martedì 27 settembre 2011

L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELLA MANOVRA in "Charta" settembre ottobre

L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELLA MANOVRA
Giuseppe Pennisi
Premessa Al momento in cui vengono scritte queste note, la “manovra di Ferragosto” – termine giornalistico per indicare il Decreto Legge No. 138 del 13 agosto 2011- è stata appena varata dal Senato . Dopo alcune profonde modifiche proposte al suo testo dal Governo (relativamente al “contributo di solidarietà” ed una sere di ritocchi alla normativa previdenziale, ed un aumento dell’Iva) si è ad una stesura in cui i conti della manovra di stabilizzazione finanziaria tornerebbero in buona misura grazie all’inasprimento delle sanzioni contro l’evasione fiscale (quali le “manette agli evasori” della “lite tra comari”- Andreatta e Formica- del 1983 che portò nella tomba il primo Governo Spadolini) ed a nuove forme di accertamento (che renderebbe i Comuni corresponsabili).. Poche modifiche invece al capitolo della manovra diretto alla crescita, essenzialmente revisioni della normativa sulla contrattazione collettiva ed aziendale ed un accelerato programma di liberalizzazioni e privatizzazioni. Anche le modifiche al testo predisposto in agosto rappresentano dei passi indietro , specialmente in materia di liberalizzazioni degli orari dei negozi e di concorrenza in servizi di pubblica utilità come i taxi, gli autonoleggi e le ferrovie.
E’ difficile dire se la quadra si è davvero fatta, ossia se la manovra sarà effettivamente di 45,5 miliardi di euro. La prima considerazione riguarda le misure anti-evasione; ammesso che il Garante della Privacy non si metta di traverso (come già avvenuto in passato) nei confronti della pubblicazione on line della dichiarazione dei redditi (strumento che potrebbe pure essere utilizzato a fini criminosi), occorre ricordare che la riduzione dell’area di evasione riscontrata all’inizio di questo decennio – fanno fede a riguardo le analisi di Axel Dreher and Friedrich Schneider, ambedue distinti e distante dalle nostre beghe – è stata in gran misura il frutto delle misure varate nel 1991dall’ultimo Governo Andreotti. Sono stati necessari dieci anni perché da norma diventasse prassi di tutti i soggetti coinvolti. Molto verosimilmente , la misure annunciate il primo settembre dal Ministro dell’Economia e delle Finanze avranno effetti positivi in tempi più brevi anche in quanto operano su un’area di evasione relativamente più ristretta di quella del 1991. Tuttavia, è lecito pensare ad un eccesso di ottimismo, ove non ad un pio desiderio, se si progetta di effettuare in pochi mesi, ove non poche settimane, un lavoro analogo a quello che in un passato non molto lontano ha richiesto dieci anni. Inoltre, è probabile che si apra un’altra falla sulla costituzionalità del “contributo di solidarietà” da applicare a lavoratori della pubblica amministrazione (tra cui i magistrati che in materia la sanno lunga) ed ai pensionati ma non all’impiego privato ed agli autonomi i cui redditi dichiarati superino i 300.000 euro l’anno.
L’aumento dell’Iva rischia di essere una “tigre di carta”: dovrebbe coprire non uno ma due buchi e sarebbe tale da aggravare il calo dei consumi già in atto e di farci scivolare in recessione (come peraltro prevede il Fondo monetario) e già solo per questo motivo di gettito effettivo inferiore a quanto stimato sulla base di ipotesi di crescita più sostenuta del Pil. La manovra, quindi, resta “insostenibile” per pochi (statali, pensionati e soprattutto le famiglie monoreddito) ma rischia di essere troppo “leggera” per centrare l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013; anzi frenando ulteriormente il Pil causerebbe un aumento del rapporto tra stock di debito e reddito nazionale, indicatore molto attenzionato dai mercati internazionali. Soprattutto, anche ove si giungesse al pareggio di bilancio , i nodi strutturali della finanza pubblica e dell’economia immutati resterebbero sostanzialmente immutati.
