venerdì 30 settembre 2011

Elektra, pathos al femminile in Milano Finanza primo ottobre

Numero 193 pag. 61 del 1/10/2011 | Indietro
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Elektra, pathos al femminile
Nell'ambito della sempre più stretta collaborazione tra il Teatro dell'Opera e il Festival di Salisburgo, va in scena a Roma fino all'8 ottobre Elektra di Richard Strauss, su testo di Hugo von Hoffmannsthal nell'edizione che ha debuttato alla Grosses Festspielhaus nel luglio 2010. Così come in quella messinscena l'impianto scenico è affidato a Raimund Bauer, le luci sono di Duale Schuler, la coreografia di Denni Sayers, i costumi di Andreas Schmidt-Futterer e la regia di Nikolaus Lehnhoff.
La sala e il palcoscenico sono invece differenti, così come la bacchetta, l'orchestra e gli interpreti.
Tra mura sghembe e pavimenti divelti, si svolge un dramma che coinvolge tre donne (l'opera è del 1909 quando si sentivano i primi cenni della psicoanalisi): Elettra, una splendida Eva Johansson, tesa verso la vendetta, Clitemnestra, una Felicity Palmer che a 67 anni è ancora una grande cantante e una superba attrice, e Crisotemide (una dolcissima Melanie Diener) il cui obiettivo è uscire dalla gabbia, trovare un uomo e avere un figlio. Egisto (Wolfgang Schmidt) e Oreste (Alejandro Marco-Buhrmester) non sono che dei comprimari. I veri vincitori sono il maestro concertatore Stefan Soltesz, chiamato all'ultimo momento per rimpiazzare il forfait dato da Fabio Luisi e l'orchestra in grandissima forma. (riproduzione riservata)
Giuseppe Pennisi

giovedì 29 settembre 2011

Perché solo l'Orchestra sinfonica di Roma dà spazio alla "musica degenerata"? in Il Sussidiario 30 settembra

OPERA/ Perché solo l'Orchestra sinfonica di Roma dà spazio alla "musica degenerata"?
Giuseppe Pennisi
venerdì 30 settembre 2011
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Due anni fa, i maggiori teatri italiani tennero quasi un festival di “Entartete Musik” (“musica degenerata”, appellativo datole da Goebbles). A Milano alla Scala venne presentato un nuovo allestimento di “Lulu” di Berg, a Palermo ci fu la prima messa in scena in Italia di "Die Geizeichneten" (“I Predestinati”) di Schreker, a Roma la prima esecuzione romana di “Eine florentinische Tragoedie” di Zemlisky.

In breve, tre esempi di quella “musica degenerata” con cui la Germania nazista definì gran parte dell’innovazione musicale che tra il 1920 ed il 1942 si sviluppò al di là delle Alpi e del Reno. Una mostra sulla “Entertete Musik” venne addirittura organizzata a Düsserdolf nel maggio 1938 quando quasi tutti i musicisti “degenerati” erano riparati all’estero e qualcuno di loro (ad esempio, Walter Baunfels) inviato al confino. C’erano due filoni distinti: uno austriaco che ebbe sbocco nella dodecafonia (Schömberg, Berg, Zemliksky) e uno di stampo tedesco (Korngold, Schreker, Krenek, Weill) in cui l’esperienza post-romantica si fondeva con l’espressionismo, la musica popolare e il jazz.

La “Entarteke Musik” tedesca non è mai stata considerata “degenerata” in Italia. Anzi, pare piacesse a Benito Mussolini. In piena guerra, nel novembre 1942, al Teatro dell’Opera di Roma è stato rappresentato “Wozzek” di Berg (vietatissimo in Germania e nelle “terre occupate”) in versione ritmica italiana, con Tito Gobbi nella veste di protagonista e Tullio Serafin alla guida dell’orchestra. Inoltre, oltre a Berg, un altro “degenerato”, Krenek, era tra gli ospiti abituali del Festival internazionale di Musica Contemporanea di Venezia, lanciato come concorrente del Festival di Salisburgo
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La “Entartete Musik” è tornata nei teatri di tutto il mondo – e la Decca le ha dedicato una collana di dischi. In Italia, non solamente le due principali opere di Berg sono sempre state presenti nei cartelloni, ma da un paio di lustri si ascoltano e si vedono anche drammi in musica di Korngold, Krenek, Schreker, Schömberg, e Zemlisky, con successo di pubblico, oltre che di critica.

Il solo che mancava sino ad ora all’appello era “Die Geizeichneten” non tanto per l’argomento scabrosamente esplicito quanto per il complesso impegno produttivo. Tuttavia, c’è anche una “Entartete Musik” italiana che è rimasta “bollata” per decenni dall’accusa di essere “musica fascista”. Benito Mussolini, violinista dilettante (di pessima qualità), aveva un notevole interesse nella musica, e nella politica musicale, ed era appassionato di lirica. Considerava l’opera come espressione di italianità con un forte appello popolare.


In effetti, nel Ventennio, nonostante l’avanzata del cinema come forma di spettacolo, la lirica era ancora di grande richiamo. Nascevano gli enti lirico-sinfonici e i teatri “di tradizione”, sovvenzionati in varia misura dallo Stato; tutte le città, anche le più piccole, avevano stagioni d’opera; la mano pubblica sosteneva artisticamente i palcoscenici di provincia con iniziative itineranti , quali il “carro di Tespi”.


Il Governo (Mussolini trattava in prima persona molte di queste questioni) doveva barcamenarsi tra due scuole contrapposte: i tradizionalisti (Mascagni, Cilea, Giordano, Montemezzi) e gli innovatori (Casella, Malipiero, Pizzetti, Dallapiccola, Russolo, Pratella). Con rare eccezioni (quali le opere più popolari di Mascagni, Cilea e Giordano), tutti i loro titoli sono spariti dai nostri cartelloni, mentre alcuni (si pensi a “L’amore dei tre Re” di Italo Montemezzi e “I capricci di Callot” di Gian Francesco Malipiero) sono nella programmazione ordinaria dei maggiori teatri americani, tedeschi e britannici.


Come sempre, l’ideologia ammazza la ragione. E la “grande stampa d’informazione” (o presunta tale) nasconde le belle notizie: grazie agli sforzi dell’Orchestra Sinfonica di Roma e del suo creatore e direttore, Francesco La Vecchia, “la musica degenerata” italiana sta uscendo dall’oblio. L’Orchestra Sinfonica di Roma – lo si sappia – è l’unico complesso musicale italiano che non riceve alcuna sovvenzione pubblica. Vive con un contributo della Fondazione Roma e l’apporto di un’associazione di appassionati. Pratica prezzi bassi: per 30 concerti, l’abbonamento è 300 euro che diventano 180 per gli anziani e 100 per gli studenti. Ha un organico stabile di 80 professori d’orchestra, in gran misura attorno ai 35 anni di età. Ha svolto tournée in tutto il mondo.

Nei dieci anni circa di attività ha svolto anche un’attività sociale: oltre 200 concerti in istituti di detenzione e pena, centri di recupero di tossicodipendenti, scuole di periferia. Ha appena inaugurato una sede nuova a Via dei Cerchi 89, di fronte al Circo Massimo (in locali che sono pertinenza della Chiesa di Santa Anastasia) e da alcuni anni si è data la missione di fare uscire dall’oblio la grande sinfonica italiana della prima metà del Novecento. La offre nella stagione dell’Auditorium di Via della Concilia e la registra con una grande casa discografica internazionale (la Naxos).

Non ha i mezzi per affrontare la lirica “obliata”, speriamo che lo facciano La Scala, La Fenice e il Teatro dell’Opera di Roma – i tre teatri maggiormente sovvenzionati dallo Stato. La prossima stagione (annunciata il 24 settembre) pone l’accento sulla grande sinfonica italiana del Novecento (Casella, Sgambati, Respighi, Ghedini, Mancinelli, Catalani, Martucci, Petrassi) affiancati al grande repertorio. Pubblicata l’integrale di Martucci, stanno ora per uscire quelle di Casella e Respighi.


Nei prossimi cinque anni arriveranno gli altri. Si tratta di musicisti di cultura romana, anche se non sempre nati a Roma. Sorge una domanda: perché un compito simile non viene svolto dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia che riceve circa 50 milioni di euro di sovvenzioni l’anno?
E una seconda: perché La Scala, La Fenice e il Teatro dell’Opera di Roma non si danno il compito di fare rivivere l’opera italiana “obliata” della prima metà del Novecento? Con quel che costano al contribuente un pensierino a riguardo dovrebbero farlo.

LA CRESCITA COLBERTIANA E QUELLA LIBERALE Il Riformista 30 settembre

I LIBRI DEI MINISTRI- PAOLO ROMANI
LA CRESCITA COLBERTIANA E QUELLA LIBERALE
Giuseppe Pennisi
Tutti pare che vogliano mettere bocca sul “programma di crescita”, essenziale non solo per fare ripartire l’economia ma soprattutto per evitare che gli effetti della “manovra di Ferragosto” siano troppo pesanti in termini di produzione, occupazione e reddito. In un ultima analisi, sarà il Ministro per lo Sviluppo Economico, Paolo Romani, a dover mettere il suggello sul programma “sviluppo” (anche se altri ritengono, a ragione o a torto, che sia affar loro). Tra i tanti testi, tre sono particolarmente importanti per cercare ispirazione in questo complesso e delicato incarico.
Il primo è un lavoro di Dan Ciuriak , un economista canadese che si è fatto un nome per avere previsto i guai dell’eurozona. Nel suo ultimo lavoro, “The Return of Industrial Policy” analizza, in base a dati Banca Mondiale, Ocse e Unctad come le “politiche industriali” stiano tornando di moda, come si suggerisce anche dalle parti più colbertiane di Via XX Settembre: individuare “campioni nazionali” (attuali e potenziali), puntare su di essi (anche pilotando il gioco del libero mercato), e farli diventare “campioni internazionali”. Per chi non lo ricorda Jean-Baptiste Colbert fu il Ministro di Luigi XIV che non scrisse un solo articolo ma in migliaia di decreti diede corpo all’intervento pubblico per pilotare l’economia.
Tuttavia un lavoro fresco di stampa del Cambridge Center for Business Research (Working Paper n. 422) Suzanne Konzelmann del Birkbek College e Marc Fovarque-Davies della Università di Londra, contrappongono che il capitalismo occidentale non è affatto in crisi: E’ in acque incerte il suo travisamento da parte di keynesiani e neo-keynesiani a cui attribuire gran parte della responsabilità delle difficoltà attuali inve compresa la crisi del debito sovrano.
Il testo che più sta appassionando il Ministro è un libro di S.A.S Hans-Adam II, Principe Regnante del Liechtenstein : circa 250 pagine , appena pubblicate in italiano nella collana “mercato, diritto e libertà” dell’Istituto Bruno Leoni. Il volume – “Lo Stato nel Terzo Millennio”- contiene un vero e proprio programma di sviluppo economico nell’era della globalizzazione scritto da un cattolicissimo Principe di un cattolicissimo Principato (i cui 34.000 abitanti sono tra i più floridi del mondo). Contiene anche un’appendice con una bozza di Carta Costituzionale per favorire la crescita ed il benessere di tutti (da adattarsi alle situazioni specifiche dei singoli Paesi). Il libro da un breve sguardo al passato anche alle riforme costituzionali attuate nel Principato ed al ruolo della Fede nello sviluppo (argomento, si sa, molto di moda alla Banca mondiale e da qualche settimana pure al Fondo monetario). Tratteggia, poi, politiche, strategie e programmi per l’istruzione, i trasporti, la finanza pubblica e gli altri compiti dello Stato, una mappa , o meglio, un “baedeker” libera-liberista che farebbe la gioia di Antonio Martino e rassomiglia molto al programma con cui l’attuale Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi si presentò agli elettori nel 1994. E’ roba vecchia? O roba nuova, visto che è stata programmata ma mai attuata? E come la prenderanno i colbertiani di Via XX Settembre?
Un tempo i vari Statarelli di cui era composta l’”espressione geografica chiamata Italia” si rivolgevano a Stati stranieri per mettere ordine. Adesso, si è pensato che questo ruolo potesse essere svolto dall’Unione Europea e dall’eurozona. Forse, data la situazione, un “Principe Regnante” può essere più efficace.

