicato un Manuale delle Riforme per la XVI Legislatura (Istituto Bruno Leoni, 2008) che faceva perno su privatizzazioni e liberalizzazioni. Tuttavia, le Relazioni annuali sulle privatizzazioni al Parlamento del Ministero dell’Economia e delle Finanze, MEF; mostrano una tendenza marcatamente decrescente: la più recente (Ministero dell’Economia e delle Finanza, MEF 2011) copre il periodo 2007-2010 riguarda principalmente vendite di diritti di opzione nell’ambito di operazioni di aumento di capitale (Finmeccanica, Enel, Seat), scambi di azioni tra Ministero e Cassa Depositi e Prestiti , e cessioni d parte del Gruppo Fintecna per un totale di poco meno di un miliardo di euro nei quattro anni presi in considerazione – appena 12 milioni circa nel 2010 (senza contare la cessione del 30% di Enel Green Power non trattata nella Relazione in quanto non riguarda una privatizzazione in senso stretto). Nel 2011, nel nostro Paese le privatizzazioni sono state insignificanti (Narduzzi, 2011): non si sono trovati acquirenti per la Tirrenia e l’apertura al mercato del settore dei servizi pubblici locali è stata bloccato da un referendum che ha lasciato il comparto in un guazzabuglio normativo. E’ un fenomeno che corrisponde al tassello italiano di una tendenza mondiale? Non proprio, il “Privatization Barometer Report 2010” pubblicato quasi simultaneamente alla Relazione del MEF al Parlamento mostrava che nell’anno in cui in Italia avvenivano solo due privatizzazioni in senso stretto per 12 milioni di euro, nel mondo se ne portavano a termine 500 per 160 miliardi di euro. In effetti, come suggerito nel Rapporto di Società Libera per il 2010 molti Stati hanno trovato nelle privatizzazioni la via d’uscita dalla crisi. Ma non l’Italia. E' partita, secondo il “Privatization Barometer Report 2010”, una nuova grande ondata di privatizzazioni. Dopo salvataggi nel settore finanziario (e non solo), gli Stati ricominciano a fare marcia indietro, timorosi, a ragione, che la loro estensione tentacolare freni lo sviluppo ed aumenti le diseguaglianze invece di diminuirle. Nel corso del 2010, a livello globale i governi hanno incassato circa 160 miliardi di euro. Si tratta di uno dei valori più alti mai registrati nella storia, secondi solo ai 184 miliardi di euro incassati nel 2009, un valore allora comunque drogato dal riacquisto delle azioni da parte delle banche americane che da solo valeva 118 miliardi di euro. Nel mondo intero, il 2010 è comunque l'anno dei record: la cessione del 15% di Petrobras, che ha fruttato al governo brasiliano 52,4 miliardi di euro, è la più grande offerta pubblica di tutti i tempi, così come l'offerta pubblica iniziale di Agricultural Bank of China per 16,5 miliardi di euro. Il collocamento da 15 miliardi di euro di General Motors, che ritorna sul mercato dopo la nazionalizzazione del 2008, è la più grande IPO mai realizzata sulle borse americane. Se guardiamo gli aggregati, in vetta alla classifica ci sono gli Stati Uniti, con quasi 36 miliardi di privatizzazioni, ma davanti a tutti ci sono i BRICs (Brasile, Russia, India, Cina), con 80 miliardi, la metà del totale (Brown J.D., Earle J. Gehlbach , 2011). I paesi dell'UE hanno realizzato operazioni per 33,1 miliardi di euro, pari al 20,6% del totale. La Francia dei “campioni nazionali” è il paese europeo che ha privatizzato di più; nel corso del 2010, con circa 10,5 miliardi di euro di cessioni, seguita dalla Polonia e dal Regno Unito. L’unico operazione significativa su cui può contare l'Italia è la citata cessione del 30% di Enel Green Power che con un controvalore di 2,6 miliardi di euro E’ utile mettere in relazione il ritorno delle privatizzazioni nel mondo con le tendenze profonde delle economie emergenti. I governi dei Paesi emergenti approfittano delle buone condizioni di mercato e della forte crescita delle loro economie per valorizzare attraverso le privatizzazioni le loro imprese pubbliche, aprendole ulteriormente al capitale privato nazionale e internazionale, rendendole più solide finanziariamente e quindi più competitive. Le privatizzazioni dei paesi avanzati sono invece legate alla debolezza della congiuntura e alle conseguenti condizioni critiche della finanza pubblica (Cato, 2011). A fronte del rischio di insolvenza degli stati sovrani, i governi occidentali rilanciano quindi le privatizzazioni, unica politica che consente di realizzare il necessario deleveraging (riduzione dell’indebitamento) senza incidere sulla spesa pubblica e sul