Vale, però, chiedersi se “non fare la quadra” nella realtà effettuale delle cose è davvero un danno per gli italiani? Senza dubbio, la Commissione Europea minaccerebbe sculacciate (e le darebbe pure), la Banca centrale europea non tenderebbe la mano alle aste di titoli di Stato, varie opposizioni strillerebbero accusando Esecutivo e Parlamento di incompetenza. Forse, però, il detonatore sarebbe tale da rendere la manovra meno recessiva e tale da porre al centro del dibattito economico, sociale e politico la questione di fondo: entrati nell’euro per il rotto della cuffia lanciando le accuse peggiori a tutti coloro che esprimevano perplessità sulla nostra capacità di rispettare le regole e soprattutto di aumentare produttività e competitività, a dodici anni dall’essere stati ammessi nel consesso possiamo dire in coscienza di avere modificato i nostri comportamenti – intendo i comportamenti di individui, famiglie, imprese, pubblica amministrazione, politica – in modo da averli adattarli rapidamente a quelli dei Paesi migliori dell’unione monetaria? Se lo avessimo fatto, non ci troveremmo nel pasticcio in cui siamo pasticcio e dal 1999, ad esempio, i nostri prezzi alla produzione non sarebbero cresciuti ad un tasso quasi doppio di quello della Germania.
Da questa prima domanda, ne nasce una seconda: siamo pronti a modificarli adesso? E di quanto tempo abbiamo esigenza per la transizione? E quale “manovre” dovremmo fare per facilitare la transizione- Per quanto tempo, gli altri soci del club saranno pronti a sopportare un componente del sodalizio che mette le mani nel piatto nelle cene di gala e, dopo una partita a tennis (in cui ha perso), si distingue per le battute oscene negli spogliatoi?
L’insostenibile leggerezza della manovra risiede in questi punti di fondo. La Commissione Europea ci ha mandato una missiva che assomiglia alla lettera scarlatta del romanzo di Nathaniel Hawthorne: un memento che poco o nulla facciamo per la crescita. In mondo in cui tutti corrono- dice la Regina di Picche ad Alice nel Paese delle Meraviglie – restiamo immobili se individui, famiglie, imprese, pubblica amministrazione e politica si sono abituati ad andare al passo e non vogliono o non possono essere più veloci.
Questa nota , quindi, cerca di andare oltre gli aspetti quasi cronachistici della “manovra di Ferragosto”. Ricordando che diversi altri Paesi dell’area dell’euro sono alle prese con difficoltà analoghe situa i nodi dell’Italia in quelli più vasti dell’unione monetaria nella convinzione che solamente una revisione delle sue regole può essere la premessa per una crescita sostenuta ed inclusiva del continente.
Una crisi dell’area dell’euro Si usa affermare che la crisi del debito dell’eurozona e le manovre di finanza pubblica messe in atto per tamponarla hanno numerosi punti in comune con la situazione dell’estate- autunno del 1992. Allora, l’unione monetaria europea era in prospettiva, ma i mercati non avevano fiducia nel fatto che alcuni potenzia¬li Stati membri (Italia in prima linea) ce l’avrebbero fatta a mantenere gli impegni solennemente sottoscritti nel Trattato di Maastricht. Pure se ci sono analogie con la crisi del 1992, il parallelo più calzante è quello con la fase che precedette la fine dell’area della sterlina dopo la svalutazione della moneta di Sua Maestà bri¬tannica, il 18 novembre 1967. In quel caso non ci fu un tracollo, con azzeramento dei pertinenti accordi, ma uno smottamento progressivo sino alla fine del 1972. Il contesto internazionale era ben diverso dall’attuale. Nata all’inizio della seconda guerra mondiale (la sterlina aveva perso dopo la prima guerra mondiale lo status di principale valuta per gli scambi internazionali), la «zona della sterlina» consisteva in una serie di accordi diretti a definire un sistema uniforme di controlli valutari (verso il resto del mondo) e di assicurare al proprio interno l’utilizzazione della sterlina come moneta dei vari Paesi ad essa aderenti, oppure cambi fissi tra monete nazionali (da utilizzarsi all’in¬terno di ciascun Paese) e la sterlina. Circa 80 Paesi tra grandi – come Canada e Australia – e piccoli – ad esempio le Seychelles – ne fecero parte al momento del suo maggior fulgore in base a nor¬mative uniformi. Attenzione attualmente circa 65 Paesi fanno parte dell’area dell’euro pur se soltanto 17 “soci” hanno voce in capitolo; gli altri sono “micro-Stati” (come San Marino ed il Principato di Monaco oppure il Montenegro) che hanno adottato l’euro unilateralmente, gli altri sono Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico associati all’Unione Europe e con legami monetari e finanziari speciali con alcuni membri del club dell’euro (segnatamente la Francia e l’Olanda), altri ancora (la stessa Federazione Svizzera) utilizzando l’euro come seconda moneta accanto a quella nazionale. L’analogia, quindi, è calzante.
