COME E PERCHE’ LA LETTERATURA ECONOMICA SNOBBA LA GOLDEN RULE Giuseppe Pennisi
L’obbligo costituzionale del pareggio di bilancio ha, per i meno giovani, un gradevole profumo di antico: i ricordi di quando studiavano in università negli Anni Sessanta. Per i meno giovani, il concetto rammenta il dibattito sul Gramm-Rudman-Hollings Balanced Budget and Emergency Deficit Control Act del 1985; sarebbe dovuto essere un “emendamento” alla Costituzione americana (ossia, nel nostro lessico, una Legge Costituzionale) mirata a frenare la forte crescita del disavanzo dei conti federali in seguito alla riduzione di tasse ed imposte attuata dalla prima Amministrazione Reagan; diventata norma federale ebbe effetti modesti sui conti pubblici poiché il leggero avanzo del bilancio federale sfiorato negli Anni Novanta è da attribuirsi a dinamiche demografiche che hanno determinato, per un breve periodo, un sovrappiù nei conti dell’equivalente americano del nostro Inps (la “social security”). Nei libri di testo per le università, si è gradualmente smesso di trattare l’argomento: negli Anni Settanta, i manuali di macro-economia avevano spesso un capitolo sul “full employment budget” , ossia su politiche di bilancio mirate al pareggio nell’ipotesi di piena occupazione. Negli Anni Ottanta e Novanta, anche il “full employment budget” è tramontato (quanto meno come tema da insegnare agli studenti) in parte per la sua scarsa consistenza teorica in parte perché l’attenzione si è sempre più rivolta a quali fossero le politiche di bilancio a medio termine in economie aperte e, quindi, ai loro nessi con i regimi di cambio.
Nessuno dei manuali redatti da economisti italiani in uso nelle nostre università ita – ad esempio quelli di Acocella, De Vincenti, Petretto, Roncaglia, Zamagni- dedicano al tema più di pochi paragrafi (e lo trattano a mò di dotta curiosità). Il periodico più prestigioso di rassegna del pensiero economico (il Journal of Economic Literature) non tocca il tema dal marzo 1998 quando pubblicò un saggio sull’argomento di David Stockman, che era stato Direttore del Bilancio della prima Amministrazione Reagan e si considerava “un pentito” della “mistica del pareggio di bilancio”. Ancora più raro un trattamento approfondito nei manuali delle università americane; quando ne parlano lo auspicano come obiettivo contabile (di “pulizia” dei conti pubblici) non come strumento di politica economica. Le ragioni sono essenzialmente due a) l’obbligo viene facilmente aggirato (le sorti del Gramm-Rudman-Hollings Balanced Budget and Emergency Deficit Control Act, tanto per fare un esempio, non sono state differenti di quello dell’art.81 della nostra Costituzione) e b) in economie aperte, le politiche di bilancio devono coniugare molteplici obiettivi (una “funzione obiettivo” complessa nel lessico degli economisti) e speditezza nell’adattarsi al cambiamento di circostanze (“efficienza adattiva” sempre nel lessico degli economisti).Sulla base di un’analisi comparata di 84 Paesi nel periodo 1960-2004 (la vigilia della crisi finanziaria) lo documenta, tra l’altro, un saggio di Panicos Demetriades (University of Leicester) e Peter L. Rousseau (Vanderbilt University) nell’ultimo fascicolo di “The Manchester School” (Vol. 79, pp. 98-115).
Ciò non vuole dire che messa da parte “la mistica” del “pareggio di bilancio”, si vada a briglia sciolta. L’ufficio studi del Fondo monetario sta lavorando (in collaborazione con Banche centrali e Ministeri dell’Economia di vari Paesi) ad un nuovo concetto: il “public debt targetting” (in gergo PDT) ossia come gestire la spesa “primaria” (al netto, quindi, del servizio del debito) con politiche mirate a far sì che lo stock di debito pubblico resti o divenga “sostenibile”.
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