LA “LEGGENDA” DI SOLBIATI IL GRANDE INQUISITORE E’ TRA NOI
Beckmesser
La “prima mondiale di Alessandro Solbiati “La Leggenda” il 20 settembre al Teatro Carignano di Torino può dar luogo a due differenti tipologie di riflessioni. Da un lato, sotto il profilo musicale, si situa in un momentoi “magico” del teatro in musica italiano – Il Riformista ha sottolineato i recenti successi a Aix-en-Provence ed a Salisburgo di teatro in musica contemporaneo italiano e come alcune opere di autori italiani siano in domanda in numerosi teatri stranieri; occorre, quindi, domandarsi se dopo le recite a Torino (l’opera è parte del MiTo) si potrà puntare su riprese o tournée del Teatro Regio (nell’ambito della cui stagione viene presentata) in Italia o all’estero, anche a ragione dei meriti di libretto e partitura (ambedue di Solbiati). Da un altro, il lavoro si situa in contesto filosofico e politico sociale specifico: la grande attualità de “La Leggenda del Grande Inquisitore” – uno dei passaggi essenziali de “I Fratelli Karamazov” di Dostoevskij- come dimostrato tra l’altro dal dibattito suscitato dal saggio L’umiltà del male di Cassano.
Il libretto sintetizza efficacemente il testo di Dostoevskij in 90 minuti (senza intervallo) con un prologo e quattro quadri che spaziano nel tempo e nei luoghi: la Russia di fine Ottocento dove Ivan e Alessio discutono della leggenda, la piazza principale di Siviglia nel Cinquecento, un carcere claustrofobico, il deserto. Stefano Poda, autore di regia e scene, utilizza un impianto unico con una vasca d’acqua sul proscenio ed un grande fondale che, con una passarella può essere adattato a vari ambienti. L’aspetto scenico è suggestivo. Non manca azione, per quanto il libretto sia simile ad un oratorio (il personaggio principale , Gesù tornato in terra, non parla e non canta) dato che la parte centrale è il lungo monologo dell’Inquisitore (il baritono Urban Malmberg) alla cui voce grave si giustappongono gli interventi di Alda Caiello (Alessio) e l’intesa preghiera di Laura Catrani (La Madre). Efficaci ma in ruoli minori il tenore Mark Milhofer (Ivan) ed il basso Gianluca Buratto (Lo Spirito del Non-Essere). La scrittura vocale tende al declamato ed allo Sprechgensang . Ciò è in linea con una struttura musicale essenzialmente seriale e dodecafonica dove il vero protagonista è l’orchestra (anzi le orchestre) affidate a Gianandrea Noseda. L’organico orchestrale occupa le prime file della platea , i palchi di proscenio ed anche la parte sinistra della galleria. In breve, un organico malehriano. Ivan e Alessio sono accompagnati dall’Orchestra A, la Siviglia cinquecentesca (cui contribuiscono timbricamente, in scena, chitarra e fisarmonica) e il deserto dalle Orchestre A + B, il carcere da un piccolo gruppo da camera in buca). In due palchi di proscenio contrapposti si trovano le percussioni, in un altro la celesta. Nel deserto riverbera la voce dello Spirito del Non Essere e nel carcere l’Inquisitore è reso polifonico da un sestetto vocale. La scrittura molto timbrica sembra riflettere più lo spirito di Darmstadt che quello dell’Ircam. E’ comunque personalissima ed affascinante- il maggior elemento di successo alla prima. Pone, però, un problema alla replicabilità dell’operazione a ragione dei costi che tale impianto orchestrale implica. Un suggerimento: Solbiati segua la lezione di Britten che scrisse per suo grand-opéra “Billu Budd” una versione accompagnata unicamente da due pianoforti ed un armonium.
Pochi cenni alla parte filosofico-politica-sociale: il saggio di Cassano e l’opera di Solbiati mostrano che il Grande Inquisitore è ancora tra noi.
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