PER RISCRIVERE MAASTRICHT OCCORRE DECIDERE PRESTO SU BANKITALIA Il Velino 29 settembre

PER RISCRIVERE MAASTRICHT OCCORRE DECIDERE PRESTO SU BANKITALIA
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Stampa l'articolo Roma - La mattina del 28 settembre, a Francoforte, è stato diramato un documento di cui nessuno pare essersi accorto in Italia: L’”Occasional Paper” n. 129 della Banca centrale europea su “crisi e riforma” del “patto di crescita e stabilità”. Lo firmano Ludger Schuknecht, Philippe Mouton, Philipp Rother e Junger Stark- tutti della Bce (tranne Stark appena dimessosi). Il documento scrive testualmente che “la crisi del debito sovrano è un sintomo del fallimento delle politiche economiche e del loro coordinamento. I primi nove anni dell’euro non sono stati utilizzati in modo efficace per migliorare la situazione della finanza pubblica, mentre il patto di crescita e stabilità veniva in pratica indebolito”. "E’ urgente – questa è la conclusione - rimettere mano ai trattati di base”. In un libro che sta per uscire, uno dei “padri” del Trattato di Maastricht Paul de Grawe parla della fragilità dell’eurozona così come concepita. Il più influente degli economisti tedeschi, Hans-Werner Sinn suggerisce che la Grecia stacchi l’ancora e torni alla dracma. In seguito, lo dovrebbero fare altri Stati (tra cui forse l’Italia). Altri danno la moneta unica per defunta: da ultimi due dei più noti economisti della Finlandia (Mart Sorg) e dell’Estonia (Nadezhda Ivanova)- Paesi che non hanno problemi seri di finanza pubblica. Il ragionamento loro (e di altri, soprattutto di quelli, anche europei, residenti negli Usa) è che molti Stati imbarcatisi sulla via di Eurolandia non hanno metabolizzato quanto profonde fossero le prassi che i loro cittadini, le loro imprese, le loro pubbliche amministrazioni (ed i loro stessi Governi) avrebbero dovuto cambiare. Società abituate a raffazzonare i propri affari, ed a risolverli di tanto in tanto deprezzando il cambio, si trovano con il cappio al collo.

Un economista francese, André Cabannes, ha lanciato la proposta di un sistema duale: Grecia, Francia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna utilizzino le loro “vecchie” monete (dracme, franchi, lire, sterline, scudi, peseta) per le transazioni interne e l’euro per quelle europee ed internazionali, come avveniva nell’unione monetaria latina che è durata dal 1866 al 1927, una buona prova di resistenza; le Banche centrali nazionali gestirebbero la liquidità delle monete nazionali, la Bce quella a livello di euro; gli aggiustamenti sarebbero più facili e più visibili ed incentiverebbero a migliorare produttività e competitività. Cabannes viene dal mitico Polytechnique, è stato uno dei leader del Boston Consulting Group ed ora è Presidente ed amministratore delegato di Axtel, uno dei maggiori gruppi europei di consulenza. E’ una voce ascoltata nel mondo della finanza e da alcuni Governi. In questo quadro, cosa fa l’Italia: mette in bella mostra una lite sulla successione al Governatore dell’istituto d’emissione (sul punto di assumere la guida della Bce). Una lite che è sulla stampa di tutta Europa e che ci squalifica tutti, indebolendoci nel grande negoziato alle porte. Non sta certo a noi di discettare sui meriti di questo o di quel candidato. Ciascuno svolga il proprio ruolo. E la finisca oggi stesso. Per il bene comune di tutti gli italiani.(Giuseppe Pennisi) 29 Settembre 2011 10:03

mercoledì 28 settembre 2011

LA PROPOSTA DELLA UE PUÒ FRENARE LA SPECULAZIONE Avvenire 29 settembre

LA PROPOSTA DELLA UE PUÒ FRENARE LA SPECULAZIONE

Tassiamo le transazioni a rischio Senza attendere tre anni

GIUSEPPE PENNISI

I l presidente della Commissione europea ha presentato una serie di proposte di regolamentazione e tassazione delle transazioni finanziarie, che dovrebbero frenare movimenti di capitale speculativi e generare un gettito a regime di circa 55 miliardi euro l’anno, dal 2014 o giù di lì. Le proposte prevedono aliquote basse, ma una tassazione estesa a una vasta gamma di operazioni sul mercato 'secondario' con oneri crescenti a mano a mano che aumenta la complessità (e la probabile minore trasparenza, quindi il rischio) del titolo trattato. Viene escluso il mercato 'primario', essenzialmente quello dei titoli di Stato, per non penalizzare, anzi favorire, le aste dei vari ministeri del Tesoro dell’Unione Europea e, un domani, l’eventuale collocamento di 'eurobond', se mai avranno vita.

La proposta comporta un giudizio di merito sulla sostanza, una valutazione del modo di comunicarla e un’analisi delle possibili modalità per darle realmente corpo. Quanto alla sostanza, i movimenti di capitali a breve sono stati una delle determinanti della crisi finanziaria ed economica in corso. Lo furono già ai tempi della 'crisi asiatica', come documentato dalla saggistica del premio Nobel Joseph Stiglitz che, in polemica proprio su questo punto con il Fondo monetario internazionale, lasciò la vice presidenza della Banca mondiale. Nella crisi iniziata dal 2007, poi, hanno colpito alcuni Paesi europei sia dell’eurozona, come l’Irlanda, sia non appartenenti al club dell’euro come l’Ungheria. Una regolamentazione – la tassazione non è che la punta dell’iceberg di nuove regole – appare, quindi, utile e necessaria.

È errato, però, parlare di 'Tobin Tax'. James B. Tobin, consigliere economico di John F. Kennedy, infatti, definì i limiti della sua proposta già nel 1972, nel pieno della 'crisi asiatica', precisando che l’imposta aveva unicamente l’obiettivo di frenare movimenti di capitale a breve, che avrebbero potuto causare fluttuazioni troppo forti del mercato dei cambi e che non si sarebbe trattato di un’imposta internazionale ma di una misura che avrebbero potuto prendere unilateralmente i singoli Paesi che si sentissero minacciati da flussi e deflussi di capitali a breve.

Tobin precisò anche che è difficile distinguere tra movimenti a breve, medio e lungo termine, con il rischio di penalizzare potenziali investimenti diretti verso Paesi o aree (come il nostro Sud) in sviluppo. In effetti, l’attuale proposta della Commissione Europea ha poco a che vedere con la 'Tobin Tax' e definirla così potrebbe far innalzare una vera e propria muraglia di opposizioni. La parte tributaria potrebbe invece essere chiamata 'tassa sul rischio': chi intende assumersi rischi tali da mettere a repentaglio la stabilità finanziaria (e quindi il benessere della collettività), dovrà pagare una piccola imposta.

C’è, infine, il problema della realizzazione e dei tempi di attuazione.

Volendo uscire dall’ambito dei meri auspici, occorre chiedersi se non sia utilizzabile un metodo più semplice rispetto a quello dell’adozione di un nuovo trattato con 27 ratifiche in altrettanti Paesi dell’Unione. Si potrebbe, ad esempio, affidare l’elaborazione di un regolamento all’Autorità europea per la sorveglianza del mercato dei valori mobiliari (l’European Securities and Markets Authority). L’Esma è stata creata proprio con queste finalità ed è bene che venga messa alla prova. Il regolamento potrebbe poi essere recepito più facilmente nelle normative nazionali secondo le procedure ordinarie. Anche prima del 2014, per evitare di chiudere il recinto quando i buoi sono scappati da tempo.

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LA SINFONICA OBLIATA ESCE FINALMENTE DAL SILENZIO Il Riformista 29 settembre

LA SINFONICA OBLIATA ESCE FINALMENTE DAL SILENZIO
Beckmesser


In Italia, la musica “colta” dal Settecento alla prima parte del Novecento è di solito associata con la lirica, mentre si dimentica che, da fine Ottocento a metà Novecento abbiamo avuto un grande stagione di musica sinfonica , ancora eseguita frequentemente all’estero ma coperta da una corte di oblio in Patria. Per quale motivo? Montemezzi. Casella, Malipiero, Pizzetti, Dallapiccola, Russolo, Pratella, Sgambati, , Ghedini, Mancinelli, Catalani, Martucci. vengono considerati, a torto più che a ragione come espressione di un periodo che si vuole dimenticare. Uniche eccezioni: Petrassi e Respighi . Si tratta di compositori accusati, senza ragione, di essere stati fascisti mentre ad esempio Dallapicolla è stato uno dei 35 professori universitari che rinunciò alla cattedra all’avvento delle leggi razziali. L’unico certamente attivo nel PNF è stato, Puccini (tessera n.2 del partito a Viareggio) ma solo per pochi anni perché lo porto via la morte.
Si giunge al paradosso che mentre è stata riabilitata non solo la “Entartete Musik”(musica considerata “degenerata” dai nazisti) tedesca ma anche quella dello stesso compositore di corte di Hitler (Carl Orff), la musica italiana dello stesso periodo colpita dalla damnatiomemoriae viene eseguita e rappresentata più all’estero che in Italia.
Grazie, però, agli sforzi dell’Orchestra Sinfonica di Roma e del suo creatore e direttore , Francesco La Vecchia, “la sinfonica obliata” italiana sta uscendo dal silenzio . L’Orchestra Sinfonica di Roma è l’unico complesso musicale italiano che non riceve alcuna sovvenzione pubblica. Vive con un contributo della Fondazione Romana e l’apporto di un’associazione di appassionati. Pratica prezzi bassi: per 30 concerti, l’abbonamento è 300 euro che diventano 180 per gli anziani e 100 per gli studenti. Ha un organico stabile di 80 professori d’orchestra , in gran misura attorno ai 35 anni di età. Ha svolto tournée in tutto il mondo. Nei dieci anni circa di attività ha s volto anche un’attività sociale: oltre 200 concerti in istituti di detenzione e pena, centri di recupero di tossicodipendenti, scuole di periferia.
Ha appena inaugurato una sede nuova a Via dei Cerchi. Da alcuni anni si è data la missione di fare uscire dall’oblio la grande sinfonica italiana della prima metà del Novecento. La offre nella stagione dell’Auditorium di Via della Concilia e la registra con una grande casa discografica internazionale (la Naxos). Non ha i mezzi per affrontare la lirica “obliata”, speriamo che lo facciano La Scala, La Fenice ed il Teatro dell’Opera di Roma. La prossima stagione (annunciata il 24 settembre) pone l’accento sulla grande sinfonica italiana del Novecento (Casella, Sgambati, Respighi, Ghedini, Mancinelli, Catalani, Martucci, Petrassi) affiancati al grande repertorio. Pubblicata l’integrale di Martucci , stanno ora per uscire quelle di Casella e Respighi. Nei prossimi cinque anni arriveranno gli altri. Si tratta di musicisti di cultura romana , anche se non sempre nati a Roma.

martedì 27 settembre 2011

L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELLA MANOVRA in "Charta" settembre ottobre