welfare, fondamentale per la tenuta sociale in tempi di crisi. “Un programma coerente di privatizzazioni – scrive Privatization Barometer Report 2010 - riduce progressivamente l’ambito di discrezionalità della politica sulle imprese, aumenta la credibilità della politica economica e quindi da ultimo migliora il rating di mercato dello Stato ,con ricadute positive sugli spreads.” Non a caso, l’UE ha preteso dal Governo greco un ambizioso piano di privatizzazioni per dare via libera alla nuova tranche di aiuti. E l'Italia? Come spesso accade, l'Italia è un caso a sé stante. L'esito del cosiddetto referendum sulla privatizzazione dell'acqua, nonostante gli ottimi risultati di gestione delle acque da parte di imprese private nella vicina Francia (Hanke. Waltes , 2011) rende più difficile la riapertura del dossier paradossalmente proprio nel momento,in cui un piano aggressivo di privatizzazioni dovrebbe essere in cima alla lista per risolvere , o almeno alleviare, il nodo dello stock di debito pubblico e rimettere in moto l’economia italiana. Secondo stime della Fondazione Eni Enrico Mattei, gli asset pubblici da vendere non mancano:tra partecipazioni, immobili, concessioni, crediti, servizi da mettere in outsourcing e molti altri cespiti, nel 2004 i beni di proprietà dello Stato valevano 1340 miliardi di euro”, tralasciando le oltre 7000 aziende della galassia del capitalismo municipale (analizzato nei Rapporti precedenti di Società Libera). Ripianamento del debito pubblico e privatizzazioni Nel dibattito sulle privatizzazioni, si perde di vista il nodo centrale: lo stock di debito pubblico rispetto al Pil (ormai attorno al 120% in termini di titoli, di cui circa la metà in mano ad operatori stranieri, senza includere pagamenti non effettuati ad impresi e privati, un altro 6% del Pil, ed il debito previdenziale, variamente stimato tra il 150% ed il 200% del Pil ma parte del quale è incluso nel debito pubblico in senso stretto). Le analisi più recenti (Hoogduin L, Oztturk B., Wierts P.,2011; Legrenzi G:D, Milas C.,2011) affermano che, data la nostra struttura economica e demografica, se il debito pubblico supera l’85% del Pil, il macigno agisce come un freno di almeno l’un per cento l’anno sulla crescita. Il tasso di crescita 'potenziale' del Paese è stimato tra l’1,5 ed il 2,5 % l’anno: ci si condanna alla stagnazione qualsiasi altra misura si applichi in materia di mercato del lavoro, liberalizzazioni, privatizzazioni. Ridurre gradualmente il fardello con un 'avanzo primario' (entrate superiori alle spese pubbliche al netto del servizio del debito) tale da portarlo al 60% del Pil (nei tempi previsti dal 'patto euro-plus' e dall’”accordo” sull’Unione Fiscale in corso di negoziazione) implica una manovra di 35-50 miliardi di euro l’anno per i prossimi 20 anni – ossia condannare almeno una generazione alla recessione. Quella dell’Italia pare una malattia congenita che ha le sue radici in determinanti storico-sociologiche di lungo periodo: in 150 anni di Unità, per ben 111 anni lo stock di debito pubblico ha superato il 60% del Pil . Al fine di ridurre il debito, il primo punto (in ordine di tempo) della strategia di crescita presentato dal Governo Monti in carica da metà novembre è il fondo immobiliare che ha presto acquisito , sulla stampa d’informazione, il nomignolo di “fondo taglia-debito” In breve , l’obiettivo è “creare ricchezza” dalla manomorta pubblica (stimata a 1815 miliardi, pari quasi allo stock di debito pubblico).In pratica, la cessione di una parte (peraltro relativamente modesta) del patrimonio immobiliare pubblico (che oggi rende poco o nulla allo Stato ed alle pubbliche amministrazioni in generale) e diritti per le emissioni inquinanti di CO2. Dalla prima fonte si contano di ricavare 35-40 miliardi; dalla seconda altri 10. In primo luogo, è pleonastico dire che cercare di valorizzare il patrimonio pubblico è una buona idea. Ci sono ora pure le premesse perché l’ idea abbia questa volta modalità di applicazione che la rendano realizzabile entro un lasso di tempo relativamente breve Alcune sono riassunte in un articolo di Paolo Savona (Savona, 2011). Altre sono state pubblicate su vari numeri del settimanale Milano Finanza da Andrea Monorchio e da Guido Salerno Aletta (per una sintesi della proposta e del dibattito da essa innescato Sommella, 2011) Altre ancora sono apparse su riviste specializzate. In breve, si è finalmente diffusa la convinzione che il debito pubblico è ormai un freno tale alla crescita che