Nell’area della sterlina, le compensazioni dei saldi delle bilance dei pagamenti diventarono compito della Bank of England, dove le sterling balances venivano depositate. Non così nell’eurozona dove invece – come dimostrato di recente da uno studio di Francesco Giavazzi e Luigi Spaventa “Why the Current Account Matters in a Monetary Union: Lessons from the Financial Crisis in the Euro Area,” pubblicato lo scorso settembre come CEPR Discussion Paper no.8008. - si è vissuti per 12 anni nell’illusione che i saldi all’interno dell’area si compensassero automaticamente , e che la riduzione dei tassi d’interesse fosse caratteristica permanente (o almeno di lungo periodo) dell’unione monetaria, ciò ha comportato forti disavanzi per la Grecia, l’Irlanda, la Spagna ed il Portogallo che (anche ove non ci fosse stata una crisi finanziaria internazionale in corso dal 2007) ha comportato una crescita molto forte del credito totale interno utilizzato per finanziarie investimenti a bassa produttività e aumento vertiginoso del debito pubblico.
Torniamo alla crisi, e dissoluzione, dell’area della sterlina. La Gran Bretagna uscì dalla seconda guerra mondiale con uno stock di debito pari al 250% circa del Pil; ne seguì nel 1949 una svalutazione del 30% circa del cambio della sterlina nei confronti del dollaro, concertata con il resto della zona, utilizzando anche i buoni uffici del Fondo monetario. Il quadro cambiò negli Anni Sessanta: non tanto perché i vari Paesi prendevano strade differenti (pure in ragione dei diversissimi livelli di sviluppo), ma in quanto le politiche interne britanniche (i laburisti guidavano la macchina) comportavano crescenti disavanzi della bilancia dei pagamenti in una fase di trasformazione del mercato internazionale (sorgeva l’euro¬dollaro, il primo mercato internazionale – dal 1929- autoregolamentato e non gestito collegialmente tramite il Fondo monetario). Da un lato, Londra diventò il principale cliente del Fondo mone¬tario. Dall’altro – ricorda un acuto saggio di Ben Clift – dal confronto con¬tinuo ed intenso con i governi laburisti, il Fondo (nato keynesiano) diventò neo-liberale. Dato che le risorse ordinarie del Fmi non sembravano adeguate a soddisfare l’esigenza di parare il disavanzo britannico (ed americano – aumentavano le spese per la guerra in Viet-Nam) e assicurare liquidità per la crescita mondiale, nel settembre 1967 l’assemblea del Fondo monetario internazionale approvò la modifica degli statuti per varare i «diritti speciali di prelievo», i DPS, le cui pri¬me emissioni avvennero nel 1969.

Il 18 novembre 1967 (ero studente negli Usa) il professor Randall Hinshaw (ex Sotto¬segretario al Tesoro Usa oltre che noto teorico di economica monetaria), non arrivò a lezione con la solita puntualità e aspetto apollineo, ma trafelato.Non esistevano telefonini. Aveva appena ricevuto una telefonata dalla moglie e ci disse agitatis¬simo: «They finally did it! (alla fine lo hanno fatto!, ndr ) »: la Gran Bretagna aveva svaluta¬to del 14% la sterlina senza consultarsi con il resto della zona. Chi aveva saldi attivi presso la Bank of England prese una bella botta. Iniziò lo smottamento.