L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELLA MANOVRA
Giuseppe Pennisi
Premessa Al momento in cui vengono scritte queste note, la “manovra di Ferragosto” – termine giornalistico per indicare il Decreto Legge No. 138 del 13 agosto 2011- è stata appena varata dal Senato . Dopo alcune profonde modifiche proposte al suo testo dal Governo (relativamente al “contributo di solidarietà” ed una sere di ritocchi alla normativa previdenziale, ed un aumento dell’Iva) si è ad una stesura in cui i conti della manovra di stabilizzazione finanziaria tornerebbero in buona misura grazie all’inasprimento delle sanzioni contro l’evasione fiscale (quali le “manette agli evasori” della “lite tra comari”- Andreatta e Formica- del 1983 che portò nella tomba il primo Governo Spadolini) ed a nuove forme di accertamento (che renderebbe i Comuni corresponsabili).. Poche modifiche invece al capitolo della manovra diretto alla crescita, essenzialmente revisioni della normativa sulla contrattazione collettiva ed aziendale ed un accelerato programma di liberalizzazioni e privatizzazioni. Anche le modifiche al testo predisposto in agosto rappresentano dei passi indietro , specialmente in materia di liberalizzazioni degli orari dei negozi e di concorrenza in servizi di pubblica utilità come i taxi, gli autonoleggi e le ferrovie.
E’ difficile dire se la quadra si è davvero fatta, ossia se la manovra sarà effettivamente di 45,5 miliardi di euro. La prima considerazione riguarda le misure anti-evasione; ammesso che il Garante della Privacy non si metta di traverso (come già avvenuto in passato) nei confronti della pubblicazione on line della dichiarazione dei redditi (strumento che potrebbe pure essere utilizzato a fini criminosi), occorre ricordare che la riduzione dell’area di evasione riscontrata all’inizio di questo decennio – fanno fede a riguardo le analisi di Axel Dreher and Friedrich Schneider, ambedue distinti e distante dalle nostre beghe – è stata in gran misura il frutto delle misure varate nel 1991dall’ultimo Governo Andreotti. Sono stati necessari dieci anni perché da norma diventasse prassi di tutti i soggetti coinvolti. Molto verosimilmente , la misure annunciate il primo settembre dal Ministro dell’Economia e delle Finanze avranno effetti positivi in tempi più brevi anche in quanto operano su un’area di evasione relativamente più ristretta di quella del 1991. Tuttavia, è lecito pensare ad un eccesso di ottimismo, ove non ad un pio desiderio, se si progetta di effettuare in pochi mesi, ove non poche settimane, un lavoro analogo a quello che in un passato non molto lontano ha richiesto dieci anni. Inoltre, è probabile che si apra un’altra falla sulla costituzionalità del “contributo di solidarietà” da applicare a lavoratori della pubblica amministrazione (tra cui i magistrati che in materia la sanno lunga) ed ai pensionati ma non all’impiego privato ed agli autonomi i cui redditi dichiarati superino i 300.000 euro l’anno.
L’aumento dell’Iva rischia di essere una “tigre di carta”: dovrebbe coprire non uno ma due buchi e sarebbe tale da aggravare il calo dei consumi già in atto e di farci scivolare in recessione (come peraltro prevede il Fondo monetario) e già solo per questo motivo di gettito effettivo inferiore a quanto stimato sulla base di ipotesi di crescita più sostenuta del Pil. La manovra, quindi, resta “insostenibile” per pochi (statali, pensionati e soprattutto le famiglie monoreddito) ma rischia di essere troppo “leggera” per centrare l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013; anzi frenando ulteriormente il Pil causerebbe un aumento del rapporto tra stock di debito e reddito nazionale, indicatore molto attenzionato dai mercati internazionali. Soprattutto, anche ove si giungesse al pareggio di bilancio , i nodi strutturali della finanza pubblica e dell’economia immutati resterebbero sostanzialmente immutati.
Vale, però, chiedersi se “non fare la quadra” nella realtà effettuale delle cose è davvero un danno per gli italiani? Senza dubbio, la Commissione Europea minaccerebbe sculacciate (e le darebbe pure), la Banca centrale europea non tenderebbe la mano alle aste di titoli di Stato, varie opposizioni strillerebbero accusando Esecutivo e Parlamento di incompetenza. Forse, però, il detonatore sarebbe tale da rendere la manovra meno recessiva e tale da porre al centro del dibattito economico, sociale e politico la questione di fondo: entrati nell’euro per il rotto della cuffia lanciando le accuse peggiori a tutti coloro che esprimevano perplessità sulla nostra capacità di rispettare le regole e soprattutto di aumentare produttività e competitività, a dodici anni dall’essere stati ammessi nel consesso possiamo dire in coscienza di avere modificato i nostri comportamenti – intendo i comportamenti di individui, famiglie, imprese, pubblica amministrazione, politica – in modo da averli adattarli rapidamente a quelli dei Paesi migliori dell’unione monetaria? Se lo avessimo fatto, non ci troveremmo nel pasticcio in cui siamo pasticcio e dal 1999, ad esempio, i nostri prezzi alla produzione non sarebbero cresciuti ad un tasso quasi doppio di quello della Germania.
Da questa prima domanda, ne nasce una seconda: siamo pronti a modificarli adesso? E di quanto tempo abbiamo esigenza per la transizione? E quale “manovre” dovremmo fare per facilitare la transizione- Per quanto tempo, gli altri soci del club saranno pronti a sopportare un componente del sodalizio che mette le mani nel piatto nelle cene di gala e, dopo una partita a tennis (in cui ha perso), si distingue per le battute oscene negli spogliatoi?
L’insostenibile leggerezza della manovra risiede in questi punti di fondo. La Commissione Europea ci ha mandato una missiva che assomiglia alla lettera scarlatta del romanzo di Nathaniel Hawthorne: un memento che poco o nulla facciamo per la crescita. In mondo in cui tutti corrono- dice la Regina di Picche ad Alice nel Paese delle Meraviglie – restiamo immobili se individui, famiglie, imprese, pubblica amministrazione e politica si sono abituati ad andare al passo e non vogliono o non possono essere più veloci.
Questa nota , quindi, cerca di andare oltre gli aspetti quasi cronachistici della “manovra di Ferragosto”. Ricordando che diversi altri Paesi dell’area dell’euro sono alle prese con difficoltà analoghe situa i nodi dell’Italia in quelli più vasti dell’unione monetaria nella convinzione che solamente una revisione delle sue regole può essere la premessa per una crescita sostenuta ed inclusiva del continente.
Una crisi dell’area dell’euro Si usa affermare che la crisi del debito dell’eurozona e le manovre di finanza pubblica messe in atto per tamponarla hanno numerosi punti in comune con la situazione dell’estate- autunno del 1992. Allora, l’unione monetaria europea era in prospettiva, ma i mercati non avevano fiducia nel fatto che alcuni potenzia¬li Stati membri (Italia in prima linea) ce l’avrebbero fatta a mantenere gli impegni solennemente sottoscritti nel Trattato di Maastricht. Pure se ci sono analogie con la crisi del 1992, il parallelo più calzante è quello con la fase che precedette la fine dell’area della sterlina dopo la svalutazione della moneta di Sua Maestà bri¬tannica, il 18 novembre 1967. In quel caso non ci fu un tracollo, con azzeramento dei pertinenti accordi, ma uno smottamento progressivo sino alla fine del 1972. Il contesto internazionale era ben diverso dall’attuale. Nata all’inizio della seconda guerra mondiale (la sterlina aveva perso dopo la prima guerra mondiale lo status di principale valuta per gli scambi internazionali), la «zona della sterlina» consisteva in una serie di accordi diretti a definire un sistema uniforme di controlli valutari (verso il resto del mondo) e di assicurare al proprio interno l’utilizzazione della sterlina come moneta dei vari Paesi ad essa aderenti, oppure cambi fissi tra monete nazionali (da utilizzarsi all’in¬terno di ciascun Paese) e la sterlina. Circa 80 Paesi tra grandi – come Canada e Australia – e piccoli – ad esempio le Seychelles – ne fecero parte al momento del suo maggior fulgore in base a nor¬mative uniformi. Attenzione attualmente circa 65 Paesi fanno parte dell’area dell’euro pur se soltanto 17 “soci” hanno voce in capitolo; gli altri sono “micro-Stati” (come San Marino ed il Principato di Monaco oppure il Montenegro) che hanno adottato l’euro unilateralmente, gli altri sono Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico associati all’Unione Europe e con legami monetari e finanziari speciali con alcuni membri del club dell’euro (segnatamente la Francia e l’Olanda), altri ancora (la stessa Federazione Svizzera) utilizzando l’euro come seconda moneta accanto a quella nazionale. L’analogia, quindi, è calzante.
Nell’area della sterlina, le compensazioni dei saldi delle bilance dei pagamenti diventarono compito della Bank of England, dove le sterling balances venivano depositate. Non così nell’eurozona dove invece – come dimostrato di recente da uno studio di Francesco Giavazzi e Luigi Spaventa “Why the Current Account Matters in a Monetary Union: Lessons from the Financial Crisis in the Euro Area,” pubblicato lo scorso settembre come CEPR Discussion Paper no.8008. - si è vissuti per 12 anni nell’illusione che i saldi all’interno dell’area si compensassero automaticamente , e che la riduzione dei tassi d’interesse fosse caratteristica permanente (o almeno di lungo periodo) dell’unione monetaria, ciò ha comportato forti disavanzi per la Grecia, l’Irlanda, la Spagna ed il Portogallo che (anche ove non ci fosse stata una crisi finanziaria internazionale in corso dal 2007) ha comportato una crescita molto forte del credito totale interno utilizzato per finanziarie investimenti a bassa produttività e aumento vertiginoso del debito pubblico.
Torniamo alla crisi, e dissoluzione, dell’area della sterlina. La Gran Bretagna uscì dalla seconda guerra mondiale con uno stock di debito pari al 250% circa del Pil; ne seguì nel 1949 una svalutazione del 30% circa del cambio della sterlina nei confronti del dollaro, concertata con il resto della zona, utilizzando anche i buoni uffici del Fondo monetario. Il quadro cambiò negli Anni Sessanta: non tanto perché i vari Paesi prendevano strade differenti (pure in ragione dei diversissimi livelli di sviluppo), ma in quanto le politiche interne britanniche (i laburisti guidavano la macchina) comportavano crescenti disavanzi della bilancia dei pagamenti in una fase di trasformazione del mercato internazionale (sorgeva l’euro¬dollaro, il primo mercato internazionale – dal 1929- autoregolamentato e non gestito collegialmente tramite il Fondo monetario). Da un lato, Londra diventò il principale cliente del Fondo mone¬tario. Dall’altro – ricorda un acuto saggio di Ben Clift – dal confronto con¬tinuo ed intenso con i governi laburisti, il Fondo (nato keynesiano) diventò neo-liberale. Dato che le risorse ordinarie del Fmi non sembravano adeguate a soddisfare l’esigenza di parare il disavanzo britannico (ed americano – aumentavano le spese per la guerra in Viet-Nam) e assicurare liquidità per la crescita mondiale, nel settembre 1967 l’assemblea del Fondo monetario internazionale approvò la modifica degli statuti per varare i «diritti speciali di prelievo», i DPS, le cui pri¬me emissioni avvennero nel 1969.

Il 18 novembre 1967 (ero studente negli Usa) il professor Randall Hinshaw (ex Sotto¬segretario al Tesoro Usa oltre che noto teorico di economica monetaria), non arrivò a lezione con la solita puntualità e aspetto apollineo, ma trafelato.Non esistevano telefonini. Aveva appena ricevuto una telefonata dalla moglie e ci disse agitatis¬simo: «They finally did it! (alla fine lo hanno fatto!, ndr ) »: la Gran Bretagna aveva svaluta¬to del 14% la sterlina senza consultarsi con il resto della zona. Chi aveva saldi attivi presso la Bank of England prese una bella botta. Iniziò lo smottamento.