occorre pensare ad un’operazione straordinaria (nel senso etimologico di “fuori dall’ordinario”) per abbatterlo. Tale operazione passa o per un’imposta patrimoniale o per un’operazione di grande ampiezza sul patrimonio dello Stato all’insegna del motto “vendere, vendere, vendere” . Date le dimensioni del problema, il fondo ora delineato dal Governo può essere visto come una prima “tranche” di un’operazione ventennale. A mio avviso, si dovrebbe essere molto più ambiziosi. Lo è, senza dubbio, lo schema messo appunto da Andrea Monorchio e Guido Salerno Aletta che è anche corredato da una bozza di proposta di legge d’iniziativa popolare. Tale schema fa leva non sul patrimonio pubblico ma su quello dell’edilizia privata. In breve i proprietari di casa verrebbero messi di fronte ad un’alternativa: o essere soggetti d’imposta patrimoniale oppure fare sì che un decimo del loro patrimonio edilizio (stimato in 9.000 miliardi di euro) venga ipotecato dallo Stato avendo in cambio a) la garanzia dell’esenzione da imposte presenti e future e b) un interesse al tasso di sconto presso la Bce ed un ammortamento ventennale. In tal modo – tralascio gli aspetti tecnici, alcuni dei quali molto ingegnosi- lo Stato avrebbe la liquidità per abbattere il debito pubblico e realizzare politiche di crescita. Un’alternativa del programma, prevede obbligazioni a cedola zero (garantite dall’ipoteca sul 10% del valore dell’immobile) che potrebbero essere particolarmente interessanti per chi vuole costituire un capitale per un lascito a figli o congiunti od amici. Sono ambiziose, in vario modo, anche le proposte di La Malfa e Savona (chiare alternative ad un’imposta patrimoniale) Vale , però, la pena integrarle con la proposta del Governo e con gli schemi Monorchio –Salerno e La Malfa-Savona – la proposta Guarino, invece, è essenzialmente una patrimoniale più o meno in maschera al fine di costituire un “fondo taglia-debito”. Credo occorra partire dalla premesse che se si chiede ai privati di utilizzare parte dei gioielli di famiglia (la propria casa) per liberare l’Italia dalla morsa del debito (Monorchio-Salerno) si debba chiedere allo Stato di fare altrettanto. Destinare a tale fine una piccola parte del patrimonio immobiliare pubblico (è difficile che il mercato ne possa assorbire di più) e delle licenze per CO2, è limitativo. Anche perché tale patrimonio immobiliare pubblico (ad esempio, la case popolari Ater) non sono certo gioielli di famiglia. Soprattutto, dato come non possiamo utilizzare le strade maestre per ridurre il debito pubblico – consolidamento, maxi-inflazione, super-crescita- occorre guardare a esperienze innovative di riscatto quali quelle attuate da alcuni Paesi dell’America Latina (Nellis, 2007) e dalla Germania. In America Latina non si trattava di risolvere il nodo del debito pubblico interno (abbastanza contenuto a differenza di quello sull’estero) ma di affrontare il peso di un insostenibile debito previdenziale. In Germania, il problema era come coniugare denazionalizzazioni con la riduzione del debito dei Länder orientali. In tutti questi casi, per il riscatto sono stati istituiti fondi specifici quali il Treuhandanstalt (THA) tedesco e si è utilizzato parte dello stock di ricchezza pubblica e privata (Bo,s, 2006; Sinn, 2001.) In Italia sono stati fatti tentativi in parte in tal senso quali quelli di un migliore valorizzazione del patrimonio pubblico (Patrimonio SpA e i vari Scip) hanno dato risultati modesti poiché troppo timidi. Le proposte di Giuseppe Guarino, Giorgio La Malfa, Andrea Monorchio, Paolo Savona, Guido Salerno ed altri sono un segnale importante: persone di culture differenti stanno metabolizzando l’idea del riscatto, nonostante non abbiamo dimestichezza con le esperienze dell’America Latina e della Germania. Numerose proposte guardano solo o principalmente alla ricchezza immobiliare privata (l’Italia ha la più alta percentuale al mondo – l’80%- di residenti che abitano in case di loro proprietà). Ciò sarebbe un’imposta patrimoniale in maschera (e verrebbe letta dai mercati come l’anticamera della bancarotta). Chiedere ai privati di “dare oro alla Patria” utilizzando i propri gioielli di famiglia è arduo se lo Stato non è disposto a fare passi analoghi. Destinare a tale fine la parte meno redditizia del patrimonio immobiliare pubblico (come in una delle proposte del Governo nella lettere d’intenti all’Ue) non avrebbe esiti concreti: parte di tale patrimonio immobiliare (ad esempio, la case popolari