I paralleli sono molteplici: la nascita di mercati e strumenti non regolamentati (l’eurodollaro); i DPS hanno punti in comune con gli «eurobond» di cui si parla oggi; i tentativi di tam¬ponare falle (senza cambiare politiche economiche); il pericolo di smotta¬mento per rivalutazione o svalutazione non concordata di alcuni soci. Per questo è urgente definire un percorso che eviti che la situazione si ripeta. Negli anni Sessanta, mentre montava quella che sarebbe stata la crisi della zona della sterlina, all’osteria 'Da Mario' in Via di San Vitale di Bologna (400 lire a pasto, primo, secondo, frutta ed acqua del ru¬binetto, vini a parte), all’ora di colazione, si incrociava spesso l’allora giovane (oggi Premio Nobel) Robert Mundell (docente alla Johns Hopkins University) a pranzo con alcuni stu¬denti: il Lambrusco, di cui era ghiotto, lo pagava lui (e lo tracannava quasi tutto lui). In una di quelle colazioni, su un tova¬gliolo di carta tracciò le due e¬quazioni essenziali del teore¬ma dell’area valutaria ottimale che a 29 anni gli aveva dato fama e il finanziamento Fullbright per insegnare a Bologna e apprezzare l’Italia (passa gran parte dell’anno in un suo po¬dere del Chianti). Quel tovagliolo, ove esistesse ancora, dovrebbe essere meditato da tutti coloro che desiderano impedire che l’unione monetaria si dissolva e l’euro venga ricordato nei libri di storia dei nostri nipoti come il 'milite ignoto' dell’integrazione europea. Mundell spiegava che le due equazioni volevano dire 'effettiva' mobilità dei fattori di produzione, delle merci e dei servizi (da distinguersi da 'libertà di circolazione') non per uno sghiribizzo teorico per giungere al grado più alto di un’inte¬grazione economica (la moneta unica), ma perché solo con convergenza di produttività e competitività l’unione monetaria può funzionare.
Oggi tornare a quel paio d’equazioni può evitare una dissoluzione dell’unione monetaria analoga a quella della 'zona della sterlina' non tanto a ragione del disavanzo dei conti con l’estero del Paese chiave, ma per l’acuirsi dei divari di produttività e competitività. In alcuni Paesi (tra cui l’Italia) la produttività non aumenta da dieci anni. In altri corre poiché è stata metabolizzata l’irreversibilità dell’accresciuta concorrenza innescata dall’euro. Il Paese-chiave, la Germania, ha affrontato dieci anni di sacrifici per mettersi al passo con la nuova situazione, ma non è sufficientemente grande da potere curare i mali dell’intero continente.
Mentre ci si gingilla con nuovi strumenti di convergenza di finanza pubblica, per salvare il 'soldato semplice euro' occorre affiancarli con strumenti di economia reale tali da pro¬muovere la convergenza di pro¬duttività e competitività e offrire a chi non è in grado di farlo una via d’uscita che non com¬porti un trauma per l’Unione Europea e per i Paesi in ritardo. In questa ottica anche gli 'eurobond' dovrebbero essere visti come veicolo di sviluppo e non di tamponamento di falle. Si potrebbe pensare a un percorso decennale a tappe con indicatori di produttività e competitività (analogo al percorso di convergenza finanziaria del Trattato di Maastricht) . Chi dopo venti anni dal varo dell’euro e trenta dalla firma di Maastricht, non può (o non vuole) convergere in termini di pro¬duttività e competitività, può trovare alloggio nello «SME2» con misure fatte su misura per le sue circostanze (la Danimarca ha un tasso di fluttuazione del 2,5% rispetto all’euro, la Gran Bretagna del 30%).
Non c’è tempo da perdere. Il più noto economista tedesco Hans- Werner Sinn suggerisce che la Grecia stacchi l’ancora e torni alla dracma; in seguito, a suo parere, lo dovrebbero fare altri Stati (tra cui forse l’Italia). L’economista André Cabannes ha lanciato addirittura la proposta di un sistema duale: Grecia, Francia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna utilizzino le loro 'vecchie' monete (dracme, franchi, lire, sterline, scudi, peseta) per le transazioni interne e l’euro per quelle europee ed internazionali, come avveniva nell’unione monetaria latina che è durata dal 1866 al 1927 (e nella 'zona della sterlina' co¬me ricordato da Avvenire del 25 agosto). Le Banche centrali nazionali gestirebbero la liquidità delle monete nazionali, la Bce quella a livello di euro. Gli aggiustamenti, secondo l’economista, sarebbero più facili e più visibili e incentiverebbero a migliorare produttività e competitività.
Una “manovra” per restare nell’euro
Così come concepita la manovra ha l’obiettivo di far sì che l’Italia resti nell’euro: tagli alla spesa pubblica ed aumenti delle entrate per 45,5 miliardi di euro al fine di giungere al pareggio di bilancio nel 2013 ed aggredire lo stock di debito pubblico.