I paralleli sono molteplici: la nascita di mercati e strumenti non regolamentati (l’eurodollaro); i DPS hanno punti in comune con gli «eurobond» di cui si parla oggi; i tentativi di tam¬ponare falle (senza cambiare politiche economiche); il pericolo di smotta¬mento per rivalutazione o svalutazione non concordata di alcuni soci. Per questo è urgente definire un percorso che eviti che la situazione si ripeta. Negli anni Sessanta, mentre montava quella che sarebbe stata la crisi della zona della sterlina, all’osteria 'Da Mario' in Via di San Vitale di Bologna (400 lire a pasto, primo, secondo, frutta ed acqua del ru¬binetto, vini a parte), all’ora di colazione, si incrociava spesso l’allora giovane (oggi Premio Nobel) Robert Mundell (docente alla Johns Hopkins University) a pranzo con alcuni stu¬denti: il Lambrusco, di cui era ghiotto, lo pagava lui (e lo tracannava quasi tutto lui). In una di quelle colazioni, su un tova¬gliolo di carta tracciò le due e¬quazioni essenziali del teore¬ma dell’area valutaria ottimale che a 29 anni gli aveva dato fama e il finanziamento Fullbright per insegnare a Bologna e apprezzare l’Italia (passa gran parte dell’anno in un suo po¬dere del Chianti). Quel tovagliolo, ove esistesse ancora, dovrebbe essere meditato da tutti coloro che desiderano impedire che l’unione monetaria si dissolva e l’euro venga ricordato nei libri di storia dei nostri nipoti come il 'milite ignoto' dell’integrazione europea. Mundell spiegava che le due equazioni volevano dire 'effettiva' mobilità dei fattori di produzione, delle merci e dei servizi (da distinguersi da 'libertà di circolazione') non per uno sghiribizzo teorico per giungere al grado più alto di un’inte¬grazione economica (la moneta unica), ma perché solo con convergenza di produttività e competitività l’unione monetaria può funzionare.
Oggi tornare a quel paio d’equazioni può evitare una dissoluzione dell’unione monetaria analoga a quella della 'zona della sterlina' non tanto a ragione del disavanzo dei conti con l’estero del Paese chiave, ma per l’acuirsi dei divari di produttività e competitività. In alcuni Paesi (tra cui l’Italia) la produttività non aumenta da dieci anni. In altri corre poiché è stata metabolizzata l’irreversibilità dell’accresciuta concorrenza innescata dall’euro. Il Paese-chiave, la Germania, ha affrontato dieci anni di sacrifici per mettersi al passo con la nuova situazione, ma non è sufficientemente grande da potere curare i mali dell’intero continente.
Mentre ci si gingilla con nuovi strumenti di convergenza di finanza pubblica, per salvare il 'soldato semplice euro' occorre affiancarli con strumenti di economia reale tali da pro¬muovere la convergenza di pro¬duttività e competitività e offrire a chi non è in grado di farlo una via d’uscita che non com¬porti un trauma per l’Unione Europea e per i Paesi in ritardo. In questa ottica anche gli 'eurobond' dovrebbero essere visti come veicolo di sviluppo e non di tamponamento di falle. Si potrebbe pensare a un percorso decennale a tappe con indicatori di produttività e competitività (analogo al percorso di convergenza finanziaria del Trattato di Maastricht) . Chi dopo venti anni dal varo dell’euro e trenta dalla firma di Maastricht, non può (o non vuole) convergere in termini di pro¬duttività e competitività, può trovare alloggio nello «SME2» con misure fatte su misura per le sue circostanze (la Danimarca ha un tasso di fluttuazione del 2,5% rispetto all’euro, la Gran Bretagna del 30%).
Non c’è tempo da perdere. Il più noto economista tedesco Hans- Werner Sinn suggerisce che la Grecia stacchi l’ancora e torni alla dracma; in seguito, a suo parere, lo dovrebbero fare altri Stati (tra cui forse l’Italia). L’economista André Cabannes ha lanciato addirittura la proposta di un sistema duale: Grecia, Francia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna utilizzino le loro 'vecchie' monete (dracme, franchi, lire, sterline, scudi, peseta) per le transazioni interne e l’euro per quelle europee ed internazionali, come avveniva nell’unione monetaria latina che è durata dal 1866 al 1927 (e nella 'zona della sterlina' co¬me ricordato da Avvenire del 25 agosto). Le Banche centrali nazionali gestirebbero la liquidità delle monete nazionali, la Bce quella a livello di euro. Gli aggiustamenti, secondo l’economista, sarebbero più facili e più visibili e incentiverebbero a migliorare produttività e competitività.
Una “manovra” per restare nell’euro
Così come concepita la manovra ha l’obiettivo di far sì che l’Italia resti nell’euro: tagli alla spesa pubblica ed aumenti delle entrate per 45,5 miliardi di euro al fine di giungere al pareggio di bilancio nel 2013 ed aggredire lo stock di debito pubblico.
E’ prematuro entrare negli aspetti tecnici di contenuti ancora in discussione in Parlamento (nonostante si profili un dibattito accelerato alla Camera, al suo di voti di fiducia). Occorre, però, chiedersi che fine hanno fatto le norme per promuovere lo sviluppo, una serie di misure rivolte da un lato a una “grande riforma costituzionale” di lungo periodo (se le relative leggi costituzionali verranno approvate in tempo) e da un altro a ridurre spese e alimentare entrate aggiuntive nei prossimi esercizi di bilancio? La Nemesi storica fa sì che le ultime revisiono alla manovra (ossia il maxiemendamento) è stato licenziato proprio in parallelo con le notizie secondo cui le stime del Fondo monetario internazionale e dei 20 maggiori istituti econometrici stranieri hanno abbassato le prospettive di crescita reale per l’Italia nel resto del 2011 e nel 2012. Metà dei 20 istituti annunciano una nuova recessione. A maggior ragione sarebbe stato necessario un tonico, specialmente per affrontare quello che oggi è il maggiore problema economico, sociale e politico del Paese: la disoccupazione giovanile. La stessa Banca d’Italia ha documentato che la manovra potrà avere effetti restrittivi e potrà aggravare il fenomeno dei giovani senza lavoro.
C’è un silenzio assordante in materia. I comunicati quasi non trattano l’argomento. Si potrebbe pensare che le pallide misure per lo sviluppo inserite nel Decreto Legge No 138 dello scorso 13 agosto siano rimaste immutate. Dato che si metteva mano in modo cospicuo al suo testo questo sarebbe stato il momento per quello scatto che si attende da mesi. Si sarebbero potute includere quattro misure concrete: a) Un rilancio dell’investimento pubblico. Di recente, la Banca mondiale, il Fondo monetario e il maggior istituto tedesco di analisi economica hanno pubblicato analisi eloquenti sui nessi tra infrastrutture e sviluppo. Su questa base si sarebbero potuto prendere queste misure: b) chiudere le “contabilità speciali” considerate tesoretti privati di dicasteri e di singoli funzionari ed utilizzarne il ricavato per investimenti tali da aumentare produttività e competitività: c) chiedere alle autorità europee golden rule ed eurobonds finalizzati ai grandi investimenti; 4) aumentare il ruolo e la capacità di valutazione e verifica delle unità preposte a questo scopo al Ministero dello Sviluppo Economico, in Presidenza del Consiglio (Dipartimento Affari Regionali) e altrove. b) privatizzare la Rai (ormai ridotta a una lite continua, a un’azienda mangiasoldi e distinta e distante da ogni forma di servizio pubblico). Attenzione: lo si sarebbe potuto fare nel maxi-emendamento governativo presentato al Senato od in uno analogo da presentare alla Camera. Invece, come accennato in precedenza e come documentato da tre documenti dell’Istituto Bruno Leoni le liberalizzazioni sono state annacquate e manca una vera agenda di privatizzazioni.
Per restare nell’area di diretto controllo del Governo e della pubblica amministrazione, un segnale forte viene proprio dal gruppo di economisti (il CESifo) che lavora più strettamente con Angela Merkel: Pedro Bon e Jenny D. Ligthart della Università di Tilburg i quali hanno pubblicato, nel Working Paper n. 2011-092, un’analisi sui nessi tra le infrastrutture pubbliche, la dinamica dell’output e le regole di pareggio di bilancio. E’ uno studio in gran misura di teoria economica, ma il modello che ne risulta viene applicato ai Paesi Bassi ed alla Germani federale al fine di farne appropriate calibrazione. Contrariamente ai risultati convenzionali se si tiene conto che le infrastrutture beneficiano più generazioni (e generazioni che si sovrappongono le une sulle altre), misure che comportano il pareggio del bilancio hanno effetti negativi duraturi sul ciclo economico; di conseguenza, un appello implicito per la golden rule che esimi dai vincoli le principali opere pubbliche. Altrimenti si resterà molto prossimi a crescita zero, ed a disoccupazione in aumento.
A conclusioni analoghe arriva un lavoro condotta dalla Banca mondiale e della Banca centrale spagnola; ne sono autori Cesara Calderon e Luis Servant (ambedue della Banca mondiale) e Enrique Moral Benito del CEMFI, l’istituto di formazione della Banca di Spagna. E’ in uscita come Banco de Espana Working Paper n. 1103. Esamina il contributo alla crescita del Pil il 88 Paesi nel periodo 1960-2000 tramite avanzate tecniche econometriche. In estrema sintesi, l’elasticità di lungo periodo tra un indice sintetico della dotazione in infrastrutture e la crescita varia tra lo 0,07 per cento e lo 0,10 per cento. Non solo è positiva ma il dato è statisticamente “robusto” al variare delle specifiche della dinamica della crescita e del modo di misurare la dotazione in infrastrutture. Non solo ma nel lungo periodo i parametri non cambiano al mutare di gruppi di Paesi, di dimensione della loro popolazione e dei relativi di sviluppo. In breve, infrastrutture rendono. Lo si sa bene in Italia dove solamente i costi di un’inadeguata logistica pesano, secondo stime indipendenti, per 40 miliardi di euro l’anno (ossia l’equivalente di una maxi manovra).
A dirlo è anche il trinariciuto Fondo Monetario Internazionale del Working Paper No. 11 /37 curato da Annette J. Kojbe, Jim Brumby, Zac Mills. Era Dabla Norris e Chris Papageorgiu, una vera e propria squadra di specialisti: la loro analisi include 71 Paesi (di cui 40 in via di sviluppo) e costruisce un indice sintetico che può essere utilizzato a fini operativi non solo per individuare le priorità nelle infrastrutture da realizzare ma anche nelle riforme per massimizzare i benefici della loro attuazione. E’ in questo quadro si pone il dibattito sugli “eurobonds”.Da 40 anni il termine appare periodicamente, e in varie guise, nella galassia delle sigle europee. L’ultima versione, che ha sollevato una levata di scudi da parte di politici ed economisti tedeschi (ieri Kai Carstensen e Michael Huther lo hanno spiegato al Foglio), si riferisce a strumenti finanziari diretti a “socializzare”, all’interno dell’unione monetaria, nuove emissioni di debito pubblico. Anche la proposta di “EuroUnionBond” avanzata da Romano Prodi e Alberto Quadro Curzio sul Sole 24 Ore, come pure quella presentata nel 2010 dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti e dal presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker, ha come obiettivo primario la socializzazione del debito in un quadro di solidarietà e maggiore integrazione europea. La percezione di chi si oppone al progetto è che gli Eurobond comporterebbero così un aumento del costo del denaro pure ai paesi virtuosi e opererebbero come “sanatoria” per quelli più propensi al vizio. Non è detto che tale timore sia giustificato, ma in economia e finanza le percezioni sono più importanti della realtà; ergo, è stato eretto un vero e proprio muro contro la proposta. Senza Eurobond sarà però difficile attivare quel processo di crescita di cui tutta l’Eurozona ha esigenza non solo per ridurre lo stock del debito in rapporto al pil ma anche per contenere un tasso di disoccupazione che nell’area si aggira sul 10 per cento della forza lavoro e tende a crescere. Lo hanno documentato in un libro relativamente recente gli economisti italiani Carlo Favero e Alessandro Missale, e in un lavoro ancora più fresco tre economisti della Banca europea per gli onvestimenti (Bei), Rien Wagenvoort, Carlo de Nicola e Andreas Kappeler: in sintesi, da quando nel 2007 è iniziata la crisi finanziaria, tutti i principali paesi hanno decurtato i già magri stanziamenti per gli investimenti in infrastrutture. Solo in Italia, le carenze di infrastruttura logistica, prevalentemente nel centro nord, comportano un costo alla società di 40 miliardi di euro all’anno, di cui si sobbarcano principalmente le imprese. Il mercato dei capitali privati, però, è sufficientemente liquido per essere incanalato verso impieghi a lungo termine e gli Eurobond potrebbero essere un adeguato strumento per farlo.
Conclusioni (ovviamente preliminari)
Dopo l’ultima tormenta finanziaria che non accenna a placarsi, aumentano proposte intese a rivedere profondamente l’unione monetaria europea. Uno dei “padri” del Trattato di Maastricht Paul, de Grawe parla della fragilità dell’eurozona così come concepita. Il più influente degli economisti tedeschi, Hans- Werner Sinn suggerisce che la Grecia stacchi l’ancora e torni alla dracma. In seguito, lo dovrebbero fare altri Stati (tra cui forse l’Italia) . Altri danno la moneta unica per defunta: da ultimi due dei più noti della Finlandia (Mart Sorg) e dell’Estonia (Nadezhda Ivanova)- Paesi che non hanno problemi seri di finanza pubblica. Il ragionamento loro (e di altri, soprattutto di quelli, anche europei, residenti negli UsA) è che molti Stati imbarcatisi sulla via di Eurolandia non hanno metabolizzato quanto profonde fossero le prassi che i loro cittadini, le loro imprese, le loro pubbliche amministrazioni (ed i loro stessi Governi) avrebbero dovuto cambiare. Società abituate a raffazzonare i propri affari, ed a risolverli di tanto in tanto deprezzando il cambio, si trovano con il cappio al collo. Un economista francese, André Cabannes, ha lanciato la proposta di un sistema duale: Grecia, Francia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna utilizzino le loro “vecchie” monete (dracme, franchi, lire, sterline, scudi, peseta) per le transazioni interne e l’euro per quelle europee ed internazionali, come avveniva nell’unione monetaria latina che è durata dal 1866 al 1927, una buona prova di resistenza; le Banche centrali nazionali gestirebbero la liquidità delle monete nazionali, la Bce quella a livello di euro; gli aggiustamenti sarebbero più facili e più visibili ed incentiverebbero a migliorare produttività e competitività. Cabannes viene dal mitico Polytechnique, è stato uno dei leader del Boston Consulting Group ed ora è Presidente ed amministratore delegato di Axtel, uno dei maggiori gruppi europei di consulenza. E’ una voce ascoltata nel mondo della finanza e da alcuni Governi.
L’unione monetaria è profondamente cambiata rispetto a quanto previsto a Maastricht e scritto nei manuali universitari: aiuti a banche e a Tesori in difficoltà sono scarsamente compatibili con una moneta unica mentre sarebbero parte integrante in un sistema “alla Bretton Woods” di cambi, e di aggiustamenti delle bilance dei pagamenti, gestiti collegialmente.
Inoltre, circola da alcune settimane un saggio in uscita sul prossimo numero della Review of Financial Studies sulla volatilità dei mercati (e a chi rende) quando la “politica è precaria”. Ne sono autori Maria Boutchkova dell’Università di Leicester, Anthony Durnev dell’Università dello Iowa, Hitesch Doshi dell’Università McGill di Monréal e Alexander Molcanov della Massey University. In breve, una collaborazione intercontinentale per esaminare in che misura il rischio politico influenza la volatilità. Il messaggio è chiaro: quanto più un Paese è “aperto” - e l’Italia, grazie al Cielo lo è - più i suoi partner non si fanno infinocchiare da decreti e decretoni concepiti frettolosamente, cambiati varie volte e con alcune parti ad alta probabilità di essere impallinate nei Tribunali e dalla stessa Corte Costituzionale. Il decreto accentua l’incertezza politica: basta questo a scoraggiare i mercati.
In effetti, parte dei suoi contenuti sono l’opposto di quanto sostenuto, con preoccupazione, da Paul De Grauwe in “Governance of a Fragile Eurozone” pubblicato due settimane fa dal Center for European Policy Studies - e su cui si spera si sia meditato a Via Venti Settembre e non solo: non sono una serie di misure straordinarie a curare le falle dell’Eurozona, ma una convergenza verso l’alto di produttività e competitività (in materia, il decreto contiene soltanto lo spauracchio, difficilmente sostenibile in punta di diritto, di togliere la tredicesima a tutti i dipendenti di un’amministrazione che non attua i desiderati risparmi di bilancio, obiettivo che sarebbe più semplice raggiungere azzerando le “contabilità speciali” fuori bilancio dei dicasteri che le utilizzano - solo il Ministero per i beni e le attività culturali ne ha 324! - spesso per ragioni particolaristiche).
La fretta, inoltre, pare essere stata cattiva consigliera: nessuno sa come abolire le Province e come ridurre i Consiglieri Cnel nel lasso di tempo prescritto. Ne sortirà una “Gran Baraonda”, come quella della rivista omonima di Wanda Osiris e Renato Rascel. Ai mercati di solito le baraonde non piacciono.