Ater) ha costi di gestione superiori agli ipotizzabili ricavi. Un fondo per il riscatto del debito pubblico dovrebbe basarsi su tre pilastri (il suo “sottostante” nel lessico finanziario): a) parte del patrimonio immobiliare pubblico; b) parte del patrimonio immobiliare privato su base volontaria ed in cambio di un’esenzione permanente da eventuali imposte patrimoniali; e c) parte dei veri di gioielli di famiglia (Enel, Eni, Finmeccanica, Poste Italiane, Sace, St-Microelectronics, Terna, Poligrafico, Sogin, Inail). Rai, Ferrovie, Fincantieri ed altre imprese da denazionalizzare non verrebbero incluse poiché sono fardelli da rimettere in sesto o da liquidare. Con un tale “sottostante” in garanzia, il fondo potrebbe emettere titoli a lungo termine ed a tassi allineati su quelli di riferimento della Bce per riscattare il debito pubblico e , in via subordinata, finanziare investimenti a lungo termine di interesse collettivo attualmente accantonati a ragione delle ristrettezze di bilancio. Il fondo sarebbe un veicolo per denazionalizzare/privatizzare le società /gli enti le cui azioni sarebbero il suo “sottostante”. Perché l’operazione funzioni il “sottostante” dovrebbe essere aggregato (con una cartolarizzazione) e non dovrebbe essere quotato in Borsa per un certo numero di anni (al fine di costituire una garanzia solida). Potrebbe essere collocato presso fondi pensione per dare corpo ad una efficace ed efficiente previdenza integrativa. Ciò richiederebbe una preventiva riduzione del loro numero da 700 ad una diecina con effettiva portabilità (ossia che gli iscritti possano votare con le gambe e migrare verso quelli meglio gestiti).Un passo che va comunque fatto se non si vuole che la previdenza integrativa resti una chimera. Il Governo Monti sta lavorando su progetti in questa direzione. Occorre dire che la proposta delineate in queste pagine portata in discussione in seno al Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro ha incontrato la netta opposizione della Confederazione Generale dell’Industria Italiana. Da quando la FIAT ha lasciato la Confederazione i suoi principali associati sono le holding un tempo appartenenti alle partecipazioni statali. Le due anime di Faust Abbiamo iniziato con un richiamo al Faust di Goethe le cui implicazioni di politica economica sono state esaminate da economisti italiani (Carli, 1995; Poggiali, 2010). Per Carli Faust ha “due anime”: una rivolta alla modernizzazione , ed un’altra rivolta alla difesa dell’esistente ove non al ritorno al passato. Le “due anime di Faust”, nella visione dell’ex Ministro del Tesoro, sintetizzano l’ambiguità del “principe” dirigista che ama blandire il liberismo, ma, al tempo stesso, statalista che ama blandire i privati. L’ambiguità che ha caratterizzato una classe dirigente per un cinquantennio ed a cui Carli in persona, negli scritti citati, reagiva con un auto-assolutorio: Siamo tutti coinvolti. Poggiali sottolinea , invece, come la redenzione di Faust avvenga tramite l’impegno incessante e richiama il verso imperniato sul verbo streben. In un lavoro recente (Pennisi, 2012) ho esaminato come le “due anime di Faust” siano lo specchio delle “due anime” di Mefistofele”. Tutto ciò può sembrare distante dal tema di questo Rapporto. E’ invece di grande rilievo. Il Governo ha annunciato un programma di dismissioni di immobili ed ha delineato possibili liberalizzazioni ma è stato piuttosto riservato in materia di privatizzazioni. Eppure saranno proprio le privatizzazioni a fare la differenza. Le “due anime” di Faust platonicamente lo tirano in due direzioni opposte e non conciliabili: da un lato, la modernizzazione, l’apertura internazionale, il mercato, il confronto con le armi dell’intelligenza e della competenza e, dall’altro, una pulsione indirizzata alla protezione, al corporativismo, all’arbitrio interno, alla chiusura. Analogamente quelle di Mefistofele lo inducono, da un lato, a tentare il più saggio degli uomini ed a corrompere la più casta delle donne e, dall’altro, a punirli perché sono caduti in tentazione e corruzione. Le “due anime” di Mefistofele sono meno dilanianti di quelle di Faust , il corpo viene strappato, nel quinto atto della seconda parte della tragedia di Goethe, perché due gruppi di lemuri vogliono portagli l’anima in direzioni opposte. Se Faust non sceglie tra le due strade e non impegna davvero, non può che vincere l’ambiguità di Mefistofele . E la conseguente stagnazione. Riferimenti Bos D. (2006) Privatization in East