E’ prematuro entrare negli aspetti tecnici di contenuti ancora in discussione in Parlamento (nonostante si profili un dibattito accelerato alla Camera, al suo di voti di fiducia). Occorre, però, chiedersi che fine hanno fatto le norme per promuovere lo sviluppo, una serie di misure rivolte da un lato a una “grande riforma costituzionale” di lungo periodo (se le relative leggi costituzionali verranno approvate in tempo) e da un altro a ridurre spese e alimentare entrate aggiuntive nei prossimi esercizi di bilancio? La Nemesi storica fa sì che le ultime revisiono alla manovra (ossia il maxiemendamento) è stato licenziato proprio in parallelo con le notizie secondo cui le stime del Fondo monetario internazionale e dei 20 maggiori istituti econometrici stranieri hanno abbassato le prospettive di crescita reale per l’Italia nel resto del 2011 e nel 2012. Metà dei 20 istituti annunciano una nuova recessione. A maggior ragione sarebbe stato necessario un tonico, specialmente per affrontare quello che oggi è il maggiore problema economico, sociale e politico del Paese: la disoccupazione giovanile. La stessa Banca d’Italia ha documentato che la manovra potrà avere effetti restrittivi e potrà aggravare il fenomeno dei giovani senza lavoro.
C’è un silenzio assordante in materia. I comunicati quasi non trattano l’argomento. Si potrebbe pensare che le pallide misure per lo sviluppo inserite nel Decreto Legge No 138 dello scorso 13 agosto siano rimaste immutate. Dato che si metteva mano in modo cospicuo al suo testo questo sarebbe stato il momento per quello scatto che si attende da mesi. Si sarebbero potute includere quattro misure concrete: a) Un rilancio dell’investimento pubblico. Di recente, la Banca mondiale, il Fondo monetario e il maggior istituto tedesco di analisi economica hanno pubblicato analisi eloquenti sui nessi tra infrastrutture e sviluppo. Su questa base si sarebbero potuto prendere queste misure: b) chiudere le “contabilità speciali” considerate tesoretti privati di dicasteri e di singoli funzionari ed utilizzarne il ricavato per investimenti tali da aumentare produttività e competitività: c) chiedere alle autorità europee golden rule ed eurobonds finalizzati ai grandi investimenti; 4) aumentare il ruolo e la capacità di valutazione e verifica delle unità preposte a questo scopo al Ministero dello Sviluppo Economico, in Presidenza del Consiglio (Dipartimento Affari Regionali) e altrove. b) privatizzare la Rai (ormai ridotta a una lite continua, a un’azienda mangiasoldi e distinta e distante da ogni forma di servizio pubblico). Attenzione: lo si sarebbe potuto fare nel maxi-emendamento governativo presentato al Senato od in uno analogo da presentare alla Camera. Invece, come accennato in precedenza e come documentato da tre documenti dell’Istituto Bruno Leoni le liberalizzazioni sono state annacquate e manca una vera agenda di privatizzazioni.
Per restare nell’area di diretto controllo del Governo e della pubblica amministrazione, un segnale forte viene proprio dal gruppo di economisti (il CESifo) che lavora più strettamente con Angela Merkel: Pedro Bon e Jenny D. Ligthart della Università di Tilburg i quali hanno pubblicato, nel Working Paper n. 2011-092, un’analisi sui nessi tra le infrastrutture pubbliche, la dinamica dell’output e le regole di pareggio di bilancio. E’ uno studio in gran misura di teoria economica, ma il modello che ne risulta viene applicato ai Paesi Bassi ed alla Germani federale al fine di farne appropriate calibrazione. Contrariamente ai risultati convenzionali se si tiene conto che le infrastrutture beneficiano più generazioni (e generazioni che si sovrappongono le une sulle altre), misure che comportano il pareggio del bilancio hanno effetti negativi duraturi sul ciclo economico; di conseguenza, un appello implicito per la golden rule che esimi dai vincoli le principali opere pubbliche. Altrimenti si resterà molto prossimi a crescita zero, ed a disoccupazione in aumento.