IL "GIALLO" SI ADDICE A ELETTRA in IL Velino 27 settembre

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IL "GIALLO" SI ADDICE A ELETTRA

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Roma - “Elektra” di Hugo von Hoffmannsthal è di scena. A Vicenza si rappresenta la tragedia del 1903 traendola dalla tragedia di Sofocle; il lavoro, lanciato a Berlino da Gertrud Eysoldt, (la Duse tedesca dell’epoca) ebbe un immenso successo tanto che nel 1904 venne messa in scena da 22 teatri nel mondo di lingua germanica. Nonostante la splendida cornice del Palladio ha fatto arricciare il naso ai critici. È invece in arrivo a Roma la versione adattata (leggermente accorciata per adeguarla ai tempi della musica) come libretto per l'omonima opera di Richard Strauss, rappresentata nel 1909. La tragedia in musica in un atto di Strauss dura poco meno di due ore. Sono due ore di tensione assoluta. Il sovrintendente della Scala, Stéphane Lissner, ritiene “Elektra” la più bella opera del Novecento. È un prodigio, al tempo stesso, di complementarità e di contrasto tra il testo di Hofmannsthal e la partitura di Strauss; circolare il primo (con il proprio epicentro nel confronto-scontro tra Elettra e Clitennestra, interamente dedicato al significato del perdono); vettoriale il secondo sino all’orgia sonora in do maggiore del finale. È un delle opere di Strauss più note anche in Italia. Nel 2010 gareggiarono due edizioni in teatri “di tradizione”: una a Erl nel Tirolo, Piacenza, Modena e Ferrara e l’altra a Catania. Nel commentarle, ricordammo che quando il drammaturgo Eugene O’Neill nel 1931 adattò la tragedia greca Elettra in un drammone di nove ore ambientato ai tempi della Guerra di Secessione americana, decise di intitolare il lavoro “Il lutto si addice ad Elettra” a ragione del vasto numero di morti che costellavano le tre parti dell’opera. O’ Neill si basò sulla trilogia di Eschilo. Nel 1903, invece, Hugo von Hofmannsthal si basò sul testo di Sofocle

L’edizione che arriva al Teatro dell’Opera di Roma ha debuttato al Festival di Salisburgo del 2010 ed è ormai tra gli spettacoli più apprezzati allo Staatsoper di Vienna. Sia l’azione sia la musica hanno una struttura a ellisse; un’introduzione quasi contrappuntistica (il dialogo delle ancelle per preparare al monologo di Elettra) si snoda in una vasta parte centrale in cui il confronto tra Elettra e Clitennestra (colmo di disperazione proprio per il diniego del perdono da parte della prima) è inserito tra due altri confronti – quelli tra Elettra e Crisotemide (rispettivamente sul significato della vita e sul valore della vendetta); in tutta questa parte centrale si sovrappongono due tonalità musicali molto differenti per unificarsi dalla scena del ritorno di Oreste e del duplice assassinio e predisporre, quindi, il do maggiore della danza macabra finale. Occorre complimentare il Teatro dell’Opera per la sempre più intensa collaborazione con il Festival di Salisburgo.

Pareti di cemento sghembe, definiscono la scena, il regista è Nikolaus Lehnhoff. A partire dal successo di Salisburgo, Lehnhoff spiega le sue idee semplici ed efficaci sull’allestimento: "Elettra è ossessionata dall’idea di vendicare la morte del padre Agamennone". Unica ragione di vita della protagonista è assassinare la madre Clitennestra, colpevole di aver ucciso il padre. "Elettra – aggiunge Lehnhoff – vive nel passato, la sua schiavitù è questa idea fissa della vendetta; è la sua ragion d’essere. Elettra cerca di aderire all’identità del padre come ad una seconda pelle. L’opera si svolge in uno spazio prevalentemente occupato da Elettra, è un’interfaccia della sua ossessione. Lei si è imprigionata nella fortezza della sua mente, un luogo che è allo stesso tempo un rifugio ed una trappola". Una vicenda che non ha vie d’uscita al di fuori del circolo del crimine.


Sul podio, l’ungherese Stefan Soltesz - specialista nell'esecuzione delle opere di Strauss - alla direzione di un cast di interpreti di rilievo internazionale: Felicity Palmer (Klytämnestra), Eva Johansson (Elektra), Melanie Diener (Chrysothemis), Wolfgang Schmidt (Aegisth), Alejandro Marco-Buhrmester (Orest). Le scene sono di Raimund Bauer, i costumi di Andrea Schmidt-Futterer, le luci di Duane Schuler. Maestro del Coro Gea Garatti Ansini. Alla vigilia della prima c’è stato un piccolo giallo. La direzione musicale era stata affidata a Fabio Luisi, recentemente nominato “principal conductor“ (nomina avvenuta pochi giorni addietro, ma da mesi annunciata) al Met di New York e dovrà sostituire Levine, purtroppo da tempo ammalato. La rinuncia, annunciata a prove iniziate, ha messo in difficoltà il Teatro dell’Opera. Infatti non si trova facilmente un maestro concertatore e direttore d’orchestra che conosca l’opera di Hofmannsthal-Strauss a menadito. Un comportamento quanto meno poco elegante.


Avendo, però, ascoltato come Luisi ha concertato “Salome” di Strauss a Bologna non molto tempo fa, credo che nel cambio il Teatro dell’Opera ci abbia guadagnato. Stefan Soltesz, nato in Ungheria 62 anni fa, è considerato oggi uno dei più importanti interpreti delle opere di Strauss. Dopo gli studi di direzione d’orchestra con Hans Swarowsky ha diretto nei più prestigiosi teatri europei. Dal 1997 è direttore artistico del Teatro d’opera di Essen e dirige regolarmente al Teatro dell’Opera di Vienna, Monaco, Berlino, all’Opera di Parigi, Amsterdam, Buenos Aires, al Covent Garden e nei maggiori teatri americani da Washington a San Francisco. Ho avuto modo di ascoltarlo a Budapest, Berlino e Vienna. Sempre ineccepibile.
(Hans Sachs) 27 Settembre 2011 13:42

lunedì 26 settembre 2011

Ecco la vera riforma che ci chiede l’Europa in Il Sussidiario 27 settembre

PENSIONI/ Ecco la vera riforma che ci chiede l’Europa
Giuseppe Pennisi
martedì 27 settembre 2011
Foto Imagoeconomica
Approfondisci
FONDO SALVA-STATI/ Così il voto tedesco può mettere fine all'Euro, int. a C. Secchi
MANIFESTO CONFINDUSTRIA/ Gentili: così la Marcegaglia può incalzare il governo
Si può rimettere mano al sistema previdenziale tenendo specialmente in conto le esigenze delle giovani generazioni? Il tema, uscito dalla porta al momento della “manovra di Ferragosto”, è rientrato dalla finestra quando il 22 settembre se ne è parlato in Consiglio dei Ministri a proposito di programma per la crescita, da presentare entro le prossime due settimane.
L’Unione europea ci chiede di “riformare la riforma” della previdenza che a oltre 16 anni ha mostrato di non avere raggiunto i propri obiettivi: nonostante abbia creato un abisso tra il trattamento dei padri e quello su cui possono contare i figli, non ha arrestato la crescita della proporzione del Pil destinata alla spesa previdenziale: ora supera il 15% e si potrà stabilizzare unicamente se il tasso di crescita dell’economia torna dal rasoterra all’1,8% (secondo le stime del nucleo di valutazione della previdenza del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali) o dell’1,6% (secondo le stime della Ragioneria Generale dello Stato).
La richieste dell’Ue guardano essenzialmente al profilo dell’onere sulla finanza pubblica: si può ridurlo - occorre chiedersi - stabilendo una maggiore equità dell’attuale tra giovani generazioni e quelle più anziane? E si può farlo senza toccare i “diritti acquisiti”?
Cerchiamo di rispondere a queste domande iniziando dall’ultima. I “diritti acquisiti” variano al variare delle condizioni economiche e socio-politiche. La riforma del 1995 (e i suoi ritocchi) hanno inciso fortemente su quelli che sembravano essere i “diritti acquisiti” di tutti i futuri pensionati - da quelli appena entrati nel mercato del lavoro a quelli prossimi alla quiescenza.
Tuttavia, il provvedimento che più ha modificato i “diritti acquisiti” proprio di chi era già in pensione è la modifica del sistema di indicizzazione (aggiornamento degli assegni previdenziali all’andamento di prezzi e salari), una misura apparentemente tecnica, ma che in vent’anni ha trasferito circa 80 miliari di euro dalle tasche dei pensionati a quelle degli enti previdenziali. Mentre in un sistema previdenziale privato i “diritti” dipendono in gran misura dalla capacità di gestione alla luce di un andamento spesso imprevedibile dei mercati, nel sistema previdenziale pubblico i “diritti” sono il frutto di come Governi e soprattutto Parlamenti leggono l’evoluzione economica e sociale.
Sarebbe, però, errato non partire dal complesso di riforme già in atto per vedere come meglio tararle alle esigenze dei giovani. I suggerimenti e le proposte non mancano. Le più organiche sono quelle delineate di recente (inizio settembre) dal Center for Research on Pension and Welfare Policies (CeRP) del Collegio Carlo Alberto dell’Università di Torino. Il documento prende l’avvio dalla situazione immediata delle preoccupazioni (anche europee) per la finanza pubblica italiana e ricorda che la riforma del 1995 non sarà completata, a normativa vigente, prima del 2050. Contiene, quindi, una serie di proposte per giungere all’obiettivo di frenare l’escalation della spesa previdenziale.
Tali misure possono essere anche l’avvio di un riequilibrio intergenerazione. Da un lato, quanto minore è il fardello totale tanto minore può esserlo per chi in un sistema “a ripartizione” è chiamato a portarlo. Da un altro, con pochi ritocchi alle proposte CeRP si può fare molta strada in materia di equità tra generazioni.
In primo luogo, dopo una fase di riforme, occorrono regole che siano immodificabili per i prossimi 15-20 anni in modo da dare un buon grado certezza a tutti - elemento essenziale per programmare il proprio futuro (la pensione è una pensione sulla vecchiaia e programmare la terza età è il principale “diritto” di tutti); ciò può, anzi deve, essere blindato nella legge. In secondo luogo, le regole previdenziali devono essere uguali per tutti dato che il passato ci insegna che nell’eccessiva differenziazione delle regole si annidano privilegi e ingiustizie (ancora oggi vengono concessi ingiustificati trattamenti di favore a categorie di lavoratori quali parlamentari e liberi professionisti con casse autonome, ecc.)
In terzo luogo, i provvedimenti straordinari volti alla riduzione di breve termine della spesa - quali quelli che ci chiede l’Ue, devono essere improntati a un criterio di “giustizia ed equità” e i sacrifici maggiori devono essere chiesti a coloro i quali hanno redditi medio-alti, in particolar modo a coloro i quali hanno beneficiato e beneficiano della maggiore generosità delle regole previdenziali retributive applicate in passato.
In base a questi principi, un riassetto fattibile implica:
1) anticipare l’applicazione del “contributivo” dal primo gennaio 2012, applicandolo a tutti, fatti salvi i diritti previdenziali già maturati che daranno origine a una pensione calcolata con le regole attuali;
2) lasciare flessibilità nell’età di pensionamento: ossia, i lavoratori che hanno almeno cinque anni di contributi (oggi se non se ne hanno venti si perde tutto) devono poter scegliere a che età andare in pensione all’interno di una forchetta compresa tra i 63 e i 68 (eventualmente 70) anni. In caso di pensionamento anticipato prima dei 63 anni, la pensione verrà calcolata interamente con il sistema contributivo e l’accesso alla pensione sarà consentito solo se la pensione supera 1,2 volte l’ammontare dell’assegno sociale. Coerentemente con quanto disposto dalla legge 122/201, si dovrà inoltre prevedere l’adeguamento triennale dei requisiti di età per l’accesso al sistema pensionistico agli incrementi della speranza di vita;
3) chiedere un “contributo di solidarietà” - aggiuntivo rispetto a quello prefigurato nell’attuale “manovra” di finanza pubblica - alle pensioni più alte, specialmente se si tratta di baby pensioni e pensioni di reversibilità. eccessivamente generose;
4) Per il buon funzionamento delle riforme serve l’informazione. È essenziale che l’Inps (e gli altri enti previdenziali) inviino rendiconti periodici ai cittadini in cui siano riportati, per ciascuna posizione previdenziale, la quota di pensione giustificata - in base a criteri di equità attuariale - dalla contribuzione previdenziale effettuata lungo la vita lavorativa e la quota eccedente tale misura. Quest’ultima parte evidenzia infatti quello che può essere considerato il “contributo” della collettività (incluse le generazioni future) alla loro pensione individuale;
5) Risolvere una volta per tutte i problemi ancora aperti in materia di “totalizzazione” dei contributi dei co.co.pro e simili con quelli di dipendenti, poiché la gran parte dei giovani inizia la propria attività come co.co.pro ma prima o poi diventa dipendente. C’è un ddl e una proposta di legge bi-partisan in Parlamento: occorre farle viaggiare.
Queste misure relative alle pensioni “pubbliche” (già in atto in numerosi paesi Ue) devono essere affiancate a un riordino della previdenza integrativa che, tramite fusioni e incorporazioni, porti i 700 fondi esistenti a non più di una cinquantina.