Germany: A Survey of Current Issues IMF Working Paper No. 92/8 Brown J.D., Earle J. Gehlbach (2011) "Privatization" Oxford Handbook of the Russian Economy (Michael Alexeev and Shlomo Weber, eds.) Carli G. (1995) Le Due Anime di Faust , Bari Laterza. Cato. S (2011) "Privatization Policy and Cost‐Reducing Investment by the Private Sector" The Manchester School October FEEM- KPMG (2011) “The Privatizazion Barometer Report 2010” Milano Hanke S.H. Waltes S. J.K. (2011) "Privatizing Waterworks: Learning from the French Experience"Journal of Applied Corporate Finance, Vol. 23, Issue 3, pp. 30-35, Hoogduin L, Oztturk B., Wierts P(2011) “ Public Debt Managers Behaviour: Interactions with Macro Policies" De Nederlandsche Bank Working Paper No. 273 Istituto Bruno Leoi (2008) Liberare l’Italia- Manuale per le Riforme della XVI Legislatura IBL Libri, Milano Legrenzi G:D, Milas C. (2011) "Debt Sustainability and Financial Crises: Evidence from the GIIPS" CESifo Working Paper Series No. 3594 Ministero dell’Economia e delle Finanze (2011) “La Relazione sulle Privatizzazioni 2011” Roma . Narduzzi E. (2011) Il Portogallo privatizza, l’Italia non vende nulla in Italia Oggi del 21 settembre Nellis J. (2007) Privatization: A Summary Assessment Center for Global Development Working Paper No. 87 Pennisi G. (2002) Il Sentiero delle Privatizzazioni in Società Libera “Quarto Rapporto sul Processo di Liberalizzazione della Società Italiana”, Milano Pennisi G., Zecchini S. (2003) L’Erta Via delle Privatizzazioni in Società Libera “Terzo Rapporto sul Processo di Liberalizzazione della Società Italiana”, Milano Pennisi G. (2008) L’Anno delle Privatizzazioni Mancate in Società Libera “Sesto Rapporto sul Processo di Liberalizzazione della Società Italiana”, F. Angeli Milano Pennisi G. (2009) Le Privatizzazioni nel 2008: la Crisi e gli Spiragli in Società Libera “Settimo Rapporto sul Processo di Liberalizzazione della Società Italiana”, F. Angeli Milano Pennisi G. (2010) Le Privatizzazioni nel 2009: Opportunità nelle Strategie di Uscita dalla Crisi Economica in Società Libera “Ottavo Rapporto sul Processo di Liberalizzazione della Società Italiana”, Guerini Milano Pennisi G. (2011) Come Tornare a Privatizzare in “Nono Rapporto sul Processo di Liberalizzazione della Società Italiana”, Guerini Milano Pennisi G. (2012) Faust contro Faust in La Nuova Antologia marzo Poggiali V. (2010) , Faust e l’Economia del Suo Tempo, ovvero Goethe quale homo oeconomicus, Editoriale L’Espresso Roma Reviglio E. (2012) Privatization in Europe , RomaEdindustria Savona p (2011) “Quel che si aspetta il mercato” in Formiche ottobre Sinn H W (2001) Germany's Economic Unification an Assessment After Ten Years CESifo Working Paper Series No. 247 Sommella R.(2011) “La politica si sveglia sul taglia debito” in Milano Finanza 27 settembre Giuseppe Pennisi è docente di politica economica internazionale all’Università Europea di Roma(Unier), Consigliere del Cnel e Consigliere Scientifico della Cassa Depositi e Prestiti e dell’Unier , Presidente del Comitato Tecnico Scientifico dell’Economia della Cultura e componente del Consiglio Superiore del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali. Collabora frequentemente a quotidiani e periodici.
A Roma il Barbiere non fa bella mostra di sé in Milano Finanza 21 aprile di Giuseppe Pennisi Lascia a bocca asciutta il molto atteso nuovo allestimento del Barbiere di Siviglia in scena a Roma fino al 26 aprile e successivamente in arrivo a Trieste, la cui fondazione lo coproduce. La regia affidata a Ruggero Cappuccio ha due innovazioni. La prima risiede nella presenza in scena del ventiquattrenne Rossini. L'opera è l'immaginazione dell'autore mentre la compone. Non si tratta di una commedia farsesca, ma di un apologo della rivoluzione dei giovani contro gli anziani in una Siviglia stilizzata e onirica. Il primo punto resta irrisolto. È suggestivo il secondo, marcato dalle differenze dei colori dei costumi (bianchi e crema per i due giovani, sgargianti per gli altri) ma il palcoscenico è troppo affollato da mimi e giocolieri da far comprendere l'apologo a tutti gli spettatori. Sotto il profilo musicale, è corretta ma fiacca la concertazione di Bruno Campanella. Di alta qualità il cast: giovane e in grado di recitare e anche danzare con efficacia. Con Paolo Bordogna (Bartolo), Alessandro Luogo (Figaro), Nicola Ulivieri (Basilio) e Laura Clerici (Berta) si va sul sicuro. Nella prima parte spiccano Juan Francisco Gatell (Almaviva) per la vocalità chiara e l'agilità e soprattutto Annalisa Stroppa per il timbro scuro e la coloratura. Meno brillante nella seconda parte, Gatell scansa la difficile aria Cessa di più resistere, decurtando il finale. E lasciando questo Barbiere in mezzo al guado. Da auspicare correzioni di tiro nelle numerose repliche prima dell'approdo al Teatro Verdi di Trieste. (riproduzione riservata)