A conclusioni analoghe arriva un lavoro condotta dalla Banca mondiale e della Banca centrale spagnola; ne sono autori Cesara Calderon e Luis Servant (ambedue della Banca mondiale) e Enrique Moral Benito del CEMFI, l’istituto di formazione della Banca di Spagna. E’ in uscita come Banco de Espana Working Paper n. 1103. Esamina il contributo alla crescita del Pil il 88 Paesi nel periodo 1960-2000 tramite avanzate tecniche econometriche. In estrema sintesi, l’elasticità di lungo periodo tra un indice sintetico della dotazione in infrastrutture e la crescita varia tra lo 0,07 per cento e lo 0,10 per cento. Non solo è positiva ma il dato è statisticamente “robusto” al variare delle specifiche della dinamica della crescita e del modo di misurare la dotazione in infrastrutture. Non solo ma nel lungo periodo i parametri non cambiano al mutare di gruppi di Paesi, di dimensione della loro popolazione e dei relativi di sviluppo. In breve, infrastrutture rendono. Lo si sa bene in Italia dove solamente i costi di un’inadeguata logistica pesano, secondo stime indipendenti, per 40 miliardi di euro l’anno (ossia l’equivalente di una maxi manovra).
A dirlo è anche il trinariciuto Fondo Monetario Internazionale del Working Paper No. 11 /37 curato da Annette J. Kojbe, Jim Brumby, Zac Mills. Era Dabla Norris e Chris Papageorgiu, una vera e propria squadra di specialisti: la loro analisi include 71 Paesi (di cui 40 in via di sviluppo) e costruisce un indice sintetico che può essere utilizzato a fini operativi non solo per individuare le priorità nelle infrastrutture da realizzare ma anche nelle riforme per massimizzare i benefici della loro attuazione. E’ in questo quadro si pone il dibattito sugli “eurobonds”.Da 40 anni il termine appare periodicamente, e in varie guise, nella galassia delle sigle europee. L’ultima versione, che ha sollevato una levata di scudi da parte di politici ed economisti tedeschi (ieri Kai Carstensen e Michael Huther lo hanno spiegato al Foglio), si riferisce a strumenti finanziari diretti a “socializzare”, all’interno dell’unione monetaria, nuove emissioni di debito pubblico. Anche la proposta di “EuroUnionBond” avanzata da Romano Prodi e Alberto Quadro Curzio sul Sole 24 Ore, come pure quella presentata nel 2010 dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti e dal presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker, ha come obiettivo primario la socializzazione del debito in un quadro di solidarietà e maggiore integrazione europea. La percezione di chi si oppone al progetto è che gli Eurobond comporterebbero così un aumento del costo del denaro pure ai paesi virtuosi e opererebbero come “sanatoria” per quelli più propensi al vizio. Non è detto che tale timore sia giustificato, ma in economia e finanza le percezioni sono più importanti della realtà; ergo, è stato eretto un vero e proprio muro contro la proposta. Senza Eurobond sarà però difficile attivare quel processo di crescita di cui tutta l’Eurozona ha esigenza non solo per ridurre lo stock del debito in rapporto al pil ma anche per contenere un tasso di disoccupazione che nell’area si aggira sul 10 per cento della forza lavoro e tende a crescere. Lo hanno documentato in un libro relativamente recente gli economisti italiani Carlo Favero e Alessandro Missale, e in un lavoro ancora più fresco tre economisti della Banca europea per gli onvestimenti (Bei), Rien Wagenvoort, Carlo de Nicola e Andreas Kappeler: in sintesi, da quando nel 2007 è iniziata la crisi finanziaria, tutti i principali paesi hanno decurtato i già magri stanziamenti per gli investimenti in infrastrutture. Solo in Italia, le carenze di infrastruttura logistica, prevalentemente nel centro nord, comportano un costo alla società di 40 miliardi di euro all’anno, di cui si sobbarcano principalmente le imprese. Il mercato dei capitali privati, però, è sufficientemente liquido per essere incanalato verso impieghi a lungo termine e gli Eurobond potrebbero essere un adeguato strumento per farlo.