TUTTI GLI ECONOMISTI CHE SPINGONO PER UNA FRANCOFORTE MENO INGESSATA in Il Foglio 27 settembre

TUTTI GLI ECONOMISTI CHE SPINGONO PER UNA FRANCOFORTE MENO INGESSATA
Giuseppe Pennisi
Le ultime critiche (in ordine di tempo) della professione economica alla Banca centrale europea (Bce) sono arrivate la mattina del 23 settembre: sullo “European Economics:Political Economy and Public Economics E-Journal” diretto da Marco De Rin e Francesco Giavazzi della Bocconi è apparso un severo saggio di un noto economista slovacco, Dusan Victor Soltes. Nel saggio l’”eurozona” è considerata “vittima dei criteri di Maastricht e di come sono stati interpretati dalle istituzioni dell’Unione Europea (UE)”. L’attacco è frontale: tanto il trattato quanto le interpretazioni sono implicitamente recessioniste. Più specifico il saggio diramato (sempre la mattina del 23 settembre) dal Center for European Policy Studies (CEPR Discussion Paper No. DP8565). Ne sono autori Florin Ovidiu Bible (Oxford), Ippei Fujiwara del servizio studi della Bank of Japan, e Fabio Piero Ghirino (Boston College)- quindi, un team internazionale. Sulla base di teoremi ed algoritmi, lo studio lancia una freccia al cuore della Bce: alla delibera cardine del Consiglio - quella secondo cui la politica monetaria europea deve mirare a tenere l’inflazione al di sotto del due per cento l’anno. In questo modo, afferma il lavoro, si ristagna.
Severo il giudizio di Katja Hillmann dell’Università dii Amburgo e di Wolfram Wide della Università di Muestern, in un saggio in corso di pubblicazione ma la cui bozza circola da tempo tra gli addetti ai lavoro. I due sono sostenitori della moneta unica ma documentano come la Bce non si curata dei differenziali di crescita e di inflazione all’interno dell’eurozona (od è stata incapace di gestirli), innescando crescenti divari nei conti con l’estero degli Stati membri ed un forte aumento del credito totale interno in alcuni di essi, contribuendo, così, all’incremento dei debiti sovrani.

Su linee non molto differenti due economisti relativamente giovani: Ernesto Crivelli (argentino di origine italiana, ora al Fondo Monetario) e Diego Valiante (del Center for European Policy Studies). In uno studio del primo uscito sul “Journal of Policy Reform”, promuovendo bassi tassi d’interesse nell’area, la Bce ha incoraggiato un eccessivo indebitamento pubblico sui mercati dei capitali (specialmente per infrastrutture). In un policy brief (della settimana scorsa) del secondo, alle origini del pasticciaccio attuale ci sono errori ed analogie con gli sbagli di politica monetaria fatti dall’Argentina nel 1998 e nel 2010; ora la Bce dovrebbe adottare una strategia di “quantitative easing” a sostegno di obiettivi di crescita- una svolta considerevole rispetto agli ultimi 12 anni. La crisi del debito sovrano sottolinea uno degli estensori del Trattato di Maastricht e degli statuti della Bce, Paul de Grauwe dellUniversità Cattolica di Lovanio ha reso chiaro che i compiti di una banca centrale non consistono unicamente nel far sì che il tasso d’inflazione sia basso. Per mantenere stabilità finanziaria l’istituto deve essere il prestatore di ultima istanza per le banche che appartengono al sistema; per la Bce ciò dire essere il prestatore di ultima istanza nel mercato dei titoli pubblici. Ciò non implica necessariamente l’emissione di eurobond. Ci sono strumenti intermedi che possono essere attivati o ri-attivati : a) acquisti di covered bonds a basso rischio; b) allungare da sei mesi ad un anno i propri prestiti alle banche del sistema; c) incoraggiare le banche centrali nazionali a fare prestiti di emergenza (come già fatto in Irlanda e Grecia) a banche in difficoltà nei loro Stati.
Mutare gli statuti della Bce per renderli simili a quelli della Federal Reserve vuol dire rinegoziare i trattati ( e 17 ratifiche). Tuttavia, come indicato, c’è spazio per interpretare meglio le regole vigenti e , sotto il profilo formale, possono essere sufficienti nuove delibere del Consiglio. Quando, tra poche settimane, il Prof. Draghi prenderà le consegne dall’Ing. Trichet, avrà un bel da fare per correggere il tiro (mentre si riscrivono i trattati).

domenica 25 settembre 2011

Illuminating the Spectrum in Music and Vision 30 agosto

Illuminating the Spectrum
Contemporary music at Salzburg,
heard by GIUSEPPE PENNISI

For the last five years, Kontinent has been a festival of contemporary music within the broader Salzburg Summer Festival. It might be more appropriate to use the past tense and to say that Kontinent was a marvelous five year experience, as was its predecessor, Zeitfluss, in the 1990s. It has been made crystal clear both to music critics and audience that, for the time being, the new Director General wants at least a pause in the experiment. Nonetheless, it is useful to recall that the concerts and the operas performed as a part of Kontinent were all sold out: also they brought to the banks of the river Salzach an audience, younger and in less formal attire, thus quite different from the subscribers to the main Festival series. Only God knows whether, after a couple of years of 'pause', Alexander Pereira will change ideas and contemporary music will again have its own niche at the Summer Festival. In the immediate future, though, contemporary music will have its short pre-Christmas Salzburg Festival organized by that little devil named Gustav Kuhn; the Festival is titled Delirium.

Salvatore Sciarrino, Anna Radziejewska and Otto Katzameier in Sciarrino's 'Macbeth' at the Salzburg Summer Festival. Photo © 2011 Silvia Lelli. Click on the image for higher resolution
Each of the four previous Kontinent festivals were dedicated to only one composer in this chronological order: Giacinto Scelsi, Salvatore Sciarrino, Edgard Varèse and Wolfgang Rhim. The fifth and, for the time being, the last of the Kontinent series offered three great stage works: Prometeo, Tragedia dell'Ascolto by Luigi Nono, Macbeth by Salvatore Sciarrino and Neither by Morton Feldman. There were also concerts (and also a ballet) with music composed by Edgard Varèse, Claude Vivier, Iannis Xenakis, Gérard Grisey, John Cage, Georg Friedrich Haas, Karlheinz Stockhausen and Giacinto Scelsi. Scelsi, who never considered himself to be a composer, thus opened Kontinent in 2007 and closed it in 2011.

David Haller, Rumi Ogawa-Helferich and Boris Müller in Luigi Nono's 'Prometeo' at the Salzburg Summer Festival. Photo © 2011 Silvia Lelli. Click on the image for higher resolution
Hence, the fifth edition of Kontinent offered a full overview of contemporary music in the post World War II era: the twelve note row system heightened in Darmstadt, the political and social protest of Nono and Stockhausen, the search by Varèse for increasingly more sophisticated elegance, the improvisation of Cage, the concise tension of Sciarrino, and outliers -- like Xenakis and Scelsi -- who did not belong to any school or tendency. To stage Prometeo by Nono, as we know, is a Herculean task because of the resources it requires; yet in spite of its difficulties, it has been staged in over thirty different places since its 1985 premiere. The compact Macbeth by Sciarrino has had several performances since its 2002 premiere in Schwetzingen; in Salzburg it was nearly juxtaposed with the Verdi Macbeth being performed in the main Festival under the musical direction of Riccardo Muti and the stage direction of Peter Stein.

The Zehetmair Quartet (Ruth Killius, Ursula Smith, Kuba Jakowicz and Thomas Zehetmair) at the Salzburg Summer Festival. Photo © 2011 Wolfgang Lienbacher. Click on the image for higher resolution
During my week in Salzburg I could not listen to all the concerts. Thus, I made a selection which could appear peculiar: on 15 August 2011, I went to the elegant Mozarteum Grosser Saal where the Zehetmair Quartet played two rarely performed Beethoven string quartets and the pianist Pierre-Laurent Aimard played Ives' Piano Sonata No 2, then on 16 August to the especially equipped caverns to listen to two equally rare Scelsi string quartets and Haas' String Quartet No 3 'In iij Noct'. There is not only a temporal logic in the choice (ie the proximity of the dates of the two concerts): Beethoven's two quartets (No 131 and No 135) are extremely modern, with an almost contemporary sound. The Quartet No 131 in C sharp minor embraces the widest gamut of form, texture and feeling, ranging from the remote beauty of the initial fugue to the popular tune of the scherzo to the nearly truculent pathos of the finale. It is nearly an anticipation of Mahler's Third Symphony, indeed of Mahler's sentence that 'music must contain the whole world'. After such a huge and unusual expansion, Quartet No 135 in D flat returns to the dimension and the spirit of Haydn and Mozart but it is almost hyperactive, full of variations, and more concise than most of Beethoven's work. As a connection between the two, Pierre-Laurent Aimard played the monumental one hour Sonata No 2 Concord by Charles Ives, an eclectic group of piano pieces now recognized as an idiosyncratic twentieth century masterpiece, at once a response and a tribute to some nineteenth century American writers and to the European classical and romantic musical tradition. As an encore they played a Schumann work for piano quintet. Thus, the most modern Beethoven, the most eclectic Ives, and the romantic Schumann for a total of nearly three hours of chamber music in the Mozarteum.

Pierre-Laurent Aimard at the Salzburg Summer Festival. Photo © 2011 Wolfgang Lienbacher. Click on the image for higher resolution
Pierre-Laurent Aimard needs no presentation due to his wide international career, especially in contemporary music (eg his long association with Boulez, Ligeti, Rhim and Stockhausen). The Zehetmair Quartet is one of the most highly regarded string quartets in Europe. Embarking on their first tour together in 1998, the quartet have astounded audiences with their technical brilliance ever since. They are regular performers at famous international summer festivals such as Edinburgh, Helsinki and Schleswig Holstein. Their Salzburg debut was last year. Thus, the quartet and the pianist belong to different schools, even though the Zehetmair Quartet recording gives emphasis to twentieth century music -- their recording of Hindemith's Fourth Quartet and Bartók's Fifth was awarded the Diapason d'Or. They molded beautifully in the concert, attracting the audience's attention and participation, in spite of the unusual length.