il progetto In Portogallo c’è chi studia l’uscita dall’euro in Avvenire 21 aprile DI GIUSEPPE PENNISI G li occhi sono puntati sulla Grecia e sulla Spagna ma il prossi¬mo duro colpo all’eurozona potrebbe venire dal piccolo Portogallo, il cui debito pubblico sfiora il 93% del Pil. Lisbona sfiora l’insolvenza, nonostante si tratti di cifre modeste se raffrontate con il debito pubblico di altri Paesi: quello del Portogallo ammonta a meno di 200 miliardi di euro, il 66% di quello del¬la Grecia ed un decimo di quello dell’Italia. I titoli emessi dal Tesoro di Lisbona, però, vengono classificati da Fitch come «spazzatura», mentre nel Paese è molto attivo il movimento per il 'ripudio' del debito. In Portogallo il 18 aprile è stato pubblicato il primo programma dettagliato per uscire dall’euro senza farsi trop¬po male. È differente da quel¬li lanciati da alcuni economisti greci, accademici anziani ed imbevuti di cultura nazionalista. Questo è invece redatto da Pedro Cosme Vieria, un giovane professore di economia dell’Università di Porto che pubblica sulle princi¬pali riviste di econometria di Gran Bretagna e Stati Uniti. Il programma parte dalla considerazione che a 20 anni dal¬la firma del Trattato di Maa¬stricht l’eurozona è «sull’orlo di un precipizio», soprattutto a causa dei differenziali d’in¬lazione che hanno causato massicci disavanzi dei conti con l’estero, forti aumenti del credito totale interno nei Paesi in deficit e quindi montagne di debito pubblico. Il lavoro contiene stime detta¬gliate per ciascun Paese di quanto dovrebbe svalutare (rispetto all’euro) per competere (ad esempio, la Grecia del 20%, la Spagna del 15%, il Portogallo del 10%, l’Italia dell’8%). Non potendo utilizzare il cambio, si stanno comprimendo i salari reali netti in busta paga. Cosme Vieria accusa di «catastrofismo terroristico » coloro secondo i quali la fine dell’eurozona provo¬cherebbe il caos e propone un percorso semplice per i Paesi a cui la «camicia di forza del¬l’eurozona » sta stretta: an¬nunciare una strada per tornare alle monete precedenti all’euro con un «cambio mobile » (in gergo crawling peg ) agganciato all’euro di chi re¬sta nell’eurozona ed intro¬durre uno spread per i con¬tratti in valuta locale indiciz¬zato all’Euribor (i tassi dei mutui aggiornati periodicamente) . I conti bancari continue¬rebbero ad essere denominati in euro, ma prezzi e salari nella moneta locale. Ciò servirebbe a contenere prezzi e salari (non solo i secondi come avviene adesso) in termini di euro, ad aumentare le e-sportazioni e frenare le importazioni, senza incidere sul¬la libertà di movimento di fat¬tori produttivi, merci e servi¬zi. Dopo una fase di transizione ciascun Paese potrebbe valutare se rientrare negli ac-cordi europei sui cambi oggi in vigore e di solito chiamati Sme II in quanto prevedono fasce di oscillazione (attorno all’euro) differenziate per ciascun Paese. Un programma a¬nalogo (ma meno specifico) viene fatto circolare dal finanziare franco-americano André Cabannes. Pare che il committente sia il candidato all’Eliseo François Hollande . © RIPRODUZIONE RISERVATA Il giovane economista Cosme Vieira propone di passare a valute con un cambio mobile per svalutare anche i prezzi, non solo i salari ________________________________________

giovedì 19 aprile 2012

Il Barbiere di Siviglia e il vizio di voler "aggiornare" Rossini in Il Sussidiario del 20 aprile

Il Barbiere di Siviglia e il vizio di voler "aggiornare" Rossini
Giuseppe Pennisi
venerdì 20 aprile 2012
Un momento de “Il Barbiere di Siviglia”
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Quando nel lontano 1972, Claudio Abbado e Jean–Pierre Ponnelle presentarono alla Scala un’edizione “storica” del rossiniano “Il Barbiere di Siviglia” che si può ancora ammirare in dvd, non toccarono una virgola e una nota del libretto e si dotarono di un cast stellare (Prey, Berganza, Alva, Dara, Montarsolo). “Il Barbiere” – una delle quattro maggiori commedie in musica del diciannovesimo secolo – è una macchina perfetta: basta avere ingredienti buoni e freschi perché funzioni alla perfezione..