Conclusioni (ovviamente preliminari)
Dopo l’ultima tormenta finanziaria che non accenna a placarsi, aumentano proposte intese a rivedere profondamente l’unione monetaria europea. Uno dei “padri” del Trattato di Maastricht Paul, de Grawe parla della fragilità dell’eurozona così come concepita. Il più influente degli economisti tedeschi, Hans- Werner Sinn suggerisce che la Grecia stacchi l’ancora e torni alla dracma. In seguito, lo dovrebbero fare altri Stati (tra cui forse l’Italia) . Altri danno la moneta unica per defunta: da ultimi due dei più noti della Finlandia (Mart Sorg) e dell’Estonia (Nadezhda Ivanova)- Paesi che non hanno problemi seri di finanza pubblica. Il ragionamento loro (e di altri, soprattutto di quelli, anche europei, residenti negli UsA) è che molti Stati imbarcatisi sulla via di Eurolandia non hanno metabolizzato quanto profonde fossero le prassi che i loro cittadini, le loro imprese, le loro pubbliche amministrazioni (ed i loro stessi Governi) avrebbero dovuto cambiare. Società abituate a raffazzonare i propri affari, ed a risolverli di tanto in tanto deprezzando il cambio, si trovano con il cappio al collo. Un economista francese, André Cabannes, ha lanciato la proposta di un sistema duale: Grecia, Francia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna utilizzino le loro “vecchie” monete (dracme, franchi, lire, sterline, scudi, peseta) per le transazioni interne e l’euro per quelle europee ed internazionali, come avveniva nell’unione monetaria latina che è durata dal 1866 al 1927, una buona prova di resistenza; le Banche centrali nazionali gestirebbero la liquidità delle monete nazionali, la Bce quella a livello di euro; gli aggiustamenti sarebbero più facili e più visibili ed incentiverebbero a migliorare produttività e competitività. Cabannes viene dal mitico Polytechnique, è stato uno dei leader del Boston Consulting Group ed ora è Presidente ed amministratore delegato di Axtel, uno dei maggiori gruppi europei di consulenza. E’ una voce ascoltata nel mondo della finanza e da alcuni Governi.
L’unione monetaria è profondamente cambiata rispetto a quanto previsto a Maastricht e scritto nei manuali universitari: aiuti a banche e a Tesori in difficoltà sono scarsamente compatibili con una moneta unica mentre sarebbero parte integrante in un sistema “alla Bretton Woods” di cambi, e di aggiustamenti delle bilance dei pagamenti, gestiti collegialmente.
Inoltre, circola da alcune settimane un saggio in uscita sul prossimo numero della Review of Financial Studies sulla volatilità dei mercati (e a chi rende) quando la “politica è precaria”. Ne sono autori Maria Boutchkova dell’Università di Leicester, Anthony Durnev dell’Università dello Iowa, Hitesch Doshi dell’Università McGill di Monréal e Alexander Molcanov della Massey University. In breve, una collaborazione intercontinentale per esaminare in che misura il rischio politico influenza la volatilità. Il messaggio è chiaro: quanto più un Paese è “aperto” - e l’Italia, grazie al Cielo lo è - più i suoi partner non si fanno infinocchiare da decreti e decretoni concepiti frettolosamente, cambiati varie volte e con alcune parti ad alta probabilità di essere impallinate nei Tribunali e dalla stessa Corte Costituzionale. Il decreto accentua l’incertezza politica: basta questo a scoraggiare i mercati.
In effetti, parte dei suoi contenuti sono l’opposto di quanto sostenuto, con preoccupazione, da Paul De Grauwe in “Governance of a Fragile Eurozone” pubblicato due settimane fa dal Center for European Policy Studies - e su cui si spera si sia meditato a Via Venti Settembre e non solo: non sono una serie di misure straordinarie a curare le falle dell’Eurozona, ma una convergenza verso l’alto di produttività e competitività (in materia, il decreto contiene soltanto lo spauracchio, difficilmente sostenibile in punta di diritto, di togliere la tredicesima a tutti i dipendenti di un’amministrazione che non attua i desiderati risparmi di bilancio, obiettivo che sarebbe più semplice raggiungere azzerando le “contabilità speciali” fuori bilancio dei dicasteri che le utilizzano - solo il Ministero per i beni e le attività culturali ne ha 324! - spesso per ragioni particolaristiche).
La fretta, inoltre, pare essere stata cattiva consigliera: nessuno sa come abolire le Province e come ridurre i Consiglieri Cnel nel lasso di tempo prescritto. Ne sortirà una “Gran Baraonda”, come quella della rivista omonima di Wanda Osiris e Renato Rascel. Ai mercati di solito le baraonde non piacciono.

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