The Stadler Quartet at a recording session in Berlin. Photo © space-unit.de. Click on the image for higher resolution
The connection with the Scelsi and Haas concert, entrusted to the Salzburg-based Stadler Quartet (specializing in contemporary music) is many fold. Firstly in the 1980s, the string quartet was considered a musical species on its way to extinction; for instance The New Grove spoke of the 'imminent end' and Ludwig Finsher of a 'largely disbanded' form. In the final part of the twentieth century, however, the string quartet started a new season, mostly due to Italian composers such as Berio, Bussotti, Maderna, Sciarrino, Donatoni and even the 'non-composer' Scelsi. Interestingly, their production has a link with the innovation of Beethoven last quartets. Scelsi's String Quartet No 4 (1964) and No 5 (1985-86) as well as Haas' 2001 Nocturnal Quartet appear as great grand children of the Beethoven Quartets Nos 131 and 135 because of their emphasis on micro-variation. The Scelsi Quartets are on a single note. In Quartet No 4, focal pitches, timbre and microtonality all feature, but one of the most interesting aspect of the work is the way how Scelsi combines all these aspects to create form, phrasing and harmony. In Quartet No 5, his last work, on matrix style, the note F is slowly fanned out into a cluster, giving up its tonal qualities, to resound in the finale with a powerful vibrato. Whereas Scelsi's Quartets illuminate the spectrum of the single note, Haas' microtonal In iij Noct, to be played in full darkness and with the four soloists at the corners of the hall, brings to the listeners all the sounds of the night. The concert was warmly applauded by the audience in the large caverns.
Copyright © 30 August 2011 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

SALZBURG FESTIVAL
MORTON FELDMAN
LUDWIG VAN BEETHOVEN
CHARLES IVES
ROBERT SCHUMANN
SALZBURG
AUSTRIA
ITALY
CHAMBER MUSIC
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Faith and the Devil in Music and Vision 22 agosto

Faith and the Devil
GIUSEPPE PENNISI reports on
Janácek and Strauss at the Salzburg Summer Festival

The Salzburg Summer Festival (27 July to 29 August 2011) is one of the most important European cultural events. It offers not only classical music (operas, symphony and chamber concerts), but also a section devoted to contemporary music and both classical and modern dramas. It is in a stage of transition because in 2012 a new Director General will be responsible for the event: Alexander Pereira, who has for several years been the successful Director of the Zurich Opera House. Pereira has the reputation of being less interested in experimentalism than his predecessors: it is rumored that next year only one operatic title (Zimmermann's Die Soldaten) could be considered 'rare' -- it is seldom performed, even though it was premiered over forty years ago -- and everything else would be 'safe bets' like La bohème, Carmen and Die Zauberflöte. It's hard to understand why 'safe bets' are required: in spite of the high prices, the demand for tickets is around 800,000 whilst availability is about 600,000. Salzburg features four theatres, one open air theatre and a large number of concert halls.
This Summer, the festival's theme, Faith and the Devil, is well reflected in the program: for example, the drama section includes full performances of Goethe's Faust, starting at 5pm and ending between 2.30 and 3am the following day, the operas deal with 'high subjects' and the concerts also look at the afterworld.
In a week, I could get only a feeling of the festival. In this review, I report on two of the seven operas in the schedule. In a future article, I will report on the concerts. I selected two operas on the basis of the following criteria: a) they should be new productions; b) their performances are comparatively rare; and c) they involve co-productions likely to be seen also in other theatres and countries. The two operas are Leos Janácek's Vec Makropulos (generally translated into English as The Makropulos Case or The Makropulos Affair, although actually in literal translation it means 'the Makropulos thing'), and Richard Strauss' Die Frau ohne Schatten ('The Woman Without a Shadow'). Both operas deal with philosophical issues on the future of one's life and of humanity.
Vec Makropulos is one of Janácek's last works. Premiered in 1926 in Brno, it is based on a then successful play by Karel Capec which appears like a thriller: the gradual uncovering of the mystery surrounding the opera singer Emilia Marty, who is in possession of detailed information about facts and documents long past (and of critical importance in a major trial which has lasted over one hundred years) and who exerts a strange fascination on everyone coming into contact with her. In three acts and a total duration of about ninety minutes, we discover that due to a strange set of events and a potion -- the 'Vec Makropulos' -- she has lived for 337 years. Her original name was Ekaterina Makropulos: she has changed it several times (but always keeping the E M initials). She lost the 'Vec Makropulos' (ie the recipe for the potion) in about 1820, and unless she finds it again, she will have to die. Well, she gets back into possession of the 'Vec Makropulos' but discovers that she is tired and no longer has the desire to live for another three hundred years. During the previous three centuries, she has lost all her friends and affections; now she wants to die. She gives the 'Vec Makropulos' to a younger singer, Krista, who decides to burn it.

From left to right: Angela Denoke as Emilia Marty, Raymond Very as Albert Gregor and Ales Briscein as Janek in Act I of Janácek's 'Vec Makropulos' at the Salzburg Summer Festival. Photo © 2011 Walter Mair. Click on the image for higher resolution
The score is extremely complex for both orchestra and singers. Firstly, the opera is, perhaps, Janácek's most successful attempt to merge words with tonalities so that the audience could grasp each and every nuance of a complicated trial thriller lasting ninety minutes (instead of the nearly four hours of Capec's play (where the main plot is intertwined with lengthy philosophical discussion; this however can hardly be fully appreciated unless the audience understands Moravian (the language of the libretto) and often the opera is performed in translation. The Salzburg production rightly opts for the original language and generous supertitles in both English and German. Secondly, until E M's final arioso, the opera is constructed on musical fragments joined in a large variety of combinations; a real challenge for both the orchestra and the singers. The fragments include many solo parts but are introduced by a vast, and quite formal overture and linked with interludes. (The third act interlude -- at first fast and shrill and then slow and lyrical -- was magnificent.) Thirdly, all the characters are very vividly designed, from the stunning central personality, E M, to the smaller subsidiary roles; this entails the need for excellent singers to also have very good acting skills -- thus an outstanding cast.

From left to right: Raymond Very as Albert Gregor, Peter Hoare as Vitek and Jurgita Adamonyté as Krista in Act I of Janácek's 'Vec Makropulos' at the Salzburg Summer Festival. Photo © 2011 Walter Mair. Click on the image for higher resolution
The 13 August performance had all these elements. The opera is coproduced with Teatr Weilki (Polish National Opera), and most likely from Warsaw, it will travel elsewhere in Europe. The stage direction (Christoph Marthaler), sets and costumes (Anne Viebrock) and lighting (Olaf Winter) transformed the stage of the huge Grosse Festpiele Haus into an oversized Court of Law where in the first act the legal trial takes place and in the third act, E M is questioned by the others about her origins, whereabouts and real name. The action is fast and continuous, without interruption. Acting and singing are superbly molded.

From left to right: Sasha Rau as Jin Ling, Silvia Fenz as Mary Long, Linda Ormiston as a Scottish maid, Angela Denoke as Emilia Marty, Johan Reuter as Jaroslav Prus, Raymond Very as Albert Gregor, Peter Hoare as Vitek and Jochen Schmeckenbecher as Dr Kolenatý in Act III of Janácek's 'Vec Makropulos' at the Salzburg Summer Festival. Photo © 2011 Walter Mair. Click on the image for higher resolution
The baton of Esa-Pekka Salonen is tight but his gestures large; the Wiener Philharmoniker responds very well to his tense conducting, opening up into a real post-Romantic song in the final scene. Angela Denoke (E M) is one of the few sopranos that can cope with a role where she has to go from conversation pieces to declamation to a large arioso with impervious Cs. Raymond Very, a good dramatic tenor, is Albert Gregor, E M's great-grandchild falling in love with her. Johan Reuter is a mellifluous baritone, Jaroslav Prus, who sells E M the 'Vec Makropulos' for a night of (frigid) sex. Ales Briscein is Jaroslav's son, who commits suicide when he understands that his father has had intercourse with the woman he fell in love with. Jurgita Adamonyté is the young Krista who burns the 'Vec Makropulos'. There were standing ovations for all and accolades for Esa-Pekka Salonen and Angela Denoke.
Die Frau ohne Schatten, seen 14 August, is almost a contemporary of Vec Makropulos as it was premiered in Vienna in October 1919, but they are musically and dramaturgically very different. Nonetheless they have similar philosophical and even religious implications. In Vec Makropulos, the key question is the meaning of life if there is no afterlife, and the meaning of affection, even of sex, if one of the partners is immortal. In Die Frau ohne Schatten, conceived and written during World War I and based on a host of complicated Asian tales, two main themes are interlinked: a) the meaning of a childless life (as children are the bridge between the past and the future); and b) the need for a path of suffering in order to reach joy and happiness. I strongly disagree with musicologist David Murray who states that the opera 'has no social dimension whatever' and that 'Hofmannsthal's imagination was gripped with two womanly types -- one a spirited maid ethereal to the point of suffocation, the other all too human'. The correspondence between Hofmannsthal (who wrote the complex libretto) and Strauss reveals that the confrontation between the two types of women was not as important as the search for the meaning of the continuation of the human species during a phase of great suffering (World War I).

Anne Schwanewilms as The Empress with children's choir and extras in Richard Strauss' 'Die Frau ohne Schatten' at the Salzburg Summer Festival. Photo © 2011 Monika Rittershaus. Click on the image for higher resolution
Die Frau ohne Schatten is seldom performed outside the German speaking world because of the tremendous means it requires: twenty-four principals; a huge orchestra (violas and cellos in double sections like the violins, mostly quadruple wind, extensive percussion including glass harmonica, and offstage woodwind septet, a dozen extra brass, and wind and thunder machines); a double chorus and a children's chorus. No less demanding are the stage set requirements: eleven changes of sets (in three acts, lasting about four hours), most of them without even a short intermission to move props (there are seven intermezzos all on the same leitmotif) and a series of special effects: singers descending from an upper stage to a lower stage, fountains and waterfalls appearing on the stage, one of the protagonists being turned into a statue and the like. Some twenty five years ago, a Jean Pierre Ponnelle La Scala production attempted to solve these problems by making use of highly stylized Chinese Theatre. More recently, in Florence, Yannis Kokkos' production (see Music & Vision, 2 May 2010) followed very traditional lines; the production was difficult to forget for its splendor but helped the theatre to go almost bankrupt. Only major houses, such as the Metropolitan Opera House, where a Herbert Wernicke production has been on for a few seasons, can afford to stage it.

Michaela Schuster as The Nurse and Peter Sonn as The Apparition of a Youth with (behind) Maria Gruber, Andrea Schalk and Liliya Markina as chorus girls in Richard Strauss' 'Die Frau ohne Schatten' at the Salzburg Summer Festival. Photo © 2011 Monika Rittershaus. Click on the image for higher resolution
The stage director Christof Loy had a rather innovative idea that ruffled quite a few traditional feathers. For this Salzburg production, shared with the Wiener Staatsoper, where it is expected to become a repertory item, he does away with all the Asian tale mythology and special effects. The plot is set in the early sixties in the Sofiensaal where for the first time, under the direction of Karl Böhm and with a stellar cast, Die Frau ohne Schatten was recorded; in the same studio (now no longer operational) Georg Solti conducted the first stereophonic recording of Wagner's Ring (still a magnificent piece of work, not a collector's item). As the recording sessions for Die Frau ohne Schatten proceed, the singers enter the psychology and the drama of the characters; thus, the emphasis is not on the complex and elaborate tale but on a human, maybe too human progression to childbearing, happiness and compassion for others. It is honest to report that many European (especially Italian) opera critics have not appreciated this approach but that, after more than four hours of music, the audience saluted it with fifteen minutes of applause for the cast, the conductor, the stage director and the costume designer.

Evelyn Herlitzius as The Dyer's Wife (centre) with Vivien Löschner and Sabine Muhar as actors in Richard Strauss' 'Die Frau ohne Schatten' at the Salzburg Summer Festival. Photo © 2011 Monika Rittershaus. Click on the image for higher resolution
Such an approach to staging may very well fit the score better than the colossal/special effects style. Indeed, Die Frau ohne Schatten has a huge expressionistic orchestral canvas (including grandiose scenic descriptions) but few lyrical set pieces. Instead, like in Debussy's Pelléas et Mélisande, very intimate dialogues and arioso, strung upon a rich orchestral chain, are linked by elaborate recitative. Thus, the musical director has a very difficult task, especially at the end of the second act when the orchestral richness may cover the voices.