Ricordiamo brevemente la trama della pièce di Beaumarchais: Bartolo, medico di una certa età, vuole impalmare la giovane, bella e ricca Rosina di cui è tutore ossia, rifacendoci al clima dell’epoca, protettore-amante da qualche tempo. Il desiderio di convolare a nozze non è tanto di carpirne una cospicua eredità (non se ne parla mai) ma perché vede giovanotti di bella presenza, e pure con il portafoglio pieno, ronzare attorno alla ragazza con l’intenzione di portargliela via. In effetti, la fanciulla ha messo gli occhi su un attraente studente (si dichiara tale, ma è un contino donnaiolo di chiara fama).
Con l’aiuto di un barbiere tuttofare (Figaro), specialmente se c’è denaro in vista, il giovanotto assume varie vesti (i panni di militare e di prete insegnante di musica) per entrare nella barricatissima abitazione di Bartolo, corteggiare la ragazza e sposarla, per poi tentare di tradirla con la cameriera (come si vede nella seconda puntata della trilogia). Ma finendo per essere beffato dalle due donne. In breve sono tutti “cattivi”, ma Rossini li guarda con brio, quasi prendendoli in giro.

A fine Settecento, la pièce di Beaumarchais aveva una certa carica rivoluzionaria: il “Terzo stato” (Figaro) metteva ordine nei pasticci di clero, aristocrazia decadente e borghesia emergente. Messa in musica dall’anziano Giovanni Paisiello, diventò un’elegante e delicata commedia sentimentale. Pochi anni più tardi, al giovane Gioacchino Rossini venne chiesto di musicarla nell’arco di una settimana.

Nelle mani di Rossini, “teocon” davvero reazionario ma bonvivant e pieno di amanti già a 24 anni, diventò frizzante come il lambrusco e brillante come la cucina romagnola, dove il Cigno di Pesaro trascorse la sua infanzia girovaga. Riconosciuta come una delle quattro maggiori commedie in musica dell’Ottocento, “Il Barbiere” continuò ad avere strepitoso successo anche quando imperversava il melodramma verdiano e quasi tutti i lavori rossiniani erano finiti nel dimenticatoio. Tanto da essere ancora oggi una delle opere del pesarese più frequentemente rappresentate.
Da qualche tempo, si usa metter mano al capolavoro con ambizioni sbagliate e risultati deludenti. A Roma, il direttore d’orchestra si trasformò anche in regista, anzi “capocomico”, rendendo la commedia una farsa e interrompendola per dialogare con gli spettatori . Un paio di anni fa, il Teatro Massimo di Palermo ha presentato un “Barbiere di Siviglia” con una lettura in cui Figaro visto veniva come un “precario” in una Siviglia in cui tutti hanno un ruolo ben definito: Almaviva quello del ricco spasimante, Rosina quello dell’innamorata avvinghiata da lacci e lacciuoli relativi alla propria condizione sociale, Bartolo quello del burbero a caccia di fanciulle e doti, Basilio quello dell’Azzeccagarbugli pronto a farsi convincere con una manciata di denaro.
Al Regio di Parma, poco più di un anno fa, Figaro ere ancora una volta un “precario” che mette le sue doti al servizio dei potenti sia al tramonto (Don Bartolo, Don Basilio) sia emergenti (il giovane Conte d’Almaviva e, soprattutto, la pepata Rosina). Cerca, come tutti i “precari”, un posto fisso. E lo otterrà. Al servizio di Almaviva che, come sapremo dal prosieguo della vicenda, tenterà di portare nel proprio letto la sua fidanzata, restandone però scornato di fronte all’universo mondo. Nell’allestimento di Parma non c’ere la vis polemica presente in quello palermitano, ma si perdeva l’inimitabile “brio” rossiniano.
Lascia a bocca asciutta l'attesissimo nuovo allestimento che ha debuttato a Roma (dove resta in scena al 26 aprile) e che successivamente andrà a Trieste.

La regia affidata a Ruggero Cappuccio ha due innovazioni: a) il ventiquattrenne Rossini è in scena e l’opera è l’immaginazione dell’autore mentre la compone; b) non è una commedia farsesca, ma un apologo della rivoluzione dei giovani contro gli anziani in una Siviglia stilizzata e onirica. Il primo punto resta irrisolto. Suggestivo il secondo, marcato dalle differenze dei colori dei costumi (bianchi e crema per i due giovani, sgargianti - come quelli delle statuette di Capodimonte - per gli altri) ma il palcoscenico è troppo affollato da mimi e giocolieri da far comprendere l’apologo a tutti gli spettatori.
Sotto il profilo musicale, corretta ma fiacca la concertazione di Bruno Campanella. Di alta qualità il cast: giovane e in grado di recitare, e anche di danzare con efficacia. Con Paolo Bordogna (Bartolo), Alessandro Luogo (Figaro), Nicola Ulivieri (Basilio) e Laura Clerici (Berta) si va sul sicuro.
