CHE COSA STIAMO IMPARANDO DALLA GRANDE CRISI
Roma - di Giuseppe Pennisi
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Roma - Ho l’età per ricordarmi Piero Bargellini, allora sindaco di Firenze, agli Uffizi e con il fango sino alle ginocchia. C’era appena stata l’alluvione e tutti erano in lacrime. Con la sua voce stentorea, disse: “Non è tempo di piagnistei”. Cambiò immediatamente la musica e iniziò il riassetto di Firenze. È in corso l’assemblea annuale del Fondo monetario internazionale e del gruppo della Banca mondiale. Tale assise - ci auguriamo - farà fare passi avanti a quel riordino dell’economia mondiale essenziale anche per mettere l’economia italiana sul percorso corretto. Sarebbe futile tentare di commentare due eventi, peraltro ancora non verificatisi. Non lo è, invece, stabilire i criteri per valutare i loro esiti all’inizio di ottobre, quando daranno materiale a iosa per commenti (allora) di attualità.
Il criterio che vorrei proporre è in quale misura a quasi cinque anni dall’inizio della “grande crisi” (dei Paesi industrializzati ad economia di mercato) scoppiata (nei media) nel luglio 2007 abbiamo appreso le lezioni da incorporare nelle strategie per non cadere in una situazione analoga e per uscirne il meglio possibile. Barry Eichengreen dell’Università di California a Berkeley ha appena pubblicato - in Comparative Economic Studies Vol. 53 No 3 pp. 383-406 - un interessante saggio che illumina sulle “opportunità” dischiusesi a ragione della “Grande Depressione” degli Anni Trenta. Sulla traccia di questo brillante lavoro, possiamo porci queste domande per valutare le politiche internazionali e interne di cui speriamo che in ottobre si possano toccare con mano non solo i lineamenti ma parte della sostanza: iIn primo luogo, quali sono i progressi effettuati nel riorganizzare l’economia mondiale, in specie per trovare una soluzione ai nodi dei regimi di cambio (oggi il 66 per cento della monete è a cambio fluttuante) ed al metodo per far sì che i cambi riflettano le situazioni e capacità dell’economia.
In secondo luogo, quali sono i progressi effettuati nell’eurozona per curarne i sempre più evidenti difetti e favorire metodi che promuovano la convergenza in termini non solamente di finanza pubblica ma anche e soprattutto di produttività e competitività. In terzo luogo, in quale misura i governi, specialmente quelli europei e in particolare quello italiano, hanno metabolizzato che adesso, come negli Anni Trenta, la fragilità (o stress che dir si voglia) dei conti delle banche, da un lato, e l’aumentata consapevolezza del rischio di credito, da un altro, ha reso più difficile alla piccole e medie imprese la concezione ed il finanziamento di progetti d’investimento, soprattutto se innovativi. In quarto luogo, non ci solide prove quantitative che negli Anni Trenta l’aumento del debito pubblico oppure l’incertezza delle politiche economiche abbiano inciso negativamente sul livello e sull’incidenza degli investimenti. Ce ne sono, invece, che questo fenomeno sta avvenendo negli ultimi quattro anni, specialmente in Europa. Quali misure si stanno adottando a questo riguardo? In quinto luogo, negli Anni Trenta molte imprese hanno colto l’opportunità del rallentamento e della contrazione dell’attività economica per riorganizzarsi e diventare più efficienti. Ci sono analisi di università americane e del Department of Commerce Usa che suggeriscono come ciò stia avvenendo negli Stati Uniti. Tuttavia, sino ad ora, né la Commissione Europea (a livello comunitario) né il ministero dello Sviluppo Economico né la Confindustria hanno intrapreso (a che se ne sappia) studi di questa natura o ne hanno resi pubblici i risultati.
(G. Pennisi) 23 Settembre 2011 15:50
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