A scene from Richard Strauss' 'Die Frau ohne Schatten' at the Salzburg Summer Festival. Photo © 2011 Monika Rittershaus. Click on the image for higher resolution
Christian Thielemann was the conductor (as well as for Wernicke's very different production for The Met in New York). His baton helped the Wiener Philharmoniker, the Staatsoper Chorus and the Salzburger Festival Kinderchor to have the right pitch throughout the performance. The cast was top-class. It's impossible to mention all twenty-four soloists, so I'll focus on the five protagonists. Evelyn Herlitzius (Die Frau) dealt very well with the impervious role and her sumptuous acute filled the two-thousand-eight-hundred seat theatre. The young and attractive Anne Schwanewilms (as The Empress) was quite good, and just sublime in phrasing and legatos. Michaela Schuster was an effective 'Nurse' but with a few difficulties in descending to grave tonalities. Wollfgang Koch (Barak) is one of the best available Wagnerian-Straussian baritones. Stephen Gould (The Emperor) is still a good heldentenor.
Copyright © 22 August 2011 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

SALZBURG FESTIVAL
LEOS JANACEK
RICHARD STRAUSS
ESA-PEKKA SALONEN
VIENNA PHILHARMONIC ORCHESTRA
VIENNA STATE OPERA
SALZBURG
VIENNA
AUSTRIA
GERMANY
CZECH REPUBLIC
POLAND
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Patriot and Terrorist in Music and Vision 14 agosto

Patriot and Terrorist?
New aspects of Rossini
brought to light at the
2011 Rossini Opera Festival in Pesaro,
discussed by GIUSEPPE PENNISI

Gioacchino Rossini (1792-1868) is generally known for his comic operas, always in repertory even during Romanticism and 'Verismo', his abilities as a cook (as well as an inventor of very special recipes), his attraction for beautiful ladies and his right-to-center political views. Over the last thirty-two years, the Rossini Opera Festival (ROF), certainly the most important opera festival of the Italian summer, has unveiled his mastery in opera seria, tragédie lyrique and even grand opéra. In the first decades of the nineteenth century, he was a tremendously brilliant composer of all genres of musical theatre. Even though he retired from the stage in 1829 at the age of thirty-seven, he composed a lot of operas and other types of music. Now, operas previously unknown like Tancredi, La Donna del Lago, Mosé in Egitto and Maometto Secondo are standard fare of the major opera houses in all continents. They are especially appreciated in the rapidly growing Japanese opera market. This is mostly the outcome of joint work by the Rossini Foundation and the ROF -- they operate hand-in-hand.

Teatro Rossini in Pesaro. Photo © Studio Amati Bacciardi. Click on the image for higher resolution
Rossini lived most of his life in Paris where he moved after the 1848-1849 riots in Italy. In the French capital, he ran an important salon where most of the European musical and political world spent pleasant afternoons and evenings of social and intellectual entertainment. He appeared quite distant from the Italian national unification movement (generally known as Risorgimento), even though several Italians with various roles in the Risorgimento were frequent guests of his Parisian salon. After his death, he was buried in the Père Lachaîse Montmartre cemetery. Only in 1887 did the Italian government request that his remains had to be kept in a monumental tomb in Santa Croce church in Florence.

Inside the Rossini Theatre. Photo © Studio Amati Bacciardi. Click on the image for higher resolution
The ROF 2011 ran the risk of cancellation because of the difficult public financial situation in Italy. Even though 2011 government subsidies to the Festival are half the 2000 level, modern technologies allow for less costly sets, private sponsors have increased their contributions, many artists reduced their fees, a well known stage director worked for free (even at the stage sets, costumes and lighting). So the Festival is on, until 23 August. The program is challenging: five operas including two new fully-staged productions: Adelaide di Borgogna and Mosé in Egitto, two fully staged revivals: Il Viaggio a Reims and La Scala di Seta, and the world premiere (in concert form) of a new critical edition of Il Barbiere di Siviglia, as well as several bel canto concerts and Rossini's full piano production called Les Péchés de Vieillesse ('Old Age Sins'). The ROF works hand in hand with the Rossini Foundation; thus, it produces 'Rossini D O C'. For this reason, tickets are normally fully sold in February, half of the audience and 60% of the accredited music critics are non-Italians. To go to the ROF is a truly international experience, like Salzburg, Bayreuth, Aix-en-Provence, Glyndebourne and a very few others. I spent a week in Pesaro (a beach resort) but this report deals only with the opening nights -- 10 and 11 August -- of the two new productions: Adelaide di Borgogna and Mosé in Egitto.

The Rossini Theatre curtain. Photo © Studio Amati Bacciardi. Click on the image for higher resolution
This thirty second edition of the ROF has a real surprise: the two new productions show Rossini as a patriot and as a freedom fighter, nearly a sympathizer of terrorism. Adelaide di Borgogna is a world première in modern times. It was composed in 1817 for the Teatro Argentina in Rome and toured a few Italian theatres until 1820, after which it disappeared from theater planning. It was revived in concert form in Edinburgh nearly three decades ago (and there is a good Opera Rara CD). It was staged, but not very well, in 1984 at the Martina Franca Valle d'Itria Festival for two evenings. A new concert version was presented not long ago at the ROF. However, all these attempts were not based on a critical edition where singers and conductor would know which aria and which recitative was authored, or at least accepted, by Rossini and which by his assistants or even other musicians. Also, only with a critical edition would the musical direction know the right vocal and orchestral pitch expected by Rossini. For example, one of the protagonist roles -- Emperor Ottone -- was often entrusted to a tenor, whereas it was written for an alto and one of the villains (Adelberto) requires a very high texture, nearly that of a countertenor. Also the Martina Franca staging placed emphasis on the complex -- and hardly believable -- plot of love and power politics, whilst in the music of the twenty-five-year-old Rossini there is much more. Even though the opera had been commissioned by the Papal State, the score was full of patriotic pulses such as the initial populace chorus and the chorus of soldiers in the first act; they anticipate the 1844 patriotic choruses in Verdi's Macbeth. In short, a new Rossini -- still to be discovered.

A scene from Act I of 'Adelaide di Borgogna' at the Rossini Opera Festival. Photo © 2011 Studio Amati Bacciardi. Click on the image for higher resolution
The plot revolves around a family power struggle to conquer the 'Iron Crown' of the Kingdom of Italy in Medieval 950 or there abouts. The villains are beaten up at the end by the intervention of the Sacred Roman Emperor himself who destroys the traitors, marries the widow of the King of Italy (who had been poisoned by his own relatives) and establishes a 'personal union' between the Empire and the independent Kingdom. In short, plenty of material for patriotic choruses, marches, arias full of nostalgia and love duets. This is material the young Rossini exploited so well to circumvent the stiff Board of Censors of the Papal State. If the libretto (by Giovanni Federico Schmidt) is weak, the musical score is uneven. Rossini was fatigued at the end of 1817 after twelve months composing La Cenerentola for the Teatro Valle in Rome, La Gazza Ladra for La Scala in Milan and Armida for Teatro San Carlo in Naples. He had looked after their premieres and also after several revivals of Il Barbiere di Siviglia. He made extensive use of his collaborators to help him out with Adelaide; he also 'borrowed' musical numbers from some of his previous operas. The outcome is patchy: a rather cohesive first act and a second act where good musical numbers alternate with trivial sections. The musical director and conductor, Dmitri Jurowski, did quite well in smoothing out the score. He was helped by an excellent company of singers. Daniela Barcellona was a top-notch Ottone with a sparkling entry aria and rapturous love duets, but the real surprise was the young Australian soprano Jessica Pratt (Adelaide) with a perfect emission as well as the vocal agility for a complex rondo. Good phrasing was the main suit of Nicola Ulivieri (one of the two villains) whilst the high texture tenor Bogdan Mihai (Adelberto, the other villain) has still to fully grow up. The others in minor roles were all good.

Nicola Ulivieri as Berengario in Act I of 'Adelaide di Borgogna' at the Rossini Opera Festival. Photo © 2011 Studio Amati Bacciardi. Click on the image for higher resolution
The real crux of the production was the attempt of Pier'Alli (stage director, set and costumes designer and also in charge of lighting) to make some sense of the libretto. With the help of projections and with a-temporal costumes, he made Adelaide into a patriotic opera centered around the crown of Italy and freedom and independence for the Italians. The costumes may have been a-temporal, but the acting was rather confused. Only part of the audience appreciated Pier'Alli's work. Even though he had to deal with an incredible libretto, a possibility would have been to read it in the same way that an 1817 audience in Rome would have interpreted such a disconnected plot: ie like a puppet show about in-fighting in Medieval times as perceived by the upper middle class in Napoleonic times -- this would have meant painted stage sets, highly stylized acting and alike. The overall outcome could have been full of irony whilst after the initial interest in the projections, the Pier'Alli staging was quite boring.

Daniela Barcellona as Ottone and Jessica Pratt as Adelaide in Act I of 'Adelaide di Borgogna' at the Rossini Opera Festival. Photo © 2011 Studio Amati Bacciardi. Click on the image for higher resolution
Most of the audience was shocked by the staging of Mosé in Egitto, called in 1818 'a tragic-sacred action', in short an oratorio which could be performed during Lent when operas (both comic and serious) were not normally allowed. The libretto by Andrea Leone Tottola follows the Bible quite closely. Normally, staging is inspired by some Hollywood movie like The Ten Commandments. Nothing like in this Graham Vick production (with sets and costumes by Stuart Nunn; lighting by Giuseppe Di Iorio). We are in Palestine today. Or rather in any of the last fifty years. With a major difference: the King of the Egyptians, his family and his armies are the Israelis and Moses is the head of guerilla movement of freedom fighters. In addition, the baritone in the title role is made up to look like Osama bin Laden. Thus, he does not carry a staff but a machine gun. His followers are ready to become kamikaze to get their freedom. The ending is open. After the great D major section concluding the chorus and the partition of the Red Sea waters, a huge Israeli tank advances; it is confronted by a young Palestinian child, full of explosive under his vest. The soldier offers a chocolate bar to the little boy. But at that point, Maestro Roberto Abbado puts his baton down and the theatre becomes deeply dark. We do not know whether the driver of the tank and the child will smile at each other and shake each other's hand or if they will explode together. It is left to the audience to discuss and debate it -- a primary function of any form of performing art and especially of music. But this is very distant from Rossini's concept and music, even though not a single word of Tottola's libretto is modified. Naturally, the Jewish community organizations delivered a protest even before the opening night -- just on the news provided by the press attending the dress rehearsal. On 11 August, there was some fuss in the theatre but applause and even accolades did overcome the boos (to the stage direction and setting).

A scene from Act I of 'Mosé in Egitto' at the Rossini Opera Festival. Photo © 2011 Studio Amati Bacciardi. Click on the image for higher resolution
It is quite normal that some of the audience prefer a more traditional, eg Biblical, interpretation but others appreciate a politically incorrect version like that presented. In short, the production is enthralling but quite far away from the original work: it is a call for peace where God is never present, even though some key points of the opera are prayers to the Almighty (eg In Moses' Eterno, Immenso, Incomptensible Dio! in Act I and the chorus Dal Tuo Stellato Soglio in Act III, added for a 1819 revival always in Naples). In my view, this is not the most significant shortcoming. Actually, I liked the performance. The key weakness is that the elaborate setting and acting prevent the production from being exported to other theatres. In Pesaro it was staged in the Adriatic Arena, a huge building originally conceived for sporting events. Nowadays, if opera is to survive, performances must travel and their costs must be shared by several theatres, as we have seen, eg, when discussing the Puccini Festival in M&V on 11 August.

Dmitry Korchak as Osiride and Alex Esposito as the King of the Egyptians in Act I of 'Mosé in Egitto' at the Rossini Opera Festival. Photo © 2011 Studio Amati Bacciardi. Click on the image for higher resolution
The orchestra and the chorus (from the Teatro Comunale di Bologna) are highly professional. I felt it from the very beginning: the darkness scene where, after three summoning chords, a semiquaver figure in G minor ushers in the chorus of distraught Egyptians.

Sonia Ganassi as Elcia and Riccarda Zenellato as Moses with the chorus in Act II of 'Mosé in Egitto' at the Rossini Opera Festival. Photo © 2011 Studio Amati Bacciardi. Click on the image for higher resolution
Alex Esposito (the King of the Egyptians) and Riccardo Zanellato (Moses) are two strong baritones in a fierce confrontation: on 11 August, Esposito was stronger than Zanellato who, also because of the staging, was not sufficiently solemn in the first act prayer, while Roberto Abbado and the orchestra gave the right emphasis to the trumpets, the horns and the woodwind and the brilliant C major (for the return of the light to the Egyptians) -- a tribute Rossini intended to pay to Haydn's Creation. Sonia Ganassi is a superb Elcia and Dmitri Korchak an effective Osiride -- the two unlucky lovers separated by a wall of racial hatred. They emphasize sensual love in the duet sliding, when discovered, into the well-known masterly quartet Mi Manca la Voce. Yijie Shi as Aaron handles the high texture and the series of acutes quite well. As already said, on 11 August, at the end of the performance, there were a few boos to the stage directions, but standing ovations for the musical direction and accolades to Esposito, Ganassi and Korchak.
Copyright © 14 August 2011 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

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