Nella prima parte spiccano Juan Francisco Gatell (Almaviva) per la vocalità chiara e l’agilità e soprattutto Annalisa Stroppa per il timbro scuro e la coloratura. Meno brillante nella seconda parte, Gatell scansa la difficile aria Cessa di più resistere, decurtando il finale. E lasciando questo“Barbiere” in mezzo al guado. Da augurare correzioni di tiro nelle numerose repliche prima dell’approdo al Teatro Verdi di Trieste.


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martedì 17 aprile 2012

Da Usa e Giappone una nuova "grana" per Monti il Il Sussidiario 18 aprile

GEOFINANZA/ Da Usa e Giappone una nuova "grana" per Monti
Giuseppe Pennisi
mercoledì 18 aprile 2012
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Oggi il Consiglio dei ministri dovrebbe varare la Decisione di economia e finanza (Def) e il Programma nazionale per le riforme (Pnr). Il condizionale è d’obbligo perché la Def era attesa da almeno una settimana e i rumors di corridoio davano il Pnr in arrivo addirittura il 15 marzo - dato che la Commissione europea ha presentato in novembre, invece che in gennaio, lo scenario di riferimento entro cui formularlo.
Con questo calendario in mente il Cnel ha inviato all’inizio di marzo al Governo proposte per il Pnr; non solo, l’Osservatorio sulle strategie europee per la crescita e l’occupazione (Oseco) ha da alcuni giorni rimesso all’Intergruppo parlamentare Europa 2020 (una formazione di parlamentari europei provenienti da vari scacchieri politici) i propri suggerimenti, mettendo l’accento sulle aree meno coperte dal documento del Cnel. Non mancano altre iniziative.
Sarebbe difficile comprendere le ragioni dell’inazione se il Bollettino della Banca d’Italia pubblicato ieri non raggelasse le aspettative ricordando a tutti che oggi le prospettive sono meno brillanti di quanto lo fossero soltanto pochi mesi fa, al tempo dei Decreti Legge chiamati “Salva Italia” e “Cresci Italia”. In aggiunta, il Bollettino tratta la contrazione in corso come un fenomeno macro-economico standard e non come una ben più perniciosa balance sheets recession, ossia una recessione innescata da un eccesso di indebitamento che ha causato un mutamento di paradigma a individui, famiglie, imprese e servizi finanziari - da un obiettivo di massimizzazione dell’utile si è passati a quello della minimizzazione dell’indebitamento.
Ci vorranno mesi per comprendere come uscire dalla balance sheets recession: negli Usa - lo documenta un lavoro di Richard Koo - ci sono voluti trent’anni, il Giappone ci sta tentando da almeno quindici. Cosa fare? Tre modeste proposte possono servire a dipanare una complessa matassa. Esse si basano sul principio rawlsiano di beni primari, che sono quelli che una persona ragionevole considera essenziali, qualsiasi altra cosa la stessa persona giudicasse utile. Quindi sono proposte non solo modeste, ma anche minimali da arricchirsi con quanto è possibile tirare fuori da una finanza pubblica in cui la coperta è corta e che rischia di essere ancora più corta in futuro a ragione del pesante aumento della pressione tributaria.
La prima proposta riguarda i debiti delle amministrazioni (centrali e locali, grandi e piccoli) nei confronti delle imprese. Non solo stanno portando al dissesto numerose realtà imprenditoriali, ma stanno diffondendo a macchia d’olio balance sheets recession: devono essere saldati al più presto, anche se ciò comporta sforare gli obiettivi di un Fiscal Compact sulla cui efficacia nessuno pare più credere. Parte delle risorse possono essere trovate da una moratoria ai rimborsi elettorali in attesa che si trovi un sistema sostenibile e trasparente di finanziamento pubblico della politica (sempre che lo si consideri utile).
La seconda proposta riguarda il riassetto degli ammortizzatori sociali. Deve andare di pari passo con la nuova normativa sul mercato del lavoro, non su due binari differenti e accavallando meccanismi differenti. Dalla razionalizzazione si potrebbero trovare risorse per obiettivi più meritevoli e più prioritari.
La terza proposta riguarda l’occupazione giovanile, la vera vergogna dell’Italia nei confronti internazionali. Esiste una pletora di agenzie (ItaliaLavoro spa, l’Isfol, i centri per l’impiego e via discorrendo) che se ne occupa, con duplicazioni di ogni sorta e una marea di personale (l’Isfol ha 600 dipendenti, mentre il suo omologo tedesco ne ha 40). I risultati sono quanto meno tali da destare perplessità. Qui ci vorrebbero razionalizzazione e uno snellimento urgente al fine di utilizzare le risorse per impieghi produttivi per i giovani, non per burocrazie che paiono